mercoledì 4 dicembre 2024

CASTITA' e ONESTA'


 «La castità

 è 

ascetismo dell’onestà»

 


Il cistercense norvegese, vescovo di Trondheim, affronta nel suo ultimo libro un tema spesso frainteso «Diventare casti vuol dire riconoscere i diversi aspetti di me stesso, del mio essere fisico, intellettuale e spirituale.

di SILVIA GUZZETTI

La castità non come qualcosa che appartiene al passato, fatta soltanto di una sessualità frustrata oppure repressa, di un’astinenza che non rende felici, di una mortificazione dei sensi che porta al sabotaggio della personalità umana, ma come di una virtù che ci aiuta a diventare felici, realizzando pienamente noi stessi e integrando le diverse sfere che compongono il nostro essere. A questo argomento è dedicato l’ultimo libro di Erik Varden, Castità. La riconciliazione dei sensi, in uscita per San Paolo (pagine 208, euro 20,00).

Varden, dal 2020 vescovo di Trondheim, in Norvegia, è nato nel 1974, in una famiglia protestante, religiosa, ma non praticante. È stato raggiunto da Dio a 15 anni, dopo aver ascoltato la Sinfonia n.2 di Mahler. Nel 1993 si è fatto cattolico e nel 2002 è entrato nell’ordine dei Cistercensi di stretta osservanza. È stato abate trappista del monastero di Mount Saint Bernard in Inghilterra. Ha scritto diversi volumi in lingua inglese. In italiano è uscito, presso l’editore Qiqajon, il volume La solitudine spezzata. Sulla memoria cristiana.

Perché ha deciso di dedicare un libro alla castità?

«Perché penso che abbiamo bisogno di un nuovo vocabolario per parlare di questa materia e anche di affrontarlo in un modo onesto, dal punto di vista della fede, che sia coerente con una comprensione teologica degli esseri umani e, nello stesso tempo, realistico, per quanto riguarda l’esperienza umana. Molti sono convinti che l’unica cosa che la Chiesa abbia da dire, rispetto alla sessualità, sia no mentre non è vero. Il cristianesimo può offrire un resoconto sofisticato del mistero della sessualità umana e della sua bellezza, complessità e anche sofferenza. È importante farsi nutrire dalla ricchezza di questa eredità, da questa nozione chiave di castità che è quasi completamente scomparsa dalla conversazione contemporanea».

Nel suo libro lei parla della castità come di un ideale molto più complesso dell’astensione dalla sessualità e come di una virtù che non riguarda soltanto i celibi, ma è un modo per integrare la nostra vita e renderla più armonica e più felice. Può spiegarci che cos’è la castità e come possiamo raggiungerla?

«Il libro tratta proprio di questo, di come la castità sia un modo di realizzarsi pienamente, dal punto di vista umano. Nel latino classico “castità” era spesso sinonimo di “integrità”. Vivere in modo casto è vivere con integrità morale, virtù, moralità. Ormai, nella nostra società, la castità viene interpretata in modo molto riduttivo, solo come astinenza dal sesso o mortificazione, mentre l’idea di integrità ha mantenuto una connotazione molto positiva. La maggior parte delle persone vorrebbero essere percepite come persone di integrità e persone morali. Ma che cosa vuol dire avere integrità? Significa avere un rapporto armonioso con me stesso, così che il mio essere e la mia identità esteriori corrispondano alla mia identità interiore. Insomma, assicurarmi che ci sia una buona sintonia tra le diverse voci che formano l’orchestra della mia vita. Per questo motivo metto, come sottotitolo del mio libro, “la riconciliazione dei sensi”. Diventare casti vuol dire, infatti, riconoscere, gradualmente, i diversi aspetti di me stesso, del mio essere fisico, intellettuale e spirituale. Ma anche, storicamente, riconciliare il condizionamento che avrei forse ricevuto dalla mia famiglia di origine, il mio temperamento, i miei particolari desideri, e lavorare per rendere tutti questi aspetti un intero armonioso che mi renda felice. Insomma evitare di vivere in uno stato di tensione continua nel quale mi sento sempre tirato in direzioni diverse. Siamo, infatti, condizionati dalle cose che ci capitano ma non determinati da esse. Per ottenere tutto questo la conoscenza di noi stessi è fondamentale. Si chiama l’ascetismo dell’onestà. Dobbiamo riconoscere, con noi stessi, I nostri punti di forza e di debolezza, le nostre ferite e, insieme, le nostre abilità e chiederci che cosa possiamo ottenere, con tutto questo, con l’aiuto di Dio. E avere anche la certezza che, grazie alla fede, qualunque circostanza possa essere trasformata in una fonte di grazia».

