Lo
storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio «la fragilità culturale è
figlia di quella spirituale: il problema è il freddo nelle nostre chiese»
-Intervista
ad Andrea Riccardi
-
di Gianni Santamaria
-
Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da
PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti Gabriel, Forte,
Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli,
Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito,
Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone,
Arnone, Bruni, Postorino, Dionigi, Lupo, Pierangeli, Verbaro e Rocelli.
Risvegliare
fede e passione, senza le quali nessuna vera iniziativa culturale è possibile.
E senza le quali ci si può solo limitare a gestire l’esistente di istituzioni
benemerite, ma che rischiano di non incidere. È la necessità che sottolinea
Andrea Riccardi, storico, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, già ministro
e oggi presidente della Società “Dante Alighieri”, ragionando su come «la fede
pensata» può interagire con la cultura contemporanea, affinché il cattolicesimo
non resti «rannicchiato negli angoli della vita della città».
C’è
stata finora una certa timidezza nel rapportarsi con la cultura laica?
«Non
si può più ragionare nei termini con cui si ragionava in passato. Ricordo padre
Sorge che scriveva di cultura cattolica, cultura laica, cultura comunista. Del
resto, erano mondi culturali che funzionavano e avevano la loro proiezione
anche nel reclutamento del personale universitario. Oggi penso ci sia un
fenomeno mondiale: la deculturazione della religione e dei fenomeni religiosi.
La vedo diffusa in quei movimenti neopentecostali ed evangelicali, che sono
diventati parte importante del cristianesimo contemporaneo e della sua
comunicazione. E che sono assolutamente disinteressati a confrontarsi con i
temi della cultura, intesa in termini di storia, futuro, realtà, dibattito,
libri. Sono arroccati in una comunicazione tutta di tipo sentimentale».
E
i cattolici?
«Questo
fenomeno di deculturazione riguarda anche i cattolici. Ma non in maniera così
definitiva. Torno sempre a quell’intuizione di Giovanni Paolo II che diceva:
“Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non
interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Mi colpisce che questa frase sia
stata ripresa a Buenos Aires dal cardinale Bergoglio, il quale non è mai stato
un “citatore” di maniera di Wojtyla. Ma su questa intuizione wojtyliana ha
insistito molto: la fede che diventa cultura».
A
cosa guardare?
«Nella
grande storia del cristianesimo abbiamo assistito proprio a questa fede vissuta
del popolo di Dio che si è fatta cultura alta e cultura di popolo:
rimeditazione della storia, produzione di arte, dibattito con altre forme di
pensiero e via dicendo. In questo senso la fragilità dell’espressione odierna
della cultura cattolica – non direi della cultura cattolica in sé, che
poterebbe sembrare così qualcosa di organico – nasce dalla fragilità della fede
vissuta, anzi dalla fragilità delle nostre comunità e dalla rinuncia a dire una
parola di rilievo».
Non
per niente lei ha di recente scritto un libro che si intitola La Chiesa
brucia...
«Sono
partito dall’incendio della basilica di Notre Dame proprio per parlare della
crisi della Chiesa in Europa. È un fenomeno d’infragilimento su cui si deve
riflettere. Inoltre, la fragilità della cultura stessa che - dicevamo - nasce
dallo scarso interesse per il mondo, che non si vuole cambiare e con cui non si
vuole interloquire. Quando si fa cultura ci si interessa del mondo presente,
passato e futuro. Ci si misura con la storia. Naturalmente il cattolicesimo
possiede ancora importanti istituzioni culturali, però mi chiedo con quale
criterio vengano gestite e come partecipino al flusso di un cristianesimo che
si sveglia e si confronta».
Qual
è il problema di fondo?
«Secondo
me è la passione con cui si vivono la fede e si partecipa alla storia umana.
Tale passione genera pensieri lunghi, ma anche confronti e dialoghi intensi. Se
non c’è questo, ci sono solo delle istituzioni che funzionano, dei posti da
occupare in consigli di amministrazione o a livello apicale. Per questo ci sono
sempre cattolici pronti al “servizio”. Se non c’è questo, soprattutto c’è un
cattolicesimo rannicchiato negli angoli della vita della città. È inutile
esortare i cattolici a fare cultura, se non si suscita questa grande passione.
