Una proposta al Congresso di Roma, nel quale si è discusso delle applicazioni nella sanità, nel diritto e anche nella religione E un progetto italiano mette al centro i valori umani di empatia, autonomia e vulnerabilità
- di GIANNI SANTAMARIA
Il visitatore indossa un
casco stereottico, si avvicina allo schermo, unisce indice e pollice e questo
gesto innesca un puntatore. Clicca su un disco rosso e dopo un breve countdown
può fare una domanda nientedimeno che a Platone o - all’altro lato della sala
allestita nel rettorato dell’Università “La Sapienza” - a Confucio. La domanda
viene inviata a un motore di IA, che eventualmente corregge imperfezioni
logico-semantiche (un visitatore ha chiesto a Platone di parlare di “virtues”,
virtù, ma la macchina aveva capito “vectors”, vettori). I due avatar in 3D -
perché di questo di tratta si muovono, gesticolano e con la loro voce sintetica
(sincronizzata dalla macchina con il movimento delle labbra) rispondono,
facendo una sintesi mirata, che attinge al patrimonio delle teorie dei due
personaggi storici. Diversamente da ChatGpt, alla quale ci si può rivolgere su
tutto, qui è stato infatti isolato un sottosistema inerente alla filosofia dei
due autori, che ad esso - grazie a espedienti linguistici - riconducono anche
le domande più generiche. Al filosofo greco ci si può rivolgere in italiano e
in inglese (la parte contenutistica è stata realizzata in collaborazione con
l’Università di Atene), al saggio cinese solo in italiano. L’esempio di realtà
virtuale immersiva, che i partecipanti al XXV Congresso mondiale di filosofia
di Roma stanno apprezzando, è stato realizzato dall’azienda Engineering per
dimostrare la potenzialità di tali tecnologie. Ma non si è trattato solo di
“toccare con mano” lo sviluppo delle tecnologie basate sull’IA. La riflessione
sul digitale e i suoi rapporti con l’umano ha innervato il Congresso.
A un apologo su Confucio
si è rifatto anche Pablo López López, docente di filosofia a Valladoilid (Spagna)
nella Tavola rotonda “Intelligenza artificiale o artificio intelligente? Un
approccio critico al concetto di IA”. Di fronte a una situazione di crisi in
Cina, gli fu chiesto quali sarebbero state le migliori leggi e le migliori
decisioni politiche o economiche da intraprendere. Egli rispose: “La cosa più
importante è chiamare le cose con il loro nome”. «Se non comprendiamo i
vocaboli essenziali, siamo intellettualmente morti o quasi. Non importa quali
idee intelligenti possiamo avere», ha ricordato lo studioso, proponendo dei
termini alternativi quali “intelligenza virtuale”, “intelligenza simulata” o
“simulatore di intelligenza”, o “artefatto intelligente”. Nel vivace dibattito
che ha caratterizzato la mattinata è stato proposto anche “surrogato di
intelligenza”.
Names matter, i nomi sono
importanti, «i nomi le etichette, le espressioni sono essenziali e non sono
neutrali – ha insistito il filosofo iberico –. Non possiamo essere schiavi di
mode, del commercio o del modo in cui i social media nominano la realtà. In
questo caso non avemmo una nostra visione delle cose. Noi filosofi abbiamo il
compiti di non dare nulla per scontato e di essere critici». Non si tratta di
un approccio negativo verso la tecnologia che è una realtà importante e utile.
Piuttosto, nell’intenzione del relatore, si tratta di svelare le trappole che
stanno dietro al concetto di “intelligenza artificiale”. Questo per López López
è «confusionario, perché confonde causa ed effetto; acritico e arbitrario,
perché ritiene fondato antropomorficamente che la macchina sia un agente
autonomo, ma questo è un pio desiderio; non dimostrabile, perché ciò
spetterebbe a coloro che lo affermano e, infine, motivato ideologicamente ». Da
parte di una cultura materialista. Per questo cadrebbe in contraddizione chi non
essendo materialista lo usa. Inoltre avrebbe un che di prometeico, trasformando
gli ingegneri in «dèi artificiali».
Per fondare la sua
critica López López ha brevemente definito “intelligenza” e “artificialità”. La
prima come «capacità di comprendere la realtà in modo universale e allo stesso
tempo socraticamente se stessi in modo introspettivo». Inoltre l’intelligenza
presuppone la libertà della mente: «Le macchina non possono essere
intelligenti, perché schiave degli ingegneri o delle élite politiche che li
controllano». L’artificialità, invece, è semplicemente «una disciplina pratica,
sviluppata culturalmente ». Dunque un’intelligenza è per forza di cose
artificiale, pur avendo una base naturale, ma questo poiché è essenzialmente
umana. Ogni intelligenza è fatta di arte, di artificio culturale.
«L’umanizzazione delle macchine implica la robotizzazione degli esseri umani.