Una parte del suo libro è anche dedicata al tema degli abusi dentro la Chiesa. Qual è la radice del problema degli abusi, secondo lei, e pensa che la Chiesa abbia fatto abbastanza per prevenirli o debba fare di più?

«La radice degli abusi è la capacità degli esseri umani per la malvagità. Alla fine, è quella ferita esistenziale che chiamiamo peccato. Come sappiamo fin troppo bene, la maggior parte degli abusi accadono in famiglia e li vediamo in tanti contesti diversi. Dire questo non vuole dire relativizzare quanto orribili gli abusi siano all’interno della Chiesa perché è sempre peggio quello che succede dentro la Chiesa ed è sempre peggiore, quando rappresenta un tradimento di fiducia e un tradimento di un obbligo sacro. Ovviamente ci sono estremamente complesse e svariate risposte a quella domanda e non voglio semplificare, ma possiamo dire che, se una persona diventa un abusatore, è per una fondamentale mancanza di castità, una mancanza di integrità, una mancanza di equilibrio che va affrontata in modo molto onesto. Ha la Chiesa fatto abbastanza? Forse non possiamo mai fare abbastanza per prevenire orrori così tremendi. Qualcosa che è stato molto utile, e per il quale dobbiamo essere molto grati, nel doloroso lavoro che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni, è che oggi, almeno, abbiamo un vocabolario che ci consenta di parlare di questo argomento, evitando di negare che gli abusi siano stati commessi o cercando di nasconderli. E’ importante che abbiamo confini chiari che ci dicano che cosa è o non è un comportamento accettabile e che abbiamo parole per definire che cosa non è accettabile. Inoltre, abbiamo oggi, nel diritto canonico e nel modo in cui le diocesi operano, procedure molto chiare che obbligano a rispondere di quello che è successo e a investigarlo. Insomma, abbiamo una comprensione sofisticata di quelle che sono manifestazioni di una sessualità disturbata e siamo in grado di identificarle. Le procedure non possono mai garantire la giustizia, ma offrono un contesto nel quale possiamo ottenere giustizia. Penso, quindi, che tutto il dolore degli ultimi dieci anni abbia prodotto buoni frutti, ma dobbiamo sempre essere vigili, attenti, guardinghi, senza diventare paranoidi».

Spesso, nel suo libro, lei parla di come la nostra società promuova un approccio alla sessualità molto lontano dalla castità cristiana. Dove vede, nella nostra società, esempi di castità cristiana? E che cosa possiamo fare per riconciliare la nostra società con l’ideale cristiano di castità?

«Conosco molte coppie e molti single che sono ottimi esempi di castità cristiana. Viviamo in un mondo spezzato, dove molte persone si sentono molto sole, senza amici. L’esempio di esseri umani che siano pienamente integrati, che vivano vite equilibrate e armoniose, che siano capaci di amore autentico e di amicizia, di darsi davvero agli altri, avrà una grande capacità magnetica di attrazione e potrebbe portare a una rivoluzione».

www.avvenire.it

immagine

 

 

martedì 3 dicembre 2024

GENERAZIONI SENZA


 CON o SENZA?

-         


-di Alberto Caprotti



Togliere, limare, diminuire: alla fine, sono sempre questi i verbi del presente.

Che fanno bene alla testa prima ancora che al cuore, perché probabilmente aiutano a vivere meglio.

Ma che presuppongono di rimettere qualcosa “dentro” per compensare il vuoto cosmico che lasciano e che ci circonda fuori.

Vogliamo mangiare senza olio di palma, certamente, ma la nostra è anche la civiltà senza sentimenti, senza tempo, senza cortesia, senza confidenza, senza vita.

Eliminiamo, razionalizziamo, “ottimizziamo” come dicono quelli che parlano difficile e sanno fare i bilanci. 

E il conto finale è più magro, in tutti i sensi.

Mancano i contenuti, ma anche semplicemente i “con” e tutti gli accessori limitrofi. I confini allargati, i congiuntivi giusti, i consigli utili, le conseguenze positive, i contatti costruttivi, i concetti intelligenti.

Senza sale è diventato un modo di essere di troppi, un gusto amaro di rinuncia che non fa bene affatto.

