mercoledì 31 luglio 2024

NUOVA LEGGE SULLA SCUOLA

 



Nuova legge sulla scuola:

 è la numero 106

 e riguarda corsi sul sostegno 

e docenti per alunni stranieri. 

Pubblicata in Gazzetta, 

entra in vigore il 31 luglio

- di   Reginaldo Palermo

 È stato pubblicato poche ore fa nella Gazzetta Ufficiale del 30 luglio il testo della legge 106 con cui viene convertito il decreto 71 recante disposizioni urgenti in materia di sport, di sostegno didattico agli alunni con disabilità, per il regolare avvio dell’anno scolastico 2024/2025 e in materia di università e ricerca.

Gli articoli che riguardano la scuola hanno a che fare con la specializzazione dei docenti di sostegno presso Indire, la conferma di questi docenti da parte delle famiglie per garantire la continuità scolastica, le abilitazioni all’estero, la formazione per insegnare a studenti stranieri e la valutazione dei dirigenti scolastici.

Il docente per stranieri

Il provvedimento sull’introduzione del docente per stranieri, prevede la presenza, del suddetto insegnante, nelle classi con un numero di alunni stranieri pari o superiore al 20%. L’obiettivo è garantire, attraverso la conoscenza della lingua italiana, una reale uguaglianza tra tutti gli studenti e combattere la dispersione scolastica. La nuova figura, adeguatamente formata, dovrebbe entrare a regime nell’anno scolastico 2025/2026, considerando in ogni caso che le scuole nell’ambito della loro autonomia possono organizzare corsi aggiuntivi extracurricolari di potenziamento.

Conferma del docente di sostegno da parte delle famiglie

Fra le novità presenti nel decreto assume rilevanza la volontà del Governo di garantire la continuità didattica ai ragazzi disabili, anche nel caso di docenti non di ruolo. La condizione fondamentale è che sia la famiglia a richiedere la conferma del docente che ha seguito il figlio/a disabile l’anno precedente.

Tfa Indire per chi ha anni di servizio sul sostegno o ha titoli esteri

Il decreto prevede l’attivazione di alcuni percorsi per conseguire la specializzazione sul sostegno “alternativi” rispetto al Tirocinio Formativo Attivo, il Tfa, erogato dalle Università ogni anno. 

I percorsi che saranno attivati sono due: uno dedicato a chi ha anni di servizio sul sostegno e un altro dedicato a chi è in possesso di titoli esteri.

Valutazione dirigenti scolastici

Fra le novità previste, al fine di valorizzare ancora di più la figura del dirigente scolastico, anche a livello economico, è introdotto un nuovo modello di valutazione volto a verificare la loro attività su dei parametri meritevoli secondo dei modelli indicati per tutta la pubblica amministrazione. I parametri saranno predisposti al fine di garantire un’oggettiva e trasparente valutazione delle performance individuali, sulla base di obiettivi definiti e misurabili e in relazione al raggiungimento degli stessi, sarà riconosciuta la retribuzione di risultato. Fermo restante che la suddetta valutazione sarà disciplinata da un successivo decreto del Ministro.

La legge entra in vigore il 31 luglio e da quella data decorrono i termini per l’adozione dei decreti applicativi da parte del Ministero.

Tecnica della Scuola

 

 

NON IRRIDERE LA RELIGIOSITA'

 "È sbagliato irridere la religiosità.

 I Giochi antichi erano un evento sacro"

La dissacrazione della tradizione cristiana e occidentale compiuta dall'inaugurazione di Parigi rappresenta la fatuità di questi nostri poveri giorni.


- di Vito Mancuso

 

 Un tempo le Olimpiadi iniziavano con una consacrazione, oggi invece sono iniziate con una dissacrazione. E il punto è che la dissacrazione della tradizione cristiana e occidentale compiuta dall'inaugurazione di Parigi dice di noi: rappresenta la fatuità di questi nostri poveri giorni, fotografa la miseria culturale e spirituale che li caratterizza, è l'emblema dell'inimicizia sempre più intensa verso la nostra storia. Una pianta senza radici secca, una civiltà senza radici lo stesso: e la nostra civiltà, che è post-cristiana, post-occidentale, post-umana, è ormai sradicata da tempo. Non c'è praticamente manifestazione culturale di massa che non ce lo ricordi. I movimenti languidi dei corpi delle cosiddette drag queen l'altro ieri a Parigi nella loro parodia queer dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci (cioè dell'immagine pittorica universalmente più nota dell'Ultima Cena di Gesù Cristo) rappresentavano, in quel momento in mondovisione, l'emblema degli spasimi in cui si contorce l'anima occidentale, nemica di se stessa e della propria tradizione, secondo la medesima tendenza manifestata da "cancel culture", "woke" e orientamenti culturali del genere. Se non si deve beatificare il passato, secondo quella visione altamente immatura che colloca nel passato tutto il bene e vede nel presente solo il male, non si deve neppure cadere nell'eccesso opposto. La storia siamo noi, cantava Francesco De Gregori, il che significa che noi, oggi, siamo anche la storia di ieri, essa è dentro di noi, ci consegna le parole con cui parliamo e le idee con cui pensiamo, e ogni operazione che intende "cancellare", e non, giustamente e kantianamente "criticare", è necessariamente destinata a non capire e quindi a fare male. L'ignoranza, è matematico, produce sempre male, tanto più quando si presenta come "cultura".

