I nuovi sciamani vivono di hi-tech
Il domenicano Eric Salobir mette a fuoco i
grandi vantaggi che possono venire dalle innovazioni digitali, però «il
problema nasce quando la macchina si sostituisce all’uomo». E il cristianesimo
come può diventare una chance per il globo informatizzato? «Questo mondo tende
a costruire un ambiente ex novo, senza tempo né passato. Il cristianesimo ha
una lunga conoscenza dell’uomo, legge il mondo e la storia con gli occhi di
Dio»
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di LORENZO FAZZINI
Un domenicano che frequenta il mondo dell’hi-tech più innovativo e lo considera un luogo giusto far risuonare la 'robusta antropologia' della tradizione cristiana. Con Eric Salobir, teologo francese, approfondiamo il mondo della tecnologia digitale.
Nel suo libro Dieu et la Silicon Valley lei
afferma che le tecnologie sono prodotti della società «nei due sensi del
genitivo: noi li produciamo e, a forza di utilizzarli, loro ci plasmano» La
tecnologia digitale cambierà l’essere umano?
Penso che le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale
stiano profondamente trasformando l’essere umano. Non siamo davanti solamente
ad una tappa della rivoluzione industriale, ma realmente ci troviamo in a un
momento in cui cambia la percezione di noi stessi e del mondo. Un po’ come
quando sono arrivati i caratteri mobili a stampa. Per esempio, con l’uso della
tecnologia e il telelavoro sono cambiate le nostre interazioni intraumane,
abbiamo meno creatività, si tengono incontri amorosi tramite app, cosa ben
diversa dal confronto relazionale concreto. Cambia la nostra percezione del
sapere: prima ci affidavamo alla ricerca in biblioteca, oggi basta un clic
per sapere la capitale d’Italia. Ma dal punto di vista cognitivo, non credo che
siamo davanti a un cambiamento necessariamente negativo.
Perché afferma questo?
Prima della sua morte, ho discusso a lungo con il filosofo
Michel Serres su questi cambiamenti. Egli mi faceva presente che quando siamo
passati dalla tradizione orale a quella scritta, abbiamo perso molto in termini
mnemonici, ma abbiamo guadagnato molto sotto altri aspetti. Io personalmente
non ricordo nessuno dei numeri telefonici che abitualmente compongo con il mio
iphone, lascio che questa funzione lo svolga lo strumento. Certamente si pone
il problema se lasciamo che questi strumenti ci governino e diventino i nostri
padroni. La questione riguarda quindi il modo in cui usiamo questi strumenti,
ovvero se abdichiamo alla nostra identità di esseri umani rispetto a un
macchina. Se decidiamo noi come usiamo internet, come compriamo, cosa
acquistiamo, la libertà umana è ancora sovrana. Dunque, se gli strumenti li
usiamo in modo umano, essi ci umanizzano. Altrimenti, sono forieri di
disumanizzazione.
In un contributo su 'Vita e pensiero' lei afferma che nella
Silicon Valley troviamo trace di spiritualità. Per esempio, i grandi personaggi
del digitale invitano i lama tibetani a tenere loro delle meditazioni. C’è una
chance per il Vangelo in quel mondo?
Penso che nella Silicon Valley ci sia una
sete spirituale: questo è certo.
Essa è costruita sulle rovine delle utopie degli anni
Sessanta, l’ideale di superare l’imperfezione del mondo. Non è un caso che
molte delle nuove tecnologie siano applicate all’ambito medico. Esiste anche
per la fede cristiana una chance in questo mondo se siamo capaci di
inculturarvi il Vangelo non partendo dalle nostre domande ma dalle domande che
quel mondo pone e si pone. In particolare, credo che l’antropologia
giudaico-cristiana abbia molto da dire all’ambiente hi-tech, perché porta
avanti una riflessione fatta di etica incarnata, ad esempio quella proposta in Fratelli
tutti e Laudato si’ di Francesco.