Senza tanto, resta quasi nulla.

 E la certezza che si stava meglio solo quando c’era qualcosa che condiva il tutto.

Per questo la nostra generazione cresciuta a forza di “senza”, dovrebbe rivalutare il valore del “con”.

Prefisso di condividere, che poi è voce del verbo moltiplicare. 

Vorrei ricordarmi di non dimenticarmelo, con forza e senza dubbi.

www.avvenire.it

Immagine


 

 

ADOLESCENTI e SMARTPHONE

 

Smartphone agli adolescenti? 
Riduce concentrazione, rallenta la memoria, compromette il sonno, causa isolamento. Giusto limitarne l’uso”.


Intervista alla dottoressa Angela Grassi


Di Fabio Gervasio

Il digitale tra opportunità e rischi. Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Maria Angela Grassi, Pedagogista, Psicologa, Fondatrice e Direttrice della Rivista Professione Pedagogista, Pubblicista e Presidente di ANPE, l’Associazione Nazionale dei Pedagogisti Italiani, che opera nel settore dal 1990 e che ha promosso l’approvazione della legge 55/2024, riguardante Disposizioni in materia di ordinamento delle professioni pedagogiche ed educative e istituzione dei relativi albi professionali.

Dottoressa Grassi, ultimamente si parla molto sull’opportunità di introdurre un divieto sull’utilizzo di smartphone e social media legati ad una specifica età, tanto da portare ad una petizione firmata da molti professionisti del settore educativo. Ci dice cosa ne pensa e se è utile introdurre delle limitazioni?

Inizialmente, ero piuttosto scettica riguardo all’idea di introdurre un divieto sull’utilizzo di smartphone e social media per determinate fasce di età, poiché ritenevo che un approccio restrittivo non fosse educativo e potesse essere percepito come una limitazione alla libertà dei giovani. Tuttavia, dopo aver approfondito il tema, ascoltando il parere di esperti del settore, in particolare medici e neurologi, ho cominciato a rivedere la mia posizione. Gli studi scientifici che analizzano gli effetti degli smartphone e dei social media sulla salute mentale e fisica dei bambini e dei ragazzi sono sempre più preoccupanti. Il loro uso eccessivo è associato a problematiche come l’aumento dei disturbi dell’umore, dell’ansia, e dei problemi legati al sonno, nonché a disturbi della concentrazione e al rischio di isolamento sociale.

Ma non sono solo la salute mentale e fisica a essere a rischio: l’utilizzo prolungato e senza regole di dispositivi tecnologici influisce anche negativamente sull’apprendimento e sul rendimento scolastico. Diversi studi hanno evidenziato come l’uso incontrollato degli smartphone e dei social media possa ridurre la capacità di concentrazione dei ragazzi, rallentare la memoria a breve termine e compromettere la qualità del sonno, un fattore cruciale per la memorizzazione e il recupero delle informazioni apprese durante il giorno. La continua distrazione causata dalla disponibilità di notifiche, messaggi e interazioni sui social impedisce loro di immergersi profondamente nelle attività scolastiche, rendendo più difficile lo studio e l’assimilazione delle informazioni.

Alla luce di queste evidenze, credo che sia opportuno intervenire con misure più forti, come l’introduzione di limitazioni sull’utilizzo di dispositivi tecnologici da parte dei più giovani. Queste misure non devono però essere percepite come un divieto fine a sé stesso, ma come un’opportunità per educare alla responsabilità digitale, proteggendo i nostri ragazzi da rischi che, se non correttamente gestiti, potrebbero compromettere non solo la loro crescita psicologica e sociale, ma anche il loro rendimento scolastico. È fondamentale, infatti, accompagnare queste restrizioni con un’educazione mirata sull’uso consapevole e salutare della tecnologia, affinché i ragazzi possano trarne il massimo beneficio senza esserne sopraffatti.

Per quanto riguarda la scuola il Ministro Valditara ha già approvato un provvedimento sul divieto, dall’altro lato sarebbero le famiglie a dover vigilare sui propri figli. In una società dove i genitori vivono grosse difficoltà, dovute ad un modello educativo in crisi e ad una cronica mancanza di tempo, è possibile realizzare questa alleanza?

