Parla lo studioso David Weinberger: «Per l’evoluzione delle biblioteche in piattaforme sono fondamentali la condivisione e il confronto dei dati» «I sistemi di apprendimento automatico accrescono la nostra responsabilità nella ricerca di un senso da dare alla realtà»
- --di ALESSANDRO ZACCURI
«Il punto – spiega Weinberger ad Avvenire –
è che il web e l’Intelligenza Artificiale stanno mettendo in discussione la
concezione tradizionale della conoscenza, che nella cultura occidentale era
rappresentata dalla convinzione che la verità derivasse dal raggiungimento di
un accettabile grado di certezza. Si trattava di stabilire un consenso: di
conseguenza, ciò su cui si continuava a dibattere non poteva ancora essere
considerato come oggetto di conoscenza. Ma questo prevedeva una conoscenza
precedente, in un percorso a ritroso che arrivava fino alle basi del sapere.
Raggiunte e consolidate le quali, si poteva procedere a elaborare altra
conoscenza».
Un processo del genere è ormai superato?
Al contrario, riveste ancora grande importanza. Ma in questa
fase chi va in cerca di conoscenza si trova ben presto all’interno di una rete
di idee tra loro interconnesse, che continuamente espandono, spiegano o
contraddicono la loro stessa interconnessione. Se ne potrebbe dedurre che, ora
come ora la conoscenza, non si trovi più nei libri o nelle nostre menti,
ma in queste reti instabili e in continua discussione. La conoscenza, insomma, sta
avvenendo.
L’idea è suggestiva quanto pericolosa, ma va comunque presa
in considerazione. Se la conoscenza è attualmente più instabile che stabile,
allora siamo chiamati ad apprendere, trasmettere e favorire nuove modalità
collaborative, capaci di restituire significato al mondo.
Quale può essere il ruolo delle biblioteche?
Le biblioteche non si sono mai limitate a conservare
informazioni, ma sono sempre state a loro volta produttrici di conoscenza. Oggi
però la loro evoluzione in piattaforme dovrebbe incentrarsi
sull’obiettivo di rendere proficua la condivisione delle informazioni
che le stesse biblioteche generano: gli elenchi delle consultazioni e
dei prestiti, le richieste di opere non presenti nelle collezioni, le
valutazioni degli utenti, tutti i metadati disponibili nei cataloghi cartacei
eccetera. Molto si può ricavare da questo patrimonio, specie comparando
tra loro i comportamenti ricorrenti dei lettori di biblioteche diverse.
Un’analisi di questo tipo sarebbe di grande aiuto per i bibliotecari, che
potrebbero così interagire con gli utenti, aiutandoli a sviluppare prospettive
più ampie. Il fatto che la ricerca su un determinato argomento conduca
regolarmente alla consultazione di un certo libro rivela parecchio di una
comunità e permette di valutarne le decisioni anche in altri contesti.
Tutto questo, si capisce, nel rispetto della privacy delle singole
persone.
In che cosa il Machine Learning differisce
dall’apprendimento tradizionale?
Mentre i libri contengono una rappresentazione linguistica
della conoscenza, di per sé i modelli di apprendimento automatico non
contengono alcuna conoscenza, pur essendo in grado di produrre informazioni
altrimenti inaccessibili. In un certo senso, sono come una macchina per
contare le monte costruita in modo follemente complicato da un inventore che
non sappia nulla di monete: scivoli, scambi e interruttori sono assemblati a
casaccio con l’unico scopo di verificare, uno scossone dopo l’altro, se il
conteggio risulti appena appena più accurato. Funzionare funziona, alla fine,
ma di monete continua a non capire nulla. Allo stesso modo, i sistemi di
apprendimento automatico possono dare risultati eccellenti nella gestione dei
dati immessi, ma restano letteralmente privi di conoscenza specifica.
Intendiamoci, non sto svalu- tando il Machine Learning. Al
contrario, queste osservazioni non fanno altro che rendere ancora più
sorprendente il fatto che un sistema del genere riesca a svolgere mansioni che
hanno parvenza cognitiva. Semmai, dovremmo interrogarci come mai questi aggeggi
sembrino cavarsela tanto bene.
Come può essere garantita l’accessibilità a una conoscenza
sempre più vasta?
Stanno venendo meno i comportamenti e le istituzioni che
attribuivano un valore alle informazioni. Non esiste più un unico flusso dei
media, non esistono autorità universalmente rispettate né meccanismi di
protezione contro le idee offensive ed estremiste.
Certo, tutto questo aveva un prezzo: c’erano molte
voci che non riuscivamo a sentire, perché restavano fuori dagli
schemi dell’informazione. In un mondo interconnesso, invece, siamo in
grado di ascoltarle. Siamo davanti a un cambiamento epocale, che ci
permette di sperare. Nello stesso tempo, però, la fine di quel flusso univoco
ci obbliga a andare in cerca di un senso da attribuire alla realtà. Nell’ultimo
quarto di secolo il web ci ha insegnato che questa compito non può essere
affrontato se non attraverso la collaborazione. Nessuno può farcela da solo,
dobbiamo lavorare gli uni con gli altri. Insieme abbiamo scoperto che esistono
trappole molto insidiose, insieme abbiamo adottato strumenti sempre più
sofisticati ed efficaci per evitare di caderci. Questa attitudine collaborativa
è, a mio avviso, la più importante conquista dell’era digitale.
Ma è proprio sicuro che sia meglio non fare previsioni?
Le scoperte più innovative degli ultimi anni sono legate alla
consapevolezza che è più conveniente non farsi un’idea troppo precisa del
futuro. Oggi come oggi, anziché costruire un prodotto a partire dalle presunte
esigenze degli utenti, si mette a disposizione una versione di base, così da
capire in che modo viene utilizzata, e con quali aspettative. In altri termini,
il nostro rapporto con il futuro consiste non nell’intestardirci su una singola
possibilità che vorremmo realizzare, ma nel predisporre una serie di
possibilità innumerevoli, che troveranno poi una loro applicazione. Il nostro
motto dovrebbe comporsi di queste parole: “fare – futuro– di più”.
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