 Le Olimpiadi prendono il nome da Olimpia, città-santuario dell'antica Grecia sede del grande tempio dedicato a Zeus Olimpio al cui interno vi era l'enorme statua del dio supremo, catalogata tra le sette meraviglie del mondo antico, opera di Fidia, raffigurante Zeus reggente nella mano destra una Nike dorata. A quei tempi Nike si pronunciava proprio così, nike, e non, come oggi, naik, ed era una divinità classica, non un logo commerciale americano. Uno a quei tempi guardava Zeus e la Nike e vi si votava, a differenza di oggi quando uno guarda una nike nel senso di naik e chiede quanto costa.

 Ogni quattro anni a Olimpia si svolgevano le rinomate gare atletiche passate alla storia con il nome di Olimpiadi, le quali, prima di tutto, erano un avvenimento sacro. Ebbero inizio nel 776 a.C., le ultime sono registrate nel 393 d.C., l'anno in cui l'imperatore Teodosio, che aveva fatto del cristianesimo la religione di stato e aveva dichiarato illegale la religione classica cioè l'anima della civiltà greco-romana, proibì anche i giochi olimpici per le radici religiose cui essi pur sempre rimandavano. Si trattò di uno dei primi nefasti esempi di cancel culture. Un altro caso fu quello in cui l'imperatore Giustiniano chiuse la Scuola di Atene, la più illustre sede della filosofia classica, perché pagana e non cristiana.

 Ma torniamo alle antiche Olimpiadi. La loro durata standard era di cinque giorni: nel primo gli atleti e i giudici pronunciavano un solenne giuramento di essere leali e rispettare le regole; nel terzo davanti all'altare di Zeus si svolgeva il grande sacrificio di cento tori detto ecatombe; nel quinto vi era la processione finale. Ed era in questa cornice sacra che si svolgevano le gare sportive con i vari tipi di corsa, di lotta, di salti, di lanci, di corse col carro, di corse a cavallo. I premi dei vincitori? Non medaglie d'oro, ma corone di foglie di olivo.

 Nella Grecia antica vi erano altri tre giochi panellenici: quelli detti Pitici, che si tenevano a Delfi e che all'inizio erano solo competizioni musicali e letterarie ma che poi presero a ospitare anche gare sportive; quelli detti Istmici, che si tenevano sull'istmo di Corinto; e infine quelli detti Nemei perché celebrati presso il santuario di Zeus Nemeo nella vallata di Nemea, città del Peloponneso settentrionale. I premi? Corone di alloro, di pino selvatico, di piante aromatiche.

 Si legge nella celebre guida della Grecia antica redatta da Pausania proprio al tempo delle Olimpiadi: «Moltissimi sono gli spettacoli meravigliosi che la Grecia offre e alcuni destano meraviglia in chi ne sente solo parlare; ma nelle cerimonie dei misteri eleusini e dei giochi di Olimpia si coglie la presenza di una particolare cura del cielo». Una particolare cura del cielo, scrive Pausania. Per gli antichi greci (cioè per i padri della nostra civiltà, a cui noi ancora oggi dobbiamo gran parte della nostra cultura) curare il cielo e onorare gli dèi significava curare e onorare la loro umanità. Oggi questa ormai abitudinaria dissacrazione del divino e irrisione della religiosità è la porta della dissacrazione dell'umano?

 Qui il discorso diventa complicato e lo spazio a mia disposizione per questo articolo si va esaurendo. Gli antichi greci avevano gli schiavi, noi, almeno formalmente, non più. Erano tremendamente maschilisti e le donne non contavano nulla, da noi le cose sono ormai molto diverse. Non si tratta quindi di mitizzare il passato; si tratta, come ho già detto, di apprenderne la lezione, di capire che veniamo da lì. Il cristianesimo quando si impose operò nei confronti delle radici classiche in materia di spiritualità una vasta e tremenda operazione di cancel culture. Sarebbe opportuno che noi oggi, postmoderni e postcristiani, non ripetessimo lo stesso errore con il cristianesimo sempre più indebolito, ma ne onorassimo l'eredità. È la maniera più saggia e più matura di progredire e di evolvere conservando la nostra umanità.

Alzogliocchiversoilcielo

martedì 30 luglio 2024

IMPORTANZA DEL SILENZIO


 
- di ENZO BIANCHI


Siamo nel tempo delle vacanze, il tempo che vorremmo dedicare al riposo, ma facilmente dimentichiamo che per riposare occorre soprattutto il silenzio. Nella nostra società, come scrive Max Picard, “l’uomo è diventato un’appendice al rumore”, non conosce quel silenzio di cui ha assolutamente bisogno per ritrovare la propria umanità. Più che mai si deve riscoprire l’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”: impresa certo non semplice se già Eraclito diceva dei propri simili che erano “incapaci di ascoltare e quindi di parlare”. Da allora ci illudiamo di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma in realtà la nostra parola ha perso autorità e forse proprio per la mancanza del silenzio da cui deve essere generata.

 Abbiamo bisogno di una pedagogia all’ascolto autentico e alla comprensione di ciò che sentiamo e quindi è innanzitutto necessario ascoltare il silenzio. È significativo che nella tradizione spirituale dell’occidente sia attestato che l’arte oratoria ha per madre il silenzio e per padre la solitudine. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, l’accoglienza non solo delle parole pronunciate ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio che esprime l’autorevolezza di chi prende la parola, è abilitato ad essere il linguaggio dell’amore, accompagna la parola conferendole una grande capacità di penetrazione.

Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nella nostra giornata: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a invettive o slogan ripetuti inutilmente. Ormai è diventato insopportabile assistere a quello che in teoria dovrebbe essere un “dialogo” o un “confronto” televisivo: prevale l’abitudine di alzare la voce per sopraffare, addirittura per coprire la parola dell’interlocutore. E così il necessario ed elementare ritmo che comprende silenzi alternati alla parola viene stravolto, occupato da parole urlate. E, per chi assiste, il programma che dovrebbe offrire occasioni per pensare, conoscere opinioni e visioni diverse della realtà, diventa un’intollerabile esibizione urlata.