Come pedagogista e Presidente dell’ANPE, credo fermamente che i pedagogisti possano e debbano svolgere un ruolo centrale nel facilitare e supportare l’alleanza tra scuola e famiglia, in particolare su temi complessi come quello del divieto d’uso degli smartphone e dei social media. È vero che oggi le famiglie si trovano ad affrontare difficoltà crescenti, legate sia ai modelli educativi in crisi che alla scarsità di tempo e risorse. Tuttavia, non credo che questo debba rappresentare un ostacolo insormontabile, ma piuttosto un’opportunità per creare soluzioni condivise.

La scuola e le famiglie sono chiamate a lavorare insieme per il benessere dei ragazzi, ma affinché questa alleanza sia efficace, è necessario che entrambe le parti ricevano un supporto adeguato. I pedagogisti, con la loro esperienza, sono in grado di facilitare questo dialogo, aiutando sia i docenti che i genitori a comprendere i bisogni dei ragazzi e a sviluppare strategie educative che possano essere messe in pratica concretamente, nonostante le difficoltà quotidiane.

Il nostro compito è quello di fornire strumenti pratici e supporto continuo, creando momenti di formazione e di confronto, affinché genitori e insegnanti possano collaborare in modo più consapevole ed efficace. La responsabilità educativa non può essere delegata esclusivamente alla scuola o alla famiglia: entrambe le istituzioni devono agire come partner in un progetto comune di crescita. I pedagogisti possono essere il ponte tra questi due mondi, favorendo una comunicazione aperta e promuovendo azioni che siano realistiche e sostenibili, tenendo conto delle reali difficoltà che le famiglie e gli insegnanti si trovano ad affrontare.

In Italia a scuola si consolida sempre più la figura dello psicologo ma manca quella specialistica del pedagogista, la prima cura il disagio, la seconda cerca di prevenirlo. Lei che guida un’associazione come l’ANPE, non ritiene che sarebbe importante dotare le scuole di questi professionisti soprattutto per educare i ragazzi anche su un uso corretto dei dispositivi digitali?

Condivido pienamente la sua osservazione: la figura del pedagogista nelle scuole è fondamentale e, sebbene lo psicologo svolga un ruolo importante nel supportare i ragazzi che affrontano situazioni di disagio, è altrettanto fondamentale che i pedagogisti siano presenti per affrontare il disagio in modo preventivo, lavorando a monte per educare i bambini e i ragazzi a un uso consapevole e corretto dei dispositivi digitali. La presenza dei pedagogisti nelle scuole, anche nell’ambito dell’educazione digitale, risponde a una necessità che oggi è sempre più urgente.

Il pedagogista non si limita a intervenire in situazioni già problematiche, ma si occupa di formare e sensibilizzare le nuove generazioni, proponendo percorsi educativi che li aiutino a comprendere l’importanza di un uso equilibrato della tecnologia. Attraverso attività di ascolto e supporto, il pedagogista è in grado di cogliere le difficoltà e i segnali precoci di disagio, prima che possano trasformarsi in problemi più gravi. Il lavoro preventivo è quindi essenziale per sviluppare la resilienza nei ragazzi e aiutarli a navigare il mondo digitale in modo sano e consapevole.

Inoltre, il pedagogista è un professionista in grado di collaborare con tutte le componenti scolastiche, contribuendo a creare un ambiente di apprendimento positivo e inclusivo. Insieme agli insegnanti, i pedagogisti possono promuovere un’educazione digitale che non si limiti solo all’insegnamento dell’uso della tecnologia, ma che affronti anche le problematiche legate all’isolamento, alla dipendenza digitale, e alla gestione delle emozioni e delle relazioni online.

Credo che investire nella presenza dei pedagogisti nelle scuole possa contribuire non solo ad arricchire l’offerta educativa, ma sia una risposta concreta e necessaria per affrontare le sfide del mondo contemporaneo, preparando i giovani a diventare cittadini digitali responsabili e a prevenire le varie forme di disagio prima che emergano.

Un’ultima domanda, abbiamo parlato di educare al buon uso di smartphone e social media, ma quant’è importante anche dare il buon esempio mettendo in pratica noi stessi le indicazioni che diamo ai nostri ragazzi?

Sono convinta che la frase di Paolo Borsellino, ‘Si educa con quello che si dice, ancor di più con quello che si fa, ma molto di più con quello che si è’, rappresenti una verità fondamentale, che si applica perfettamente anche al contesto educativo di oggi. Educare non significa solo impartire nozioni o imporre regole, ma soprattutto essere un modello per i giovani. Nel contesto digitale, questo principio è ancora più rilevante. I ragazzi, infatti, apprendono non solo dai discorsi degli adulti, ma soprattutto dal comportamento che questi ultimi adottano nelle loro interazioni quotidiane, anche nel mondo digitale.