Alcuni libri recenti tracciano collegamenti intriganti tra la
spiritualità e l’ambiente hi-tech. Per esempio, Appletopia. Media
Technology and the Religious Imagination of Steve Jobs e Apple come esperienza
religiosa (Mimesis), ma anche il recente La valle oscura( Adelphi),
il memoir della startupper Anna Wiener. C’è qualcosa di religioso nell’uso
della tecnologia digitale?
Sicuramente troviamo qualcosa di religioso nello sviluppo di
tale tecnologia, in particolare nel senso antropologico in cui essa si
sviluppa. Esiste qualcosa di sciamanico, un certo richiamo all’elemento magico
e soprannaturale nel modo in cui la tecnologia si sviluppa. Prendiamo un esempio:
nella Roma antica vi erano degli dei domestici che sovraintendevano alle
necessità del nucleo domestico. Se ci pensiamo, è quello che chie- diamo
ai nostri device, ai quali demandiamo la sicurezza dei nostri
appartamenti, l’uso dei nostri elettrodomestici, perfino la conoscenza sul
tempo di domani, se pioverà o ci sarà il sole: una sorta di oracolo portatile!
Insomma, ricorriamo a loro con un senso sciamanico. Non si va lontano dal vero
quando si dice che la tecnologia ha qualcosa di magico. Quando sorge il
pericolo? Quando lasciamo che siano i robot a fare il nostro lavoro e a
garantirci la sicurezza al nostro posto. Quando la macchina si sostituisce
all’uomo, allora sorgono i problemi. Essere umani è un fatto costoso e
difficile, la macchina invece non rischia nulla.
Quali sono le sfide più grandi che la tecnologia digitale
porta alla fede cristiana?
Se guardiamo al grande racconto biblico della Genesi, il
peccato originale ci parla della nostra strutturale incompletezza. Adamo ed Eva
sono incompleti, esiste in loro una breccia aperta all’altro e all’Altro. Il
mondo, per l’autore biblico, non esiste solo per me. Io, da solo, non posso
trovare la piena soddisfazione di me stesso: esiste una breccia che noi
cristiani chiamiamo Dio e che si è fatto presente a noi in Cristo.
L’uomo può chiudere questa breccia e questa apertura, con il
peccato, dicendo di essere padrone e bastevole a sé stesso. Il
pericolo che vedo per la tecnologia è il medesimo, quello di pensarsi
capace di tutto da sola e di bastare
a sé. L’uomo invece è strutturalmente questa relazione aperta
all’alterità. E, infatti, quando Adamo ed Eva cercano di farlo da soli, si
scoprono nudi, ovvero fragili. Se la tecnologia si concepisce autosufficiente,
non c’è più bisogno né posto per Dio. Ma questa visione sarebbe quella di
un’erronea chimera, perché la breccia si ripropone di continuo.
In fin dei conti, come cristiani bisogna temere la tecnologia
digitale?
Seguendo Giovanni Paolo II, direi: 'Non abbiate paura!'. Il
cristiano non ha paura di niente perché da tutto, anche dalla paura della
tecnologia, l’ha liberato Cristo. Non c’è bisogno di distruggere gli apparecchi
tecnologici, io non sono un luddista. Meglio comprenderli e farli comprendere.
La paura è una cattiva consigliera.
Quale può essere il contributo del cristianesimo alla
tecnologia digitale?
Tutte le realtà che portano avanti l’hitech, le varie aziende
e i centri di ricerca, sono relativamente recenti e nuovi, mentre il
cristianesimo ha una tradizione millenaria di pensiero e di pratica, comprovata
dall’esperienza. Il mondo dell’hi-tech tende a costruire un ambiente ex novo,
senza tempo né passato. Il cristianesimo invece ha una lunga comprensione
dell’uomo, legge il mondo e la storia con gli occhi di Dio. In definitiva, il
cristianesimo può offrire un’antropologia robusta e offrire un quadro di
comprensione della realtà più vasto. Inoltre, tutto il deposito del pensiero
sociale cattolico può risultare fecondo. Il fatto, per esempio, che la Chiesa
sia stata la prima a dichiararsi contraria alla schiavitù ci parla di una
capacità di giudicare la storia che merita attenzione e ascolto.
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