 Sì, il silenzio è più che mai necessario e nel tempo delle vacanze può essere più facile che si presentino occasioni per viverlo: in passeggiate nei boschi, sui sentieri delle montagne, o in riva al mare, al mattino o al tramonto. La natura silenziosa ci accompagna a praticare un silenzio che sa ascoltare le voci di ogni creatura e in quei momenti è anche possibile percepire il “non detto” che, come “parola degli altri”, ci risuona nel cuore come un’eco delle nostre relazioni.

 So bene che il silenzio, come la solitudine, a chi non lo pratica può fare inizialmente paura e ispirare angoscia, ma occorre dare tempo anche al silenzio di diventare una realtà che possediamo e della quale disponiamo per la nostra umanizzazione.

 È certamente cosa triste – e non ne comprendo il motivo – che venga ignorato dalla maggior parte delle persone che oggi ci sono ancora “uomini e donne del silenzio” nelle certose, nelle trappe e negli eremi, esseri umani che vivono in continuità l’esperienza umanissima di ascoltare il silenzio. Incontrando costoro forse capiremmo di più che il silenzio è linguaggio, non è mutismo, ed è relazione, comunione che non conosce barriere.

 Alzogliocchiversoilcielo

 

OVERPARENTING, UN ERRORE DA EVITARE


 Educare. 

Che errore l'overparenting, 

il genitore elicottero che controlla tutto

- di Luciano Moia

Siete genitori “interventisti”? Pretendete di pilotare in ogni istante la vita dei vostri figli? Non rinunciate a verificare con la massima cura possibile frequentazioni, amicizie, contatti abituali e occasionali? Talvolta però, dopo aver esercitato questa occhiuta vigilanza “a fin di bene”, vi interrogate sull’opportunità di continuare in questo controllo sistematico e asfissiante? Ai genitori che si pongono questi interrogativi, diciamo subito che i dubbi sono più legittimi e che sarebbe necessario resettare le abitudini.

 Negli Stati Uniti gli psicologi hanno definito questa prassi di vicinanza un po’ asfissiante, overparenting. Una genitorialità sovrabbondante in senso negativo, quasi tossica perché pretende, per esempio, di incolpare sempre e comunque gli altri bambini se il figlio, mentre gioca al parco, cade e si sbuccia il ginocchio. Oppure di puntare il dito contro l’insegnante, facendo magari la voce grossa o anche peggio, se arriva un brutto voto ma anche se il malcapitato docente si permette di rimproverare il pargolo. Una delle espressioni più deteriore di oveparenting consiste nel controllare i figli minori in tutti i loro spostamenti, geolocalizzarli mentre escono da scuola, vanno in palestra, si fermano a parlare con gli amici, avviene sempre più spesso con il loro consenso.

 I genitori, convinti di aver trovato con questa “sorveglianza informata e condivisa” una modalità per tacitare la loro coscienza, sostengono che anche i ragazzi vivono meglio. Sanno, questi malcapitati figli, che un “genitore elicottero” veglia in qualsiasi momento su di loro e – sempre secondo l’opinione di questi madri e padri – si sentono più tranquilli. “Quando ha la tentazione di “deviare” si ferma in tempo perché – mi raccontava qualche giorno fa un amico che sul suo iPhone segue passo dopo passo i movimenti del figlio 14enne – sa che verrò a sapere qualsiasi cosa in tempo reale. Una sicurezza per noi e una garanzia per lui. Prima, ogni volta che usciva, si scatenava l’ansia. Cosa farà? Chi avrà incontrato? Avrà bisogno di aiuto? Ora non abbiamo più motivi di essere preoccupati”.

 Ma è davvero così? Basta il controllo elettronico per assicurare davvero a un ragazzo una crescita più serena? O non sarà vero il contrario? E cioè che questo persistente affiancamento da remoto finisce per produrre tutta una serie di effetti negativi tali da azzerare la presunta tranquillità indotta dall’occhio elettronico.

 Due domande, tra le tante che potremmo porci: quale senso di responsabilità riuscirà a sviluppare un ragazzo consapevole – e apparentemente d’accordo – del fatto di essere controllato in ogni suo spostamento? Non rischierà di subire una preoccupante stagnazione per quanto riguarda lo sviluppo dell’autonomia? E, allo stesso modo, non risulteranno paralizzate tutte le dinamiche relative alla conquista dell’autonomia che si fondano in modo prevalente proprio sulla possibilità di verificare, tentare, sperimentare? Anche sbagliare, naturalmente, come momento normale e prevedibile di un percorso di crescita che va certamente promosso e accompagnato, ma non video-controllato né teleguidato passo dopo passo.

 Bisognerebbe anche riflettere sull’autenticità del consenso espresso dai figli. Quali sono gli adolescenti davvero contenti di essere controllati elettronicamente dai genitori? Può essere che in alcuni casi, di fronte ad atteggiamenti tanto ansiosi di mamme e papà da sfiorare la patologia, i ragazzi accettino la “spia digitale” per non causare ulteriori motivi di stress e di conflittualità familiare. Ma può anche darsi che, mentre noi ci affanniamo a trovare nuove modalità di controllo elettronico, loro abbiano già capito il sistema per aggirare il “nemico digitale”, illudendoci di poter dormire sonni mentre loro si godono a nostra insaputa la riconquistata e legittima libertà.