Se vogliamo educare i giovani a un uso consapevole dei dispositivi digitali, dobbiamo essere i primi a dimostrare come utilizzare la tecnologia in modo equilibrato, responsabile e rispettoso. Il nostro esempio è fondamentale. Un adulto che vive la tecnologia come un’opportunità di crescita e non come una dipendenza, che sa fare un uso critico e riflessivo delle risorse digitali, diventa un modello di riferimento per i giovani.

In questo senso, il ruolo dei pedagogisti, così come quello degli insegnanti e dei genitori, è cruciale. Non si tratta solo di insegnare, ma di accompagnare i ragazzi in un percorso di consapevolezza che li aiuti a comprendere le potenzialità e i rischi della tecnologia. Si educa anche attraverso l’ascolto, la presenza, e soprattutto l’esempio. Solo così potremo sperare di formare una generazione in grado di affrontare il mondo digitale con consapevolezza, equilibrio e responsabilità.

Orizzonte Scuola

Immagine

 

COSE MEMORABILI

 


- di Alessandro D’Avenia

 


Un mese fa ho partecipato alla Fiera del libro di Francoforte. Al di là dell'intervento che ho tenuto in Fiera sul perché abbiamo bisogno dei classici, ho potuto incontrare i lettori in due eventi esterni in occasione dell'uscita del romanzo L'Appello in tedesco, in una scuola e in un centro culturale.

 Le memorie vive di quelle ore mi tornano in mente e mi chiedo se raccontarle possa servire a qualcuno. Chi scrive deve sempre passare tra Scilla e Cariddi: da un lato il rischio di occuparsi troppo dell'io dimenticando il mondo e dall'altro quello di occuparsi troppo del mondo dimenticando l'io. Solo la relazione e tensione tra io e mondo aiuta a conoscere e amare di più la realtà, e rende un'esperienza, anche minuta, universale, cioè capace di unire cose e persone. 

 Memoria

Chissà che questi fatti, anche dopo un mese (il «distante» rimane «istante» solo in base al livello di intensità della verità toccata), non risuonino anche in voi, cari lettori. Se li racconto è perché per me sono Memoria, cioè, nel mito greco, la madre delle Muse e non il passato o un archivio dati, come la intendiamo oggi, ma un presente che genera e non passa mai, e che, ricordato, produce la stessa serotonina (ormone della felicità) di quando viene vissuto, energia rinnovabile e sempre disponibile. Solo di questa Memoria la Musa può esser figlia. E voi di cosa fate Memoria oggi? Provando a rispondere scoprirete dove è per voi la Musa, la vita che non muore, ispirazione e gioia a comando. Comincio io. 

 «Quando nell'ultima settimana vi siete sentiti pieni di vita?» ho chiesto ai ragazzi presenti all'incontro nella scuola tedesca, una domanda comprensibile in qualsiasi lingua e latitudine. Un simpatico 13enne, di nome Max, ha risposto, con il volto luminoso: «Quando ho ricevuto un bel voto nel test di scienze. E non tanto per il voto ma perché è stata la conferma della cosa che mi appassiona di più: studiare i misteri dello Spazio». Max aveva appena descritto il senso della scuola: scoprire ciò che ci rende vivi incontrando quello che nel mondo desta stupore, ci tocca, ci ispira. Quando un ragazzo ha 8 in scienze e 4 in latino gli serve un insegnante privato di scienze non di latino, perché, come Max, è in quell'ambito che creerà e quindi crescerà, non a caso crescere e creare hanno la stessa radice linguistica. Poiché scuola è ovunque si vada a cercare ciò che non muore, dopo l'incontro mi sono poi diretto dove, per come sono fatto, trovo «scuola»: il museo Städel. Lì mi aspettava, senza che io lo sapessi, uno dei quadri che amo di più. L'anno scorso ero stato ad Amsterdam per la più grande mostra mai realizzata sul pittore olandese Vermeer, ma mancava proprio questo quadro. E me lo ritrovo lì, come una grazia. Si tratta del Geografo, dipinto tra il 1668 e il 1669, anni in cui Amsterdam è il centro del mondo e lo sviluppo della cartografia il segno della sua vivacità culturale e commerciale. Nel quadro c'è un uomo chino su una carta: la sua mano destra, sospesa a mezz'aria, tiene un compasso, mentre la sinistra, contratta su un libro, regge il peso del corpo. Una luce magica attraversa la finestra e investe il volto dell'uomo che, sorpreso, rimane sospeso nel tempo e nello spazio, fuori dal tempo e dallo spazio. Il quadro è infatti una specie di annunciazione profana, cioè quando l'angelo della realtà ci rivela la nostra vocazione e unicità. Il geografo sta cercando di “afferrare” il mondo con i suoi mezzi (la carta, il compasso e il libro), ma il mondo resta inafferrabile e, con la sua luce inesauribile e sorprendente, torna a stupirci, chiamandoci a una conoscenza che dipende dall'amore e non dal potere. Non c'è infatti duraturo aumento di conoscenza di un pezzo di mondo che non sia preceduto da un aumento di amore per quel pezzo di mondo, e quell'amore è causato sempre dallo stupore. L'amore non acceca, quella è la passione o l'innamoramento, l'amore invece ci vede benissimo, infatti solo chi ama ri-conosce (conosce sempre di nuovo) chi e cosa ama.

