lunedì 8 febbraio 2021

L'ARTE DI INSEGNARE, INVESTIRE IN FORMAZIONE


 LE PAGELLE ALLE LEZIONI:

 “I MAESTRI SONO BRAVI,

 I PROF FACCIANO DI PIÙ”

La Fondazione Agnelli dà i voti alla didattica in aula pre-Covid delle scuole elementari e medie. Coinvolti oltre 1.600 docenti. “Il 60% può insegnare meglio, urgente investire in formazione”

 di Ilaria Venturi          Repubblica 3.2.2021

 Si è fatto un gran parlare della didattica a distanza, ma come fanno lezione in aula gli insegnanti? Alla primaria e alle medie se la cavano, anzi quasi un quarto eccelle. Ma i più potrebbero migliorare. Insomma, quell’adagio che ricorre ai ricevimenti,«suo figlio studia, ma potrebbe fare di più», si ribalta. Un buon 60% sta a livello medio, “un’area grigia” viene chiamata nella ricerca “Osservazioni in classe” condotta prima della pandemia da Invalsi e Fondazione Agnelli: docenti, cioè, che insegnano in modo adeguato, ma «con importanti margini di miglioramento», senza offrire quel valore aggiunto che va oltre le nozioni, che accende la passione per il sapere, non si limita a trasmetterlo. Poi c’è il 23% che possiede ottime capacità, è molto efficace in cattedra. Mentre il 17% degli insegnanti svolge la tradizionale lezione “trasmissiva” in modo inadeguato. Non è poco, anche se i migliori sono di più.

Ma già di per sé questa è un’analisi destinata a fare discutere, anche in virtù del fatto che nel Recovery Fund non c’è un euro per la formazione. «Non sono pochi gli insegnanti italiani che nel lavoro quotidiano in aula dimostrano ottime capacità didattiche — ragiona Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli — ma ancora non basta perché a dispetto di una retorica spesso di segno contrario, gli insegnanti non sono tutti uguali. Se vogliamo davvero un salto di qualità negli apprendimenti degli studenti è necessario uno sforzo energico per migliorare le capacità didattiche del maggior numero di docenti, investire in innovazione didattica e formazione degli insegnanti deve essere un obiettivo del piano italiano in vista di Next generation».

La ricerca ha coinvolto 1.626 insegnanti di italiano e matematica della primaria e delle medie di 207 istituti comprensivi e 188 osservatori che sono entrati nelle loro classi seguendo 8.677 lezioni. I risultati riguardano per ora solo le strategie didattiche: il modo in cui si spiega, si propongono attività, si interroga, si coinvolgono gli alunni e li si aiuta a migliorare. Ad ogni voce è stato dato un punteggio su una scala da 1 a 7. Emerge che un insegnante su otto non propone attività strutturate in classe o lo fa a livello troppo elementare, mentre il 30% lo fa in modo eccellente. Il 14% non illustra metodi e strategie da seguire per svolgere un compito o lo fa in modo poco chiaro, ma al lato opposto c’è un 30% più che bravo.

I maestri e le maestre vanno meglio dei prof: il 34% dà agli allievi ottime indicazioni sulle strategie nell’apprendimento, contro il 25% dei colleghi delle medie. E quelli di matematica superano i colleghi di italiano. Il motivo? «Percorsi differenti nella formazione che porta alla cattedra» ipotizza la Fondazione Agnelli. «Le insegnanti di scuola primaria hanno un percorso magistrale di 5 anni in cui hanno corsi, laboratori didattici e tirocinio volti a costruire competenze di progettazione didattica, di conduzione delle attività interattive coi ragazzi e di valutazione dei processi e non delle prestazioni» ricorda Elisabetta Nigris, docente di Progettazione didattica alla Bicocca e coordinatrice dei corsi in Scienze della formazione primaria.

Quelli delle medie dal 2017, riforma del ministro Bussetti, non hanno più un percorso di formazione dopo la laurea nella specifica disciplina, se non 24 crediti, ovvero corsi, non laboratori o tirocini. «Inoltre nella secondaria di primo e secondo grado — conclude la pedagogista — è più forte il modello gentiliano di scuola che suddivide in modo netto le discipline e ha una idea più appiattita sui contenuti».

 PROFESSIONE INSEGNANTE,

PERCHÉ LE MAESTRE SONO PIÙ BRAVE DEI PROF

La ricerca sul campo di Fondazione Agnelli e Invalsi: alle medie un insegnante su sei è inadeguato, alle elementari uno su dieci. Gavosto: «Usare il Recovery Fund per investire sulla formazione dei prof»

 - di Gianna Fregonara e Orsola Riva        


 

 Che cosa succede ogni mattina nelle classi elementari e medie in Italia? Gli studenti davvero imparano o sonnecchiano di fronte all’insegnante? Quali «strategie» hanno imparato maestre e prof per coinvolgere i loro alunni? Per rispondere a queste domande e fornire indicazioni ai docenti la Fondazione Agnelli insieme all’Invalsi, l’istituto di valutazione nazionale, è entrata in 207 istituti comprensivi (i dati risalgono al 2014 ma sono stati rielaborati solo ora) per assistere, osservare e valutare le lezioni. Nelle scuole elementari un terzo degli insegnanti è complessivamente molto efficace, mentre uno su dieci è inadeguato a svolgere il suo lavoro (11 per cento). Peggio vanno le cose alle medie dove «soltanto» un quarto dei prof sono molto preparati alla professione - un conto è sapere la matematica o l’italiano, altro saperla insegnare - mentre il 16 per cento, cioè 1 su 6 non è capace di svolgere il suo ruolo. Fra i due estremi, si colloca circa la metà degli insegnanti che lavora con sufficiente attenzione e preparazione: un’area grigia dove ci sarebbero ancora ampi spazi di miglioramento.