 Ma è chiaro che questi sistemi di controllo elettronico, facilmente utilizzabili e forse facilmente aggirabili, se possono essere utili in qualche circostanza estrema – un concerto ad alto rischio di sballo e di droga – non sono da considerare strumenti ordinari di accompagnamento educativo. Pensiamo a tutto l’ambito scolastico, al mondo delle relazioni, alla pratica sportiva. Che senso avrebbe verificare momento dopo momento la vita e gli incontri di un figlio o di una figlia se non quello di azzerarne la spontaneità, spegnare il loro sano e giusto vitalismo adolescenziale, convincerli di non essere in grado di far un passo da soli senza l’occhiuta vigilanza elettronica dei genitori.

 Attrezzare un ragazzo o una ragazza alla vita significa, al contrario, mostrare con i fatti che ci fidiamo di loro, che siamo convinti – anche se quasi sempre non è così – del loro equilibrio, della loro capacità di giudizio, della possibilità di fare bene da soli. Qualche volta ce la faranno a stare in piedi, qualche volta cadranno, in alcune occasioni torneranno con le ginocchia e il cuore escoriati. Ma la sfida dell’educazione è proprio questa. Coltivare con tutto l’impegno e la passione possibile un albero capace di germogliare. E poi attendere con pazienza e fiducia i frutti. Standosene, per quanto possibile, un po’ in disparte.

 Chi pretende di esserci sempre, di intervenire, di stabilire modi e tempi della maturazione ottiene solo l’effetto contrario. I frutti si guasteranno prima del tempo e non si otterrà altro che una immaturità perenne e irreversibile. Non credo che qualche genitore desideri questo per i propri figli.

 E allora? Mettiamo da parte l’overparenting e accettiamo il rischio di vederli crescere anche senza sapere in diretta ogni particolare della loro vita, di scoprire ogni sillaba delle loro conversazioni, di anticipare ogni loro possibile sbaglio. La bontà di un approccio educativo non si misura dal tanto percepito grazie alla geolocalizzazione, ma dal poco che loro ci verranno spontaneamente a raccontare perché si fidano di noi.

www.avvenire.it

 

domenica 28 luglio 2024

CITIUS, ALTIUS, FORTIUS

 


Padre Didon 

ispirò 

il motto olimpico


 

In questo articolo il Cardinal Ravasi ci parla di Angela Teja e di come analizza le dimensioni filosofiche ed etico-spirituali di «Citius, altius, fortius» e del profilo del domenicano, straordinario spirito eclettico nei suoi interessi.

 - di Gianfranco Ravasi.

Non ho mai praticato nessuno sport, se si eccettua la camminata chilometrica quasi quotidiana, che non è però riconosciuta come disciplina sportiva. Eppure, forse sono l’ecclesiastico che ha intrattenuto il maggior numero di contatti, rapporti e dialoghi col Comitato Olimpico Internazionale e col suo presidente Thomas Bach, al punto tale che – quando ho concluso il mio mandato di capo-dicastero vaticano della Cultura, nell’ottobre 2022 – ho ricevuto dalle sue mani come omaggio simbolico una delle medaglie d’oro delle Olimpiadi di Tokyo.

 Questa premessa autobiografica, forse un po’ spudorata, è tuttavia necessaria per presentare un saggio di Angela Teja, la più importante studiosa dello sport come fenomeno storico e culturale e, per certi versi, imparentato con la religione (tanti sportivi hanno evocato i loro esordi nei campetti degli oratori parrocchiali del passato). Infatti, in appendice al volumetto è raccolta tutta la documentazione degli incontri e dei carteggi tra la Santa Sede e il Cio, compresi quelli diretti tra il presidente Bach e il papa Francesco, particolarmente sensibile a questo tema tanto da avallare la costituzione di un’Athletica Vaticana che ha iniziato ad affacciarsi anche in alcune competizioni internazionali.

 Il cuore ideale di questa connessione della Chiesa cattolica con la massima istituzione sportiva è da ricercare in una componente ignota ai più che risale alle radici stesse dell’olimpismo. Il celebre artefice di questa realtà ormai universale a livello istituzionale (si pensi al rilievo del nostro Coni), il barone Pierre de Coubertin (1863-1937) aveva come guida spirituale un domenicano, p. Martin Didon (al secolo Henri Louis Rémy), a cui era legato da profonda amicizia. Fu questo religioso, nato nel 1840 e dotato di uno straordinario spirito eclettico nei suoi interessi, a suggerire il motto latino olimpico «Citius-Altius-Fortius», di implicita matrice tomista.

 In realtà, questa triade che rimanda – attraverso un comparativo assoluto – a una tensione progressiva nella velocità, nell’altezza e nella forza era stata elaborata inizialmente nel 1891 all’interno dell’attività pedagogica che p. Didon esercitava nel collegio francese di Arcueil. La studiosa nel suo saggio ricostruisce la genesi di questo motto anche nelle sue dimensioni filosofiche ed etico-spirituali, prima che entrasse ufficialmente nella “Carta olimpica” nel 1949, quando p. Didon e lo stesso de Coubertin erano da tempo morti (il domenicano si era spento nel 1900), ma con un’accezione tendenzialmente “fisica”. Tuttavia il Comitato Olimpico si era sforzato di assegnare ad esso implicitamente una qualità più morale come codice di condotta nelle competizioni sportive.

 L’ottica iniziale era, infatti, legata al rinnovamento del sistema educativo ai fini di una formazione integrale della persona: fin dalla classicità si promuoveva un equilibro interattivo tra corpo e anima. Chi non ricorda il detto Mens sana in corpore sano, tratto da un verso (il 356) della X Satira del poeta latino Giovenale (I-II sec. d.C.)? La paideia greca esaltava una formazione basata sull’euritmia fisica, psichica e intellettuale, tant’è vero che gli eventi olimpici classici erano persino generatori di poesia, come le odi Olimpiche di Pindaro (VI-V sec. a.C.).