Stupore e amore

Lo stupore genera amore e l'amore conoscenza, e la conoscenza nuovo stupore: il circolo virtuoso e gioioso dell'esistenza (stupore-amore-conoscenza). Quel quadro mi ricorda chi sono e che ci sto a fare qui. Potrebbe sembrare un incantesimo lanciato sulla vita che è spesso opaca e ripetitiva, ma l'arte esiste proprio per questo: ricordarci che la vita è gioia e siamo noi che dobbiamo smettere di tradirla e di tradirci inseguendo illusioni e menzogne. Ne ho avuto conferma quando, di sera, ho incontrato i lettori tedeschi. Mentre, come il geografo, cercavo di mettere in ordine il mondo con le mie parole, la mia attenzione è stata attratta, come la luce che sorprende l'uomo nel quadro, da una un'anziana signora che, per tutto il tempo della presentazione, mentre ascoltava, si prendeva cura del marito in carrozzina: gli aggiustava la giacca contro il freddo, gli asciugava la saliva, gli dava una carezza... Alla fine dell'incontro una signora in fila per le dediche mi ha detto: «Per Otto». Le ho chiesto chi fosse Otto e lei mi ha risposto «Mio marito, ma non è in fila con me». Avendola riconosciuta come la signora che si prendeva cura del marito, le ho scritto: «A Otto, un uomo molto amato». Lei, commossa, mi ha confidato che tutte le mattine lui le dice che è stato fortunato a trovare la donna migliore che gli potesse capitare, e lei gli risponde: «Anche io». Tutti ci siamo fermati e, investiti da una luce simile al quadro di Vermeer, abbiamo sentito che volevamo un amore così.

Più tardi, vagando per la città e pensando ancora a quella coppia, mi sono ritrovato sul famoso Eiserner Steg, il ponte di ferro che, con alterne vicende, collega dal 1868 il centro ai quartieri oltre il fiume Meno. Una gigantesca scritta in greco svettava sul ponte. Che ci faceva lì? Qualche anno fa un artista ha voluto che in cima fosse ben visibile un verso dell'Odissea: «Navigando sul mare colore del vino verso genti che parlano altre lingue». Ho attraversato il ponte (Omero, in questo verso, chiama il mare con uno dei suoi nomi greci: pontos, termine che ne indica la capacità di fare proprio da “ponte” tra terre e tra uomini) e, vicino ai tanti stranieri che lo attraversavano, ho sentito che Omero aveva ragione: siamo tutti compagni di viaggio nello stesso mare della vita e con una meta comune: casa.

«Fiera» significa giorno festivo, e così è stata per me quella di Francoforte: una festa di incontri, in cui il mondo mi ha chiesto ancora una volta di tornare a stupirmi, per amare di più e conoscere di più. Che altro ci sarebbe da fare sulla Terra? Che altro da ricordare in una vita?

 Alzogliocchiversoilcielo

Corriere della Sera

Immagine

 

 

domenica 1 dicembre 2024

IL SELF REGALO

 

Sarà una carestia di desideri che preparerà,

 prima o poi, la fine di questo

 nuovo culto globale.

 La speranza è che nel frattempo,

 da qualche parte,

 siano sopravvissuti comunità e doni veri.


