Il governo federale non
ha saputo rispondere prima alle azioni di Boko Haram, alle persecuzioni sui
fedeli e ora alle gang. E solo ieri il presidente ha dichiarato l’«emergenza
nazionale» per i sequestri.
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di GIULIO ALBANESE
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La
narrazione mediatica internazionale tende sovente ad associare i rapimenti alle
operazioni delle milizie estremiste islamiste attive nel Nordest del Paese, a
partire dalla sigla tristemente nota di Boko Haram e dalle sue diramazioni.
Indubbiamente, queste formazioni armate utilizzano i sequestri come arma di
terrore, come fonte di finanziamento e come strumento di propaganda. Le loro
incursioni nei villaggi del Borno, dello Yobe e dell’Adamawa, così come gli
attacchi contro le scuole, hanno inciso in modo indelebile sulla memoria
collettiva, alimentando un clima diffuso di paura e sfiducia nelle istituzioni.
Il rapimento delle studentesse di Chibok nel 2014 – che fece irrompere sulla
scena globale una tragedia già profondamente radicata – rappresenta solo uno
dei casi più emblematici. L’aver colpito e in parte colpire ancora (vista la
più ridotta portata del movimento) le comunità cristiane risponde a logiche
parallele alla “tradizionale” persecuzione, ma non più principale obiettivo
dell’azione.
Una
prospettiva anti-cristiana
Limitarsi
a questa prospettiva di deprecabile azione anti-cristiana (molti più limitata
nell’ultimo quinquennio ma non per questo meno grave come dimostrano anche i
sequestri di numerosi sacerdoti e pastori), tuttavia, significherebbe ignorare
una parte sostanziale del quadro. In molte regioni della Nigeria i sequestri
sono oggi perpetrati anche – e talvolta soprattutto – da bande armate prive di
un’ideologia religiosa, motivate invece da un intreccio di marginalizzazione
sociale, povertà strutturale, corruzione sistemica e competizioni per il
controllo delle risorse. Attive principalmente nel Nordovest, negli Stati di
Kaduna, Zamfara, Katsina, Sokoto e Niger, queste organizzazioni non perseguono
alcuna ambizione teocratica: costruiscono piuttosto un’economia predatoria
alimentata dal vuoto di sicurezza e dalla fragilità del controllo
territoriale. Il terreno su cui tali dinamiche prosperano è quello di una crisi
socio-economica di lungo corso, segnata da livelli elevatissimi di
disoccupazione giovanile, da un’amministrazione pubblica inefficiente e da un
uso distorto delle immense ricchezze nazionali – petrolio, gas, carbone, zinco,
terre fertili – concentrate nelle mani di ristrette élite. In questo
contesto, il rapimento si configura come un vero mercato: agricoltori,
commercianti, viaggiatori e studenti diventano merce di scambio, sequestrati
per ottenere riscatti che alimentano un circolo vizioso di violenza e impunità.
La linea di confine tra criminalità organizzata e militanza armata è inoltre spesso
sfumata: alleanze tattiche, collaborazioni temporanee e scambi di armi e
informazioni rendono i confini estremamente porosi.
Dimensione
antropologica e storica dei conflitti
Un
elemento particolarmente rilevante riguarda la dimensione antropologica e
storica dei conflitti in Nigeria. Il Paese, popolato da circa 230 milioni di
persone, è un arcipelago etnico e culturale in cui la competizione per la terra
e per le risorse agricole si sovrappone alle tensioni tra comunità pastorali e
agrarie – spesso semplificate come uno scontro tra “Fulani” e “non-Fulani”,
quando la realtà è in verità molto più complessa. In molte di queste zone, la
proliferazione delle armi leggere e l’indebolimento delle tradizionali
strutture di mediazione hanno favorito la trasformazione di contrasti locali in
violenza sistemica. Alla radice dei rapimenti si trova dunque un sistema di
insicurezza multiforme, che coinvolge diversi attori. La risposta del governo –
oscillante tra repressione militare e tentativi di negoziazione – risulta
inefficace. E solo ieri, dopo più di 350 rapimenti in dieci giorni, il
presidente ha dichiarato un’emergenza nazionale di «sicurezza» sul fenomeno.
La
corruzione diffusa erode la fiducia dei cittadini e delegittima ogni intervento
istituzionale. Le comunità locali, lasciate in larga parte a sé stesse,
elaborano forme autonome di autodifesa, dando vita a milizie civili che, pur
nate con finalità protettive, rischiano di aggiungere ulteriori livelli di
violenza a uno scenario già estremamente complesso. A pagare il prezzo più alto
sono le persone comuni: famiglie distrutte, bambini segnati dal trauma,
comunità costrette a lasciare le proprie case. Un Paese giovane, vitale e pieno
di energie si ritrova a convivere con la paura del viaggio, della scuola, della
quotidianità che altrove si dà per scontata. Eppure, nonostante la gravità del
fenomeno, la Nigeria non può essere definita unicamente attraverso le sue
ferite. È anche un luogo di straordinaria resilienza, animato da reti
comunitarie, organizzazioni civili, autorità religiose e figure tradizionali
che promuovono dialogo, riconciliazione e protezione dei più vulnerabili.
Cristiani per primi, soprattutto negli Stati del centro e del sud dove
continuano gli attacchi ai sacerdoti, nella quasi totalità dei casi a
scopo di estorsione. Raccontare in modo autentico il fenomeno dei
rapimenti in Nigeria significa dunque rifiutare il binarismo – jihadisti da una
parte, popolazione inerme dall’altra – e riconoscere la coesistenza di
molteplici Nigeria: quella delle metropoli globalizzate e dinamiche, quella
delle campagne marginalizzate, quella dei giovani in cerca di futuro e quella
di chi, privo di alternative, viene risucchiato dal mercato della violenza.
Solo assumendo questa complessità è possibile cogliere il dramma autentico di
un Paese che chiede di essere ascoltato e compreso prima di venire travolto da
giudizi e reazioni.
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