 A questo punto, però, ritorniamo al rapporto vaticano col CIO suggellato da una mia visita ufficiale nella sede di Losanna nell’aprile 2016. Fu già in quell’occasione che – anche attraverso la sensibilità del presidente Bach – sul tappeto fu posta la questione dell’aggiornamento del motto olimpico tenendo conto di alcuni fenomeni di prevaricazione o di tifo esasperato e della necessità di recuperare lo spirito autentico della “competizione”, che nella sua stessa etimologia latina suppone un petere cioè un “gareggiare” cum “insieme”.

 Le molteplici visite di Bach in Vaticano, l’impegno della stessa istituzione olimpica, i vari convegni e gli incontri con le altre religioni attorno ai temi dell’inspiration-inclusion-involvement, e la stessa presenza della Santa Sede con un suo osservatore ai vari Giochi e Sessioni olimpiche condussero all’idea di trasformare la triade in una tetralogia: Citius-Altius-Fortius-Communiter, che poteva essere resa in inglese come Faster-Higher-Stronger-Together (inizialmente il CIO aveva proposto una sgrammaticatura latina, Communis). In tal modo, a distanza di quasi cent’anni si completava il progetto di p. Didon con una dimensione, tra l’altro, cara a papa Francesco, quella della fratellanza sportiva.

 Dopo tutto, un suo predecessore, Pio XI, era stato alpinista quasi “professionale”, tant’è vero che alcune vette e sentieri d’ascesa recano ancora oggi il suo cognome originario, Ratti. Per non parlare di Giovanni Paolo II, definito «l’atleta di Dio», fotografato mentre sciava, faceva canoa e nuoto e si rivolgeva spesso agli sportivi di ogni disciplina, mentre papa Francesco era ed è tifoso della squadra di calcio S. Lorenzo di Buenos Aires, della quale è tesserato (n. 88235N-O). D’altronde, il simbolo del gioco è una delle categorie analogiche usate anche in teologia, e lo scrittore francese André Maurois osservava che «il vero spirito sportivo partecipa sempre dello spirito religioso» spesso usandone simboli e riti.

 Cortile dei Gentili


 

INTELLIGENZA ?

 Si fa presto a dire intelligenza

L’intelligenza umana si è scoperta evolutivamente contigua a quella vegetale e animale ed è essa stessa plurivoca. La sfida odierna è pensare che l’intelligenza artificiale, il più impressionante prodotto di quella naturale, debba ormai servire da modello per interpretare anche la mente degli umani e dei viventi in generale

 

-      -   di COSTANTINO ESPOSITO

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Mai come oggi, essere “intelligenti” è davvero un problema. Credevamo di sapere, per esperienza diretta, che cosa significasse, ma ormai l’intelligenza deborda progressivamente in avanti rispetto a noi, con i prodotti smart generati da un algoritmo intelligente. Non solo: essa deborda anche all’indietro rispetto a noi, esseri coscienti, indotti come siamo a riconoscere una particolare intelligenza anche al polpo o al lichene, e in generale al sistema incredibilmente complesso e meravigliosamente architettato della vita fisica e biologica. Con la conseguenza che proprio il fattore che ci aveva reso per secoli il centro dell’universo, ora sembra decentrarci ogni giorno di più: una sinapsi particolare, un passaggio transeunte nella grande rete intelligente del mondo. Un capovolgimento che per portata e conseguenze si può forse paragonare alla rivoluzione copernicana in astronomia, quando si scoprì che le leggi del mondo celeste erano le stesse del mondo terrestre. Su questa situazione si parla di continuo e dappertutto, avendo come estremi da un lato coloro che lamentano la perdita del carattere specificamente umanistico e teleologico dell’intelligenza, dall’altro coloro che sono impegnati a ripensare la stessa intelligenza umana come una pura procedura di calcolo. Ma sono due posizioni astratte, che mancano entrambe l’obiettivo di capire cosa sta succedendo oggi agli esseri dotati di intelligenza e di accettare la sfida per poterci riappropriare del suo significato e delle sue funzioni. Per questo oggi è arrivato (o è tornato) il tempo di chiedersi: che significa essere intelligenti? Più oggettivamente: che cos’è e come agisce un essere dotato di intelligenza? Non possiamo infatti limitarci ad attribuire la funzione intelligente ad un essere, senza cercare di capire in che modo l’intelligenza costituisca o possa costituire la natura o l’azione propria di quell’essere.

 Le intelligenze

Come dicevamo, questa qualifica è stata riconosciuta nella nostra lunga storia naturale e culturale, come la caratteristica di tutta una serie di esseri, non solo coscienti ma anche semplicemente viventi, e oggi anche di dispositivi puramente artificiali come le macchine. Dalle intelligenze angeliche che muovono i cieli alle anime razionali incarnate nei corpi sensibili; dalle anime vegetative che muovono internamente il ciclo della crescita degli enti di natura, come le piante e gli animali, fino a quello spirito (chiamiamolo ancora così) artificiale che è il codice algoritmico, quello che fa girare la rete virtuale del mondo. Di fronte a questa varietà potremmo accontentarci semplicemente di distinguere natura, funzioni e ruoli delle diverse intelligenze. Ma questo finirebbe per raddoppiare il problema, piuttosto che risolverlo. Infatti, “chi” è che dal di fuori o al di sopra di un territorio così diversificato può tentare uno sguardo d’insieme? Chi può distinguere e separare i diversi esseri intelligenti, e chi può connetterli tra loro? Quando si parla dell’intelligenza non è come parlare solo di un tema o di un “oggetto” da definire. Possiamo e dobbiamo farlo, certo. Ma resta il fatto non scontato che, parlando dell’intelligenza, noi stessi, i parlanti, al tempo stesso stiamo usando l’intelligenza. Come succede per ogni aspetto della vita degli “io” che noi siamo, il discorso può essere sempre alla terza persona ma inevitabilmente deve esserlo anche alla prima persona.