- di Luigino Bruni 

Tra le molte feste della religione capitalista il black friday è quella che presenta una “purezza cultuale” perfetta che ci consente di capire dimensioni di questa nuova religione che vediamo con minore limpidezza in altre feste ormai trasformate e assimilate, come il nuovo Natale o il vecchio Halloween. 

La liturgia del consumo

Innanzitutto, dobbiamo tener presente che la mentalità del consumo fa parte di ogni esperienza religiosa. Il culto, la liturgia, sono sempre state anche esperienze di soddisfacimento di bisogni del corpo, non solo dell’anima. Basti pensare anche ad una messa cattolica dove tutti i sensi sono stimolati: udito (canti), vista (arte), olfatto (incensi), gusto (pane e vino), tatto (statue di santi). Nelle religioni la dimensione spirituale è solo una tra le tante, e nemmeno quella più importante. I nostri nonni che riempivano le chiese (le nonne soprattutto) e popolavano le feste religiose, non erano interessati alla mistica né all’ascetica. Non cercavano la contemplazione delle realtà celestiali. La messa domenicale e le altre feste di precetto erano soprattutto la celebrazione del legame sociale, della vita, un’esplosione di corpi, di abbracci, di danze, di grandi pasti collettivi, di eccesso, di spreco, di dépense (diceva Bataille), di trasgressione, del bisogno di un giorno diverso. I santi e Dio erano la scusa per fare la festa e le processioni, ma i protagonisti principali della festa erano altri. 

 Se lo guardiamo bene, il black friday presenta infatti tutti i caratteri antropologici e sociali degli antichi culti religiosi. Il primo riguarda la stessa importanza essenziale delle feste. Il cristianesimo non divenne christianitas per l’Editto di Milano del 313. Non lo divenne neanche per la teologia, né per i libri e i dogmi. L’operazione decisiva fu l’occupazione prima dei vecchi templi greco-romani e, poi, soprattutto, la sostituzione delle vecchie feste popolari romane, celtiche, etrusche, picene, sabine ... 

La cultura nasce dal culto, ci ricordava nel 1922 Pavel Florenskij. E cultura significa processioni con baldacchini da trasportare e i fuochi da sparare, oggetti da toccare con le mani, statue da bagnare con le lacrime, e la loro ripetizione ciclica annuale. 

 Anche il black friday è nato come festa di processioni (davanti ai negozi), il bisogno di toccare l’oggetto, lacrime per aver ottenuto l’oggetto tanto desiderato, una festa popolare molto affollata. Negli ultimi anni, però, si stanno verificando importanti novità, che ne stanno velocemente cambiando la natura. Prima però soffermiamoci su un elemento da non sottovalutare. 

 Il mondo cattolico, soprattutto con la Controriforma, ha molto accentuato la dimensione del consumo nel culto e nella liturgia – si pensi alla messa, dove il sacerdote “produce” il bene (eucarestia) che il popolo ‘consuma’. 

La cosiddetta “cultura della vergogna”, sempre attiva e dominante nei Paesi latini, ha creato un ambiente economico dove le persone competevano soprattutto attraverso i beni di consumo “vistosi” (vestiti, case, auto... ), e non tramite il lavoro come accadeva invece nei Paesi protestanti. Tutto ciò ha creato una particolare predisposizione del mondo cattolico per la nuova religione del capitalismo da quando, negli ultimi decenni, questa ha spostato il suo centro dal lavoro al consumo. 

 La religione capitalista

Da qui un ennesimo paradosso: la religione capitalistica è nata nei Paesi calvinisti ma sta conquistando soprattutto quelli cattolici – e sempre più velocemente i vari Sud comunitari del mondo. Il black friday piace molto più a noi che agli olandesi o agli svizzeri. Si comprende allora dove si trovi un primo problema decisivo. Il mondo cattolico è culturalmente meno attrezzato per riconoscere l’insidia di queste feste della nuova religione fondata sul consumo che sta eliminando le ultime vestigia di cristianesimo, di cattolicesimo in particolare – mi chiedo quanti cattolici praticanti hanno fatto “obiezione di coscienza" al rito di questo venerdì? 

 Quanti negozi dell’economia sociale o cooperativa hanno resistito alla seduzione del nuovo culto? Il culto consumista sta svuotando l’anima dei cristiani molto più radicalmente di quanto non abbiano fatto tutti i comunismi e i socialismi della storia. 

