Si può scegliere la via del divieto, che semplifica ma non educa.
Oppure si può accettare la sfida, più complessa ma più necessaria: educare al digitale stando dentro il digitale.
Non lasciando il campo ai social e agli algoritmi,
ma
riappropriandosi della tecnologia come spazio pedagogico
Negli ultimi mesi il dibattito sull’uso dello smartphone a scuola si è acceso, spesso polarizzandosi. Da una parte ci sono i sostenitori del divieto assoluto: lo smartphone distrae, crea dipendenza, rovina la concentrazione, meglio rimuoverlo del tutto dall’ambiente scolastico. Secondo questa visione, tutto ciò che serve per apprendere con strumenti digitali può già essere fatto con un tablet, che ha meno accessi esterni, meno notifiche, meno interruzioni. Il punto, dicono, non è come si usa lo smartphone: è che, per sua natura, lo smartphone non è uno strumento neutro, ma un ambiente che entra in competizione con tutto il resto — lezioni comprese.
È una porta costantemente aperta
sulla distrazione e sull’iperstimolazione. Dopo più di dieci anni di diffusione
capillare, sostengono, non è mai stato possibile scrivere una guida credibile
che ne disciplini l’uso consapevole in classe. E non è un caso, secondo loro,
che Paesi altamente digitalizzati come Svezia, Norvegia e Finlandia stiano
facendo un passo indietro, promuovendo scuole “smartphone free”: chi ha
raccolto dati clinici e osservato da vicino il progressivo peggioramento degli
indicatori di salute mentale nei giovani — ansia, depressione, disturbi del
sonno, deficit dell’attenzione — ritiene che il problema non sia semplicemente
educativo. È strutturale, sistemico, e la soluzione non può che essere netta:
togliere lo smartphone dalla scuola per proteggere chi cresce.
Tuttavia,
questa posizione – pur comprensibile e animata da motivazioni importanti –
rischia di produrre una risposta semplificata a una questione molto più
complessa. Innanzitutto, va detto che i modelli nordici citati come esempi
virtuosi adottano il divieto dello smartphone all’interno di un ecosistema
scolastico molto diverso dal nostro. In Svezia e Finlandia, infatti,
tutti gli studenti e le studentesse sono dotati di tablet personali forniti
dalla scuola, connessi a una rete wi-fi stabile e sotto la supervisione attiva
dei docenti, anche attraverso strumenti di gestione tecnici (Mdm, mobile device
management, per iOS o Android). Non si tratta, dunque, di una semplice
rimozione del digitale personale, ma di un’infrastruttura pubblica che permette
un uso educativo e controllato delle tecnologie. Un modello del genere
potrebbe funzionare anche in Italia, ma solo se si garantisse a tutti l’accesso
a dispositivi adeguati, connettività stabile e formazione specifica per i
docenti. In mancanza di questi elementi, il rischio è che il divieto si traduca
in una regressione o, peggio, in una nuova forma di disuguaglianza.
Inoltre,
la tesi secondo cui basterebbe sostituire lo smartphone con un tablet per
risolvere il problema riduce tutta la questione a un piano tecnico, ignorando
la dimensione culturale, relazionale e sociale del digitale. E finisce per non
vedere proprio la realtà quotidiana degli studenti.
Molti
di coloro che chiedono il divieto totale dello smartphone si rifanno alle tesi
del saggio di Jonathan Haidt, The Anxious Generation, in cui si
sostiene che l’uso precoce e intensivo dello smartphone e dei social network
sia responsabile dell’impennata di ansia e depressione tra gli adolescenti, in
particolare nelle ragazze. Secondo questa impostazione, lo smartphone non è uno
“strumento” ma è un ambiente e fondamentalmente un ambiente tossico: la sua
esclusione dalla scuola diventa un’azione di tutela della salute mentale.
Tuttavia, queste posizioni sono tutt’altro che unanimemente condivise nella
comunità scientifica e pedagogica.
Voci
autorevoli come quelle di Matteo Lancini e Pier Cesare Rivoltella, ad esempio,
invitano a una lettura più complessa. Lancini sottolinea come l’adolescenza
contemporanea sia profondamente cambiata e come lo smartphone sia un
contenitore delle emozioni e delle relazioni. Non è il
dispositivo in sé a generare disagio, ma il vuoto educativo e relazionale in
cui viene immerso. Rivoltella invita a non confondere la necessità di educare
con la tentazione di censurare: il problema non è il digitale, ma una scuola
che resta analogica e trasmissiva, incapace di accogliere le sfide dell’era
digitale.