L’esperienza

Per questo è difficile parlare dell’intelligenza in generale senza tener conto dell’esperienza che noi stessi facciamo nell’essere intelligenti, e viceversa è difficile parlare dell’intelligenza umana senza confrontarla, incrociarla e verificarla con le intelligenze diverse dalla nostra. E questo non certo per ridurle tutte a quest’ultima (sarebbe una presunzione irrealistica), ma per il fatto che l’intelligenza si può e si deve comprendere insieme dall’esterno e dall’interno.

Come legare però questi due aspetti, quello dell’esperienza di un sé individuale e quello della descrizione di una funzione generale? Per diverso tempo si è creduto di poterlo fare grazie alla misurazione dell’intelligenza attraverso dei test. Dalla psicologia alla computer science, l’intelligenza coinciderebbe con una prestazione di cui è possibile esibire un “quoziente”. Pensiamo ad esempio alle seguenti misurazioni dell’intelligenza, adattabili sia agli umani che alle macchine: x è più o meno rapido nel calcolare; x ha una memoria di maggiore o minore estensione; x è sufficientemente o insufficientemente abile nel trovare soluzioni adeguate; x apprende con grande o con scarsa facilità, anche dai suoi errori ecc.

 Misurare l’intelligenza

Questo modo di affrontare il problema lascia inevasa però la questione se l’intelligenza sia qualcosa di adeguatamente misurabile o se in essa siano presenti fattori che, per la loro stessa costituzione, non ricadono in una misura. O più radicalmente se non siano l’indice di un fenomeno non misurabile o incommensurabile, proprio come il rapporto pitagorico tra il lato e la diagonale del quadrato. Sta di fatto che da quando Alfred Binet, tra il XIX e il XX secolo, ha testato il Quoziente di Intelligenza ne è passata di acqua sotto i ponti, ed è cresciuta l’insofferenza verso questa idea di misurazione, arrivando ad una proliferazione di tipi diversi di intelligenza, non misurabili secondo un canone unico. Ad esempio, i sette famosi tipi di intelligenza di cui parla Howard Gardner (1983): intelligenza linguistica, musicale, logico matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, intra-personale e interpersonale. Oppure la distinzione proposta negli stessi anni da Robert Sternberg, tra un’intelligenza analitica, una pratica e una creativa. O la proposta di un’“intelligenza emotiva” avanzata negli anni Novanta da Daniel Goleman.

 Intelligenza plurivoca

Dunque, l’intelligenza umana, oltre a scoprirsi evolutivamente contigua a quella vegetale e animale, diventa essa stessa plurivoca. Per questo gli studiosi hanno sempre cercato anche un filo conduttore che possa assicurare un minimo di continuità nelle differenze. Prendiamo a prestito la definizione canonica di Gardner: «un’intelligenza è la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti, che sono apprezzati all’interno di uno o più contesti culturali». Successivamente (2007) Shane Legg e Marcus Hutter stabiliscono come significato universale di intelligenza, quello di un’abilità nel raggiungere determinati obiettivi in ambienti diversi, sulla base della capacità di apprendimento e di adattamento. In altri termini, ancora la capacità di problem solving. Una definizione, questa, che ambisce a essere universale perché lega esplicitamente in continuità l’àmbito psicologico e l’àmbito informatico. Fino a invertire la rotta: pensiamo a Stuart Russell e Peter Norwig che nel 2020 partono da un significato “artificiale” di intelligenza come paradigma per definire qualsiasi tipo di intelligenza. In sintesi, l’intelligenza sarebbe formalizzabile come la capacità di “fare la cosa giusta” nel proprio ambiente. Essa è la rational agency degli “esseri intelligenti”, e può essere sintetizzata così: sentire, capire, valutare, agire, conseguendo un buon risultato, anzi un buon punteggio, nella performance finale. Ecco la sfida odierna: pensare che l’intelligenza artificiale, il più impressionante prodotto performante dell’intelligenza naturale, debba ormai servire da modello per interpretare, a ritroso, anche l’intelligenza degli umani e dei viventi in generale (secondo il modello della macchina di Turing). Non solo la vita ma anche la coscienza sarebbe così codificabile in senso algoritmico.

Ma questa lettura retroattiva permette di rendere conto, calcolandole, di tutte le capacità dell’intelligenza naturale? Se l’intelligenza è apertura al mondo, alla natura e agli altri esseri, fin dove può arrivare – intus legere, inter legere – la sua freccia?

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sabato 27 luglio 2024

L'IDENTITA' RELAZIONALE

 


 I corpi intermedi

 e la democrazia

 

Dialogo e  discernimento  sono il modo migliore di partecipare e si contrappongono a quel parteggiare dove per esigenze di audience ci si chiede solo di schierarci, di esporre bandierine, di sfogare i nostri umori per attirare più attenzione.

Nella vita associativa favoriscano la qualità, la generatività, la vitalità, la valorizzazione dell'identità.