Un testo scritto tanti anni fa dal grande studioso benedettino Jean Leclercq - che,
secondo me, ha ispirato il famoso discorso sulla cultura pronunciato da
Benedetto XVI al Collège des Bernardins - parla di “amore delle lettere e
desiderio di Dio”. È un testo di grande importanza che riguarda la cultura
medievale, e rivela la connessione profonda tra la ricerca di Dio e il fare
cultura. Il tema della cultura si lega alla passione con cui le comunità
cristiane e i singoli cristiani stanno vivendo la realtà e la ricerca di Dio».
Oggi
però non siamo più nel Medioevo di Dante, fatto di un connubio tra teologia e
lettere. Oggi domina il connubio tra tecnologia e social. Che porta distanza
sociale. Quali luoghi sperimentare per un dialogo?
«Non
diamo all’idea di cultura una dimensione organicistica. Questa esigenza di una
riflessione culturale è una sfida del pensiero, della ricostruzione della
storia. E nasce dal profondo della dinamica della vita e della comunità
cristiana. Nasce dal confronto con un mondo complesso e caotico, in cui tutti,
nel nostro piccolo, abbiamo l’esigenza di decifrare da dove veniamo e che sta
accadendo attorno a noi. Paolo VI nella Popolorum progressio fa
un’affermazione importante, che è molto attuale: “Il mondo soffre per mancanza
di pensiero”. Qualche anno fa papa Francesco affermò: “Il mondo soffoca per
mancanza di dialogo”. C’è bisogno di cultura, dibattito, ricerca, dialogo…
Proprio di fronte alle frontiere sconfinate del mondo globale, delle nuove
scienze e tecnologie. Paolo VI, in quel testo lanciava un’idea, che non fu
raccolta, ma interessante: “Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di
pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di
assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà”. Un
sogno lontano. Oggi però di fronte a questo mondo dell’io, fragile e fluido, in
cui oggi sono una cosa, domani un’altra, come di fronte agli sconfinati orizzonti
del mondo, c’è necessità di “una fede pensata”, non un sistema chiuso, ma una
bussola si speranza che non tema la mobilità del nostro tempo. È un’espressione
densa del mio vecchio amico Pietro Rossano, vescovo, uomo di dialogo con le
religioni e grande intellettuale, che proprio parlava di una “fede pensata”.
C’è bisogno di pensare la fede e, me lo lasci dire da storico, c’è bisogno di
cultura storica. Perché, se è vero che non è un dogma che la storia sia
magistra vitae, è altrettanto vero che oggi spesso ci aggiriamo nella storia
come gattini ciechi, senza sapere cosa sia successo prima, ma anche a quello
che sta per succedere. Pensiamo alla guerra e alla riabilitazione della cultura
del conflitto. Sta morendo la generazione che ha vissuto la Seconda guerra
mondiale, i testimoni della Shoah, ed eccoci davanti a un mondo che sta
smarrendo la cultura della pace».
In
questo dibattito il latinista Ivano Dionigi ha evocato una latitanza, se non
proprio un tradimento alla Julien Benda, degli intellettuali, che vengono meno
al loro ruolo di testimoni piuttosto che di notai dell’esistente. Cosa devono
riscoprire gli intellettuali, in particolare cattolici?
«Dionigi
ha ragione. Secondo me il vero problema è il basso livello di passione delle
comunità cristiane. Io ho detto “la Chiesa brucia”, ma forse il problema di
oggi è il freddo delle nostre chiese. Perché ogni operazione culturale nasce da
una grande passione e diciamo anche dalla grande passione scatenata dalla fede.
La cultura è capire, è provare a cambiare, è sapere da dove si viene. E allora
il vero problema è risvegliare fede e passione, dalle quali nasce la ricerca».
www.avvenire.it
Immagine
Nessun commento:
Posta un commento