Se capiamo questo ci dobbiamo impegnare nel nominare in modo realistico di ogni
nuova tecnologia che può essere usata dal potere per spingere i propri
interessi e la propria ideologia», la provocazione lanciata dallo studioso
spagnolo., Che, prima di concludere con un frase in latino il suo intervento,
ha mostrato come anche una piattaforma di IA condivida la sua opinione sulla
migliore appropriatezza dell’espressione “artefatto intelligente”, sebbene «IA
sia corrente ormai da decenni ». E sia ormai pervasivo in tanti aspetti della
vita, tutti trattati in svariati panel, tavole rotonde e plenarie. Dalla
giurisprudenza alla medicina, dalla politica, al cambiamento climatico, dal
gender gap ai diritti umani. Fino alla religione. Alcune iniziative hanno
puntato sui valori umani nella transizione digitale. Come il progetto di
ricerca “DigitHuman”, presentato nei giorni scorsi, che mira a valutare
l’impatto sociale del digitale. Mettendo al centro tre dimensioni, indagate
dalla prospettiva degli umani e delle macchine: empatia, autonomia (si pensi
ai veicoli autonomi) e vulnerabilità. «Diventeremo invincibili o si creeranno
nuove vulnerabilità, come ad esempio essere uccisi a distanza se ha un
dispositivo collegato accessibile a internet? », spiega Fiorella Battaglia del
Dipartimento di Studi umanistici dell’Università del Salento, a Lecce,
coordinatrice del progetto che coinvolge docenti della Federico II di Napoli,
dell’Università di Chieti-Pescara e di quella della Basilicata. Alla fine,
nello spirito di una ricerca filosofica non fine a se stesa ma che si fa
impegno civico, saranno redatte delle linee guida per la transizione digitale,
a disposizione della P.A. L’empatia è un concetto che è ambivalente quando si
applica al rapprto uomo macchina. Si pensi alle lacrime di un militare di fronte
alla perdita di una zampa di un “insetto” sminatore. Militare che poco dopo
potrebbe ben aver ordinato un bombardamento di umani senza battere ciglio.
Di empatia ha parlato la
filosofa morale della Federico II di Napoli, Anna Donise. «È un concetto che
può aiutare a comprendere meglio le caratteristiche dell’Ia che possono e
devono essere implementate in maniera utile e anche a comprendere meglio come funzioniamo
noi. Quando vediamo un robot che ci dicono essere empatico, ma di fatto si
limita a cogliere l’interazione di un altro robot, siamo di fronte a qualcosa
di diverso dalla nostra capacità empatica». Guardare bene noi stessi ci fa
capire che «possiamo anche essere sadici, non necessariamente etici, capaci di
simulare, e allo stesso tempo di grandi gesti di altruismo, di grande interesse
all’altro e di grande capacitò narrativa ». L’empatia ci aiuta, dunque, a
comprendere anche i rapporti uomo-macchina. «Il fatto che noi abbiamo empatia
per i robot è un dato oggettivo., Si pensi ai cuccioli-robot da curare, ai
companion dogs per i malati di demenza. La questione è, dunque, che «si
riconoscano ai robot delle capacità, ad esempio nella cura, ma non si tratta di
empatia, perché questa non può prescindere dalla dimensione corporea che,
almeno allo stato, nell’IA non c’è».
Di empatia e di rapporto
uomo-macchina-Dio si è parlato nel panel “Robot umanoidi
come partner del dialogo interreligioso”. Nella sua comunicazione la studiosa
olandese Anna Puzio ha illustrato ciò che fanno alcuni dei 20 “robot religiosi”
esistenti. Il tedesco Bless U2 impartisce benedizioni in varie lingue, Celeste,
a forma di angelo, guida alla preghiera e stampa versetti biblici
personalizzati. SanTO invece - sviluppato dall’italiano Gabriele Trovato -
prende la forma di un santo, aiuta i fedeli a pregare e li accompagna dal punto
di vista psicologico. Trovato ha sviluppato il suo robot in Giappone. In
oriente, infatti, questi oggetti sono relativamente diffusi. Mindar,
sacerdote-robot buddista, conduce della cerimonie nel tempio zen. Mentre il
monaco Xi’aner accompagna i visitatori nel tempio, risponde a domande sul
buddismo e suona musica buddista. Il suo scopo è promuovere il buddismo in
Cina. Infine, in Giappone l’umanoide Pepper è usato nei funerali per motivi
economici (costa meno di un sacerdote e diffonde anche la cerimonia funebre su
internet a beneficio di chi non ha potuto partecipare). Questi robot religiosi,
precisa Puzio, «sono ancora ai primi passi del loro sviluppo e contrariamente
ad altri robot, inclusi vari social robots ». Più in generale gli oratori hanno
discusso di religione e digitale, e di come - ad esempio - la dimensione
virtuale si scontri con concetti come presenza eucaristica e comunità, per non
parlare della dimensione del mistero. Nel dibattito sono sorti anche scenari
futuristici, come la sostituzione del prete con un robot o la domanda sulla
possibilità che il robot possa davvero pregare. Ipotesi che molti dei presenti
hanno escluso.
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