-     *-   di LEONARDO BECCHETTI

 La democrazia non è parteggiare, è partecipare. Questa forse la sintesi di uno dei messaggi più belli delle Settimane Sociali lanciato dal presidente Mattarella. Assieme a quello molto chiaro sul fatto che ci sia bisogno più che di un nuovo partito di un nuovo “spartito”. La civiltà occidentale è in crisi perché vittima di alcune derive e riduzionismi. Il pensiero liberale e socialista hanno approfondito due delle tre parole della Rivoluzione Francese (libertà ed eguaglianza) mentre la terza della fraternità, fondamentale per tenere assieme l’equilibrio, è finita in soffitta. E lo si vede chiaramente in una società nella quale l’intelligenza relazionale è merce sempre più rara. Dove sia nelle relazioni interpersonali che in quelle tra gli Stati scarseggia la capacità di creare fiducia, dono e cooperazione che moltiplica il valore sociale ed economico dei nostri sforzi e ci regala una vita ricca di senso.

 Eppure, le frontiere di diversi campi delle scienze sociali (dall’economia, alla psicologia, alla sociologia e al diritto) riconoscono come la riscoperta dell’identità relazionale è il contributo più fecondo che possiamo dare al progresso civile e al bene comune. E sorprendentemente, ma solo per alcuni, ci accorgiamo che senza metterci d’accordo abbiamo un’ispirazione e alcune parole chiave comuni come partecipazione, civismo, corpi intermedi, sussidiarietà, cittadinanza attiva. I nostri “leader” saranno sempre e solo questi valori, mai riducibili al nome e cognome del politico di turno di cui infatuarsi, rendere uomo della provvidenza e poi gettare nella polvere.

E un metodo, quello del dialogo e del discernimento che è il modo migliore di partecipare e si contrappone a quel parteggiare dove per esigenze di audience ci si chiede solo di schierarci, di esporre bandierine, di sfogare i nostri umori per attirare più attenzione.

 Per fare passi avanti dobbiamo partire dai punti di forza che quest’epoca storica ci consegna: le buone pratiche con le quali, terzo settore, imprese sociali, imprese profit responsabili contribuiscono a generare impatto sociale ed ambientale, la visione che ci accomuna attorno all’obiettivo del bene comune, lo sviluppo e l’organizzazione di molte reti del fare e la capacità consolidata di organizzare eventi significativi e di convocazione.

 Reti generative

Il passo ulteriore da fare è unire le reti dei generativi per una missione generale che ci accomuna e che va al di là di quelle particolari di ciascuno per fare massa critica e aumentare il numero di coloro che scelgono la via del partecipare invece che del parteggiare e dell’assistere da spettatori alla contesa tra i leader. Attorno ad uno spartito che è un bene pubblico e quindi non è proprietà di nessuno ma può essere suonato da tutti. Con l’ambizione che forze politiche vecchie e nuove ed opinione pubblica ne vengano attratte per farci fare passi avanti in direzione di felicità e generatività.

 Ad alcuni tutto questo potrebbe sembrare astratto ma non è così. Le buone pratiche sociali ed amministrative, le reti, gli eventi, gli spartiti già esistono, sono a disposizione e sono patrimonio condiviso. E sono le matrici di impegno politico personale e dell’elaborazione continua di idee e di proposte di azione politica dal basso e di legge e riforma politica dall’alto.

 L’unione dei generativi, il gioco di squadra delle reti al di là dei protagonismi personali e la costruzione di eventi significativi di progresso nell’impegno comune sono il passo prossimo futuro necessario per fare progressi verso l’obiettivo generale.

 

www.avvenire.it

 

venerdì 26 luglio 2024

PANI E PESCI

 


Domenica del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste, che sembra non finire mai.

Commento di p. Ermes Ronchi

E mentre lo distribuivano, non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano".

Quello del pane è l’unico segno riferito da tutti e quattro i Vangeli. Marco e Matteo ne riportano addirittura due redazioni. Si tratta, evidentemente, di un evento decisivo per capire la vita e il messaggio di Gesù.

 Con il segno del pane, più che davanti ad un eclatante miracolo siamo di fronte ad una fessura di mistero.

 Il racconto è pieno di simboli bellissimi: è ormai primavera; c’è molta erba che richiama i pascoli e il Salmo del buon pastore; c’è il monte grande simbolo della casa di Dio; è vicina la Pasqua; ci sono i numeri: cinque pani e due pesci che compongono il sette, simbolo della pienezza; c’è il pane d’orzo, pane di primizia perché l’orzo è il primo dei cereali che matura, primo pane nuovo; e c’è un ragazzo, neppure un uomo adulto, una primizia d’uomo.

 Un Vangelo pieno d’inizi e di gemme che fioriscono, per grazia.

 Modello del discepolo oggi è un ragazzo senza nome né volto, che dona ciò che ha, senza pensarci, e così innesca la spirale della condivisione, il miracolo del dono.

 Il problema del nostro mondo non è la penuria di pane, ma la povertà di quel lievito che incalza e spinge a condividere, a fare di ciò che hai un sacramento di comunione.

 “Al mondo, il cristiano non fornisce pane, fornisce lievito” (Miguel de Unamuno).

 “Credo sia più facile moltiplicare il pane che non distribuirlo. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti” (D. M. Turoldo).

 Prese i pani, ringraziò, diede.

 “Ricevimi, donami, donandomi mi otterrai di nuovo” (Rig Veda). L’uomo può solo ricevere, la vita, il creato, le persone che sono il suo pane. Può solo ringraziare, benedire, donare. E basteranno le briciole a riempire dodici ceste.

 Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo donato alla fame d’altri.

 Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò sul monte, lui da solo. Rifiuta di essere fatto re, ma non rifiuta l’acclamazione a profeta.

