- di Luigino Bruni
L'homo
sapiens è un animale agonistico. Per moltissimo tempo i nostri concorrenti sono
stati gli eventi naturali, gli animali predatori, le altre comunità umane
rivali per le poche risorse. Dietro il fascino che esercitano ancora su di noi
corse, salti e frecce ci sono tracce di un Dna collettivo che ha svolto quei
gesti essenziali per decine di migliaia di anni, dal cui successo dipendeva
spesso la sopravvivenza. Da lì il loro richiamo primordiale che ci incolla e
incanta davanti alla tv e negli stadi.
Le
olimpiadi sono una grande expo della commedia umana, una celebrazione di alcune
tra le dimensioni migliori degli umani. Quella eccellenza esposta e celebrata è
frutto di virtù che apprezziamo e desideriamo per noi e per tutti. Tra queste
la capacità di auto-disciplina, la tenacia, l’elaborazione delle sconfitte, la
lealtà, tanto che abbiamo anche inventato un sostantivo sintesi: la sportività.
Ed è difficile trovare qualcuno che neghi che queste sono virtù universali che
valgono in ogni ambito della vita.
Accanto
a queste virtù evidenti ci sono altri aspetti più controversi. Tra questi un
certo ambiente militaresco che circonda lo sport e le olimpiadi di più, fatto
di bandiere e quindi di quel patriottismo che per qualcuno è virtù ma per altri
(me incluso) no - dopo ogni grande evento sportivo globale, ad esempio, l’idea
di Europa ne esce sempre indebolita. Anche se si potrebbe ribaltare questa
legittima critica restando sullo stesso piano: lo sport è anche una
elaborazione narrativa e simbolica della violenza per trasformarla nel suo
opposto. È metamorfosi della guerra, è una sua resurrezione.
E,
forse, guardando quelle spade flessibili e spuntate che fanno accendere
soltanto una luce verde o rossa e quelle lance scagliate senza un nemico da
colpire, possiamo addirittura scorgervi una certa realizzazione della grande
profezia di Isaia: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro
lance faranno falci … non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,4).
Una
volta riconosciuta tutta questa bellezza, possiamo e dobbiamo però provare a
dire qualcos’altro. Lo sport, se guardato bene, è un grande fenomeno
cooperativo. Ciò è evidente negli sport di squadra, ma non è meno essenziale in
quelli individuali. Dietro a ciò che appare talento e abilità di un singolo
atleta c’è davvero un ‘intero villaggio’ fatto di allenatori, tecnici, medici,
federazione, società sportive amatoriali, compagni di allenamento, e molti
altri ancora. Tra questi ‘molti altri’ ci sono anche i concorrenti, compagni ma
essenziali di ogni atleta, perché la bravura di chi compete con noi è
ingrediente decisivo nei nostri buoni risultati - una sventura di un potenziale
campione è non avere abbastanza concorrenti eccellenti. Nello sport (e nella
vita) anche la competizione è una forma di cooperazione.
E
invece nella narrativa sportiva è proprio la dimensione cooperativa a mancare,
sovrastata e ammutolita da quella costruita sulla rivalità e sul medagliere. Il
successo di una performance è misurato sull’unico asse delle medaglie; un
quarto posto è considerato una sconfitta, al punto che la federazione italiana
ha fatto un contro-ricorso (non accolto) per trasformare in terzo un ottimo
quarto posto con record italiano, chiaramente a scapito di un’altra atleta.
È
infatti la logica posizionale la criticità della grande metafora olimpica,
anche perché nelle olimpiadi diventa più forte ed assoluta. Chi fa sport o lo
ama sa bene che il ‘successo’ in una manifestazione sportiva è una funzione con
molte variabili. Insieme al risultato finale del ranking, che certamente conta,
c’è il proprio miglioramento, c’è il passaggio dei primi turni accompagnato dal
calore della folla, e soprattutto c’è la partecipazione all’evento voluto e
sognato fin da bambino. Abbiamo finito per ridicolizzare il motto di De
Coubertin - ‘L’importante è partecipare’ -, che sottolineava quale fosse il
primo ‘premio’ dello sport: poter gareggiare, come ci hanno ricordato le
nuotatrici Francesca Fangio dopo la sua eliminazione e Giulia Gabrielleschi
dopo il suo sesto posto.
Quando
allora si assolutizza la dimensione posizionale dello sport, le vittorie e le
medaglie, quel grande spettacolo delle olimpiadi si guasta. Il villaggio
olimpico, visto da fuori (non da dentro), perde la sua stupenda democraticità e
uguaglianza e si divide in vincenti e perdenti, lo sport diventa l’apoteosi
della diseguaglianza della società degli ‘happy few’ - i vincenti di medaglie
olimpiche sono nel mondo molti meno dei miliardari.
C’è
una coerenza tra uno sport che vede solo le medaglie e una società che vede
solo il PIL - tra l’altro è quasi perfetta la sovrapposizione tra il ranking
del medagliere e quello del PIL.
Lo
sport è sempre stato così. Da sempre le lacrime di gioia dei vincitori hanno
avuto bisogno di quelle di tristezza degli sconfitti. Da sempre io posso essere
primo solo se esistono i secondi e gli ultimi. È vero. Però la dimensione
posizionale sta aumentando insieme all’estensione della cultura del capitalismo
fondato sui dogmi della meritocrazia e della leadership. Infatti, il tarlo non
si trova nella comunità degli sportivi. La malìa emerge quando prendiamo lo
sport e lo facciamo diventare metafora del mondo; quando il ranking, i vincenti
e i medaglieri lasciano gli stadi e le piscine e si espandono in altri campi.
Perché quel ‘gioco a somma zero’ (-1/+1), una dimensione importante della
competizione sportiva, non è il gioco della vita civile ed economica, che è
invece il luogo dei ‘giochi a somma positiva’ (+1/+1). Nella cooperazione
economica e civile non solo non contano i ranking, ma sua logica è radicalmente
diversa: uno scambio tra un grande e un piccolo può essere per entrambi più
vantaggioso di uno scambio tra due ‘grandi’.
Nelle
imprese e negli uffici ci sono anche dimensioni posizionali; ma l’economia e la
società sono prima e soprattutto network cooperativi, dove la mia ‘vittoria’
non ha bisogno della ‘sconfitta’ di qualcun altro. Le medaglie al merito, che
purtroppo stanno aumentando nella nostra società posizionale, sfilacciano i
rapporti lavorativi e peggiorano le ‘performance’ di tutti.
Alzogliocchiversoilcielo
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