 Il metodo della ricerca

Da questa ricerca sul campo è uscito un quadro dettagliato di quello che succede a scuola. In ogni istituto i 188 osservatori sono stati in due classi quinte elementari e due prime medie per partecipare a due ore di lezione: il lavoro di ogni insegnante è stato osservato e valutato da tre coppie di esperti. Complessivamente la ricerca ha riguardato 1628 tra maestre e prof di italiano e matematica, quasi 9 mila ore di lezione. Gli aspetti valutati hanno riguardato le strategie didattiche, la gestione del tempo, il clima in classe e infine il sostegno agli alunni, ma i risultati relativi a questi ultimi tre fattori verranno resi noti solo in un secondo momento.

Dalla cattedra al banco

Ecco i dati più significativi per quanto riguarda la didattica in senso stretto: circa un insegnante su quattro «ha ottime capacità di spiegare in modo strutturato», ma il 17 per cento del totale svolge «in modo inadeguato la tradizionale lezione trasmissiva», un docente su 8 non propone attività strutturate individuali o dii gruppo, ma uno su tre lo fa in modo eccellente; uno su 7 non sa spiegare come si svolge un compito. Un dato sorprendente riguarda la differenza tra gli insegnanti di italiano e quelli di matematica che risultano mediamente più capaci non tanto dalla cattedra quanto nelle esercitazioni in classe e soprattutto nella capacità di esplicitare metodi e procedure in modo da rendere gli alunni autonomi o, come diceva benissimo Maria Montessori, in modo da «aiutarli a fare da soli».

 Diventare prof: la laurea che ancora non c’è

Più che dare il voto a maestre e prof, la ricerca della Fondazione Agnelli punta il dito sull’«anomalia italiana» di un sistema di formazione degli insegnanti a dir poco strabico e cioè molto ben strutturato per la scuola primaria, praticamente assente per le medie e le superiori. Mentre infatti per insegnare alle elementari ormai da dieci anni è richiesta una laurea specifica, cinque anni di corso in Scienze della formazione primaria in cui le future maestre e i futuri maestri imparano soprattutto i metodi migliori per trasmettere il sapere ai più piccoli, per diventare professore di scuola secondaria non è previsto nemmeno un corso di specializzazione: basta la laurea in lettere, lingue, matematica o biologia e una manciata di crediti universitari in discipline psicopedagogiche e didattiche presi anche online al prezzo di saldo di 500 euro. Come se essere un buon matematico o un ottimo italianista potesse bastare da solo ad affrontare l’enorme sfida educativa che gli insegnanti hanno di fronte. Spiega Andrea Gavosto: «I risultati più confortanti che vengono dagli insegnanti di scuola primaria possono avere diverse spiegazioni. Ma è ragionevole pensare che dipendano anche da un diverso percorso di formazione, che dà maggiore rilievo alle conoscenze e competenze didattiche. Come sappiamo, invece, in Italia ai professori delle scuole medie e anche a quelli delle superiori è stata sempre e soltanto richiesta una buona conoscenza della disciplina, mentre poca attenzione è stata data alla formazione didattica, oggi ridotta veramente ai minimi termini. Un errore ripetuto, che anche nei mesi di lezione a distanza durante la pandemia ha avuto effetti negativi».

L’occasione del Recovery Fund

Finché non verrà fatto un investimento specifico sulla formazione dei docenti, ogni tentativo di colmare il ritardo degli studenti italiani rispetto ai loro coetanei risulterà inutile. «Se vogliamo davvero un salto di qualità negli apprendimenti degli studenti del nostro Paese - conclude Gavosto - è necessario uno sforzo energico per migliorare le capacità didattiche del maggior numero possibile di docenti, portando a livelli elevati sia quanti oggi non vanno oltre una decorosa sufficienza sia i futuri neoassunti. Investire in innovazione didattica e formazione degli insegnanti deve essere un obiettivo del piano italiano in vista di Next Generation EU». Peccato che, nelle bozze del Recovery Fund messe a punto dal governo, al capitolo istruzione e ricerca - quasi 30 miliardi sui 208 totali messi a disposizione dalla Commissione europea - non compaia alcun riferimento specifico alla necessità di un sistema di formazione iniziale degli insegnanti all’altezza della sfida titanica che hanno di fronte e si punti semmai a introdurre una qualche forma di carriera che giustifichi un diverso trattamento economico dei docenti premiando quelli più «dinamici».

www.repubblica.it




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