Comunque
è vero che lo smartphone non sia semplicemente un dispositivo. È l’ambiente che
gli adolescenti abitano ogni giorno, il filtro con cui leggono il mondo, il
canale con cui si informano, comunicano, si orientano. Vera Gheno, nella
puntata 111 del podcast Amare parole de Il Post,
spiega con grande lucidità che lo smartphone per questa generazione è
ciò che il Pc è stato per i cinquantenni di oggi: un punto di riferimento
cognitivo, un luogo del pensiero e della relazione. Chiedere agli
studenti e alle studentesse di sostituire lo smartphone con un tablet non è
come chiedere loro di scrivere con una penna rossa invece che con la penna blu.
E oltre a essere culturalmente discutibile, è anche socialmente iniquo. In Italia,
gli adolescenti hanno uno smartphone ma non hanno un tablet personale. Secondo
un’indagine RaiNews del 2023, il 90% degli studenti e delle studentesse sopra i
16 anni possiede un device personale, ma soltanto 1 studente su 4 ha con sé un
tablet. Immaginare che si possa semplicemente “switchare” tra device significa
introdurre una disuguaglianza silenziosa, creando una scuola digitale per
pochi, per chi può permettersi di più. Il divieto, in questo contesto, diventa
una forma di esclusione, non di protezione.
Ma
c’è di più. Se davvero lo smartphone fosse un dispositivo così
pericoloso da dover essere escluso, come si giustifica il fatto che proprio
studenti e studentesse con differenze certificate — come Discalculia,
Disgrafia, Adhd — possano invece farne uso regolare grazie a un Piano Didattico
Personalizzato? In molte scuole italiane, sono proprio loro — più
sensibili agli stimoli ambientali — a utilizzare lo smartphone per scrivere con
la dettatura vocale, ascoltare testi con sintesi audio, svolgere calcoli con
app dedicate.
È
un paradosso educativo. Se davvero lo smartphone fosse ingestibile, se bastasse
la sola esposizione alle notifiche per compromettere l’attenzione, perché
ammetterne l’uso proprio da parte di chi ha un rapporto più complesso con il
controllo dell’attenzione? In realtà, questa prassi dimostra una cosa
fondamentale: non è il dispositivo in sé a essere un problema, ma il
contesto in cui viene usato. E se si sa usarlo bene per chi ha bisogni
specifici, si può educare tutta la classe a farlo.
La
verità è che si sta vivendo un’epoca di passaggio. Il pedagogista
Roberto Franchini parla di cambio di paradigma, dal modello educativo cartaceo
a quello digitale. Ma come tutti i passaggi, anche questo è
disordinato, incompleto, frammentario. Gli studenti e le studentesse di oggi
hanno imparato a leggere e scrivere con il libro e il quaderno, ma vivono fuori
dalla scuola in un mondo connesso, asincrono, interattivo. I dati che oggi
raccogliamo sui danni del digitale sono parziali, perché si riferiscono a
studenti e a studentesse che stanno vivendo solo parzialmente il nuovo
paradigma.
Lo
smarphone in classe può essere uno strumento didattico se si stabiliscono dei
tempi in cui è presente nell’ambiente di apprendimento e tempi in cui non deve
esserlo. Allora si possono proporre attività in cui lo
smartphone viene usato come strumento di ricerca, dando compiti strutturati,
con obiettivi chiari, dividendo i ragazzi in piccoli gruppi e predisponendo un
momento assembleare di restituzione del lavoro svolto. Si può trasformare la
classe con i cellulari in un laboratorio di fisica (Phyphox è un’app
straordinaria), facendo sì che ragazzi e ragazze mantengano un buon livello di
coinvolgimento, affrontando, eventualmente in modo metacognitivo l’uso improprio
di questo strumento, trasformando così lo smartphone da rischio, che nessuno
nega, in risorsa: è qui che il docente si gioca la propria credibilità. Le
tecnologie moderne hanno aperto opportunità per attività educative
multidimensionali e creato uno spazio nuovo. Una sfida importante consiste nel
rendere la scuola il luogo più interessante di questo spazio, come indicato
dalla Raccomandazione Europea sulla modernizzazione dei sistemi di
istruzione (2018).
Si
è di fronte a una grande responsabilità. Si può scegliere la via del divieto,
che semplifica ma non educa. Oppure si può accettare la sfida, più complessa ma
più necessaria: educare al digitale stando dentro il digitale. Non lasciando il
campo ai social e agli algoritmi, ma riappropriandosi della tecnologia come
spazio pedagogico.
Proibire
è facile. Educare è molto più difficile. Ma è proprio ciò che la scuola è
chiamata a fare.
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