 Il black friday ha poi delle sue tipicità, antiche e nuove. La prima è una forma inedita di politeismo. Per capirlo occorre prendere coscienza che il dio-idolo adorato è il consumatore, non l’oggetto che si acquista. Quindi gli “dèi”, i consumatori sovrani e idoli, sono milioni, ormai miliardi. Ce lo rivela un elemento fondativo di ogni religione: il sacrificio. Gli sconti del black friday sono quasi sempre veri, non finti. A dirci che chi in questo giorno si sacrifica non è il consumatore per l’impresa ma l’impresa che compie l’offerta (si noti il linguaggio) a vantaggio del suo consumatore-dio. 

Un sacrificio controllato, piccolo, omeopatico, che, come ogni omeopatia, ha lo scopo di immunizzare dalla malattia: un piccolo sacrificio, che somiglia al dono, un donuncolo, affinché il capitalismo possa immunizzarsi dal dono vero, che è il virus di cui ha una paura tremenda. 

 Il regalo che arriva a casa

La seconda novità riguarda la fine della dimensione comunitaria di questa nuova religione. Finora abbiamo conosciuto soltanto religioni comunitarie. Ma ormai l’oggetto non lo compriamo più nei negozi-templi affollati, in processione, come avveniva all’inizio; ormai ci arriva, docile e veloce, a casa con un semplice clic (e una carta di credito), senza incontrare nessun umano lungo il cammino. Con l’intelligenza artificiale questo individualismo diventerà totale. 

 Infine, la terza novità. Quest’anno, durante la novena di preparazione della festa era sempre più comune leggere: “Fatti un regalo per il black friday”. 

Le feste cristiane erano centrate sui doni da fare a qualcuno e da ricevere da qualcun altro; oggi c’è la celebrazione del self-love, che è la vera fine dell’umanesimo cristiano del dono. Il self-regalo è l’apoteosi dell’idea arcaica del regalo (da rex, regis), cioè offerte da fare al re, con un elemento davvero inedito: l’unico sovrano è l’individuo che fa offerte a se stesso, il donatore coincide col donatario. 

 Desiderio e appagamento

In questa cancellazione di doni veri si trova il tallone d’Achille della religione del consumo: il desiderio. Nessun desiderio può essere davvero appagato da merci, tanto meno da self-regali, perché l’essenza del desiderio è desiderare qualcuno che ci desidera, desiderare un desiderio, che nella fede cristiana raggiunge la sua apoteosi in un Dio che ci desidera. 

Le merci che diventano doni ci piacciono molto perché sono sacramento di una persona che ci ama e ci desidera; e ogni volta che guardiamo quell’oggetto, vi rivediamo gli occhi, l’odore e il sapore di chi ci ha amato: nel self-regalo sentiamo soltanto l’odore e il sapore di noi stessi, infinita tristezza. 

 Grazie a Dio, le merci hanno molte virtù, ma non sanno desiderare. Sarà una carestia di desideri che preparerà, prima o poi, la fine di questo nuovo culto globale. La speranza è che nel frattempo, da qualche parte, siano sopravvissuti comunità vere, doni non-omeopatici, desideri grandi, Dio.

 Avvenire 

Immagine



 

 

NUTRIRE LA MENTE PER VIVERE BENE

 


Questo volume, che vede all’opera un nutrizionista noto a livello internazionale e un celebre psicoterapeuta, parte da questo punto: pensare bene, mangiare bene, per vivere bene! 

Non siamo di buonumore? Magari tristi e depressi? Tenderemo ad alimentarci in modo più “pesante" e disarmonico. 

Questo perché i nostri pensieri, e in particolare le emozioni, determinano la qualità e la quantità dei cibi. 

Siamo di buonumore? Magari allegri e gioiosi? Saremo portati verso un’alimentazione più “leggera" perché ci sentiremo in contatto con le parti più elevate della nostra coscienza, sospinti a ingerire cibo di qualità nella giusta quantità. 

Bisogna conoscersi e volersi bene in tutti i sensi, orientando la propria vita verso il bello così da poterlo cogliere in ogni aspetto della vita. 

Non è semplice e non basta da sola la volontà, ma dobbiamo cercare di trovare, per quanto possibile, il piacere, anche attraverso il cibo, e sapere che le emozioni ci nutrono e che lo stress può portare il bisogno incontrollato di cibo. 

Il cibo è relazione con la vita: per questo è importante nutrirsi bene per vivere bene, essere consapevoli di sé, del proprio corpo e liberarsi da parole tossiche e comportamenti disfunzionali.

Nutrire la mente. Tra parole, cibo ed emozioni