 La profezia gli si addice: lui è bocca di Dio e bocca dei poveri. Ma dal potere, da tutto ciò che circonda il nome di re, fugge lontano.

 La folla è religiosa solo in apparenza: cerca un Dio fornitore di pane a buon mercato, che plachi le fatiche, i pianti, le paure che popolano il cuore.

 Gesù non vuole regnare su nessuno, ma porre vita nelle nostre mani. La sua. E guidarci dalla fame di pane alla fame di Dio.

 Noi siamo fatti per la felicità, ma in questa furia di vivere che ci prende tutti, non ci preoccupiamo di moltiplicare dentro di noi le sorgenti che, sole, danno la felicità: saper accogliere, benedire, donare. 

 Cercoiltuovolto

CIVILTA' e BARBARIE

Le Olimpiadi, Israele,  la Russia: civiltà contro la barbarie?



 - di Giuseppe Savagnone*

Netanyahu negli Stati Uniti

C’è un collegamento, anche se non immediatamente evidente, tra la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahue la grandiosa apertura il 26 luglio, a Parigi, delle Olimpiadi 2024.

Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al concetto cruciale del discorso rivolto da Netanyahu, il 24 luglio, al Congresso degli Stati Uniti che, a Camere riunite, lo ascoltava, con frequenti applausi e standing ovation: «Quello che sta accadendo», ha detto, riferendosi alla guerra, «non è uno scontro di civiltà, ma tra barbarie e civiltà, tra coloro che glorificano la morte e coloro che glorificano la vita».

Civiltà (Israele) contro barbarie (Hamas). Dei palestinesi nessuna menzione. È del resto lo schema a cui si sono attenuti i governi e gli opinionisti occidentali, a cominciare da quelli italiani, anche se con un crescente imbarazzo.

Appena qualche giorno fa la premer Meloni, pur ribadendo «la forte preoccupazione per la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», «ha ribadito la vicinanza del Governo italiano ad Israele e la ferma condanna del terrorismo di Hamas».

Nessuna condanna, invece, anzi neppure una generica menzione, delle violenze dell’esercito israeliano nei confronti della popolazione di Gaza. Nel suo discorso al Congresso americano del resto il premier israeliano le aveva già ha liquidate come semplici invenzioni.

Peccato che invece tutte le fonti internazionali indipendenti confermino la diretta responsabilità di Israele nel determinare la crisi umanitaria, impedendo l’accesso di generi alimentari, acqua e medicine, così come quelle sulla strage di civili – 40.000 su due milioni e mezzo di abitanti (in Ucraina, dopo più di due anni, sono 10.000 su 40 milioni!), in maggioranza donne e bambini, senza contare i feriti e i mutilati -, causata dai bombardamenti indiscriminati di case, scuole, ospedali, moschee, da parte dell’aviazione di Tel Aviv, giorno e notte. Strage largamente prevedibile e inevitabile, perché queste bombe sono stante lanciate su un’area popolata da due milioni e mezzo di persone e grande poco più della metà della città di Madrid.

Vi ha fatto cenno la vicepresidente e candidata democratica alla presidenza Kamala Harris che, nell’incontro personale con il premier israeliano il giorno dopo, ribadendo l’impegno «incrollabile» degli Stati Uniti nei confronti di Israele e della sua sicurezza, ha sottolineato che Israele ha «il diritto di difendersi, ma come si difende è importante», facendo presente che «quanto accaduto a Gaza negli ultimi nove mesi è devastante» e concludendo: «Non possiamo girarci di fronte a queste tragedie. Non possiamo permetterci di diventare insensibili alla sofferenza. Io non starò in silenzio».

La reazione di Tel Aviv è stata espressa da un funzionario israeliano, citato dai media, secondo cui «le dichiarazioni della vice presidente Kamala Harris sulla “grave crisi umanitaria” a Gaza e la necessità di “porre fine alla guerra” danneggiano le trattative per il rilascio degli ostaggi e sono “da respingere entrambe”».

«Il danno ai civili palestinesi è davvero il problema in questo momento?» ha osservato il funzionario di Tel Aviv. Poi, sempre citato dai media, ha aggiunto: «Cosa dovrebbe pensare Hamas quando sente questo?».

Sulla stessa linea il commento del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, esponente dell’estrema destra, su X: «Kamala Harris ha rivelato al mondo intero quello che ho detto per settimane, cosa c’è veramente dietro l’accordo, arrendersi a Sinwar, porre fine alla guerra in un modo che permetterebbe ad Hamas di riabilitarsi e abbandonare la maggior parte degli ostaggi prigionieri. Non cadete in questa trappola».

«Non ci sarà nessuna tregua, signora candidata», ha scritto, sempre su X, il ministro israeliano Itamar Ben-Gvir, anche lui di estrema destra, rispondendo alle parole della vicepresidente americana.

Le prese di posizione di due tribunali internazionali

La tesi del governo israeliano, però, non è condivisa non solo dal suo maggiore alleato, gli Stati Uniti, ma anche dai due massimi organismi giuridizionali a livello mondiale. Già il 26 gennaio scorso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) aveva riconosciuto l’esistenza di un reale e imminente rischio di genocidio nei confronti dei palestinesi, attirandosi l’accusa del ministro Ben-Gvir di essere un «tribunale antisemita».

E lo scorso 20 maggio Karim Khan, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (ICC) – il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità (da non confondere con la Corte Internazionale di Giustizia, che è un organismo dell’ONU e si occupa di dirimere le controversie tra gli Stati membri)  – , ha chiesto alla Corte di emettere un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, oltre che per il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Sinwar, per il capo politico di Hamas, Haniyeh, e per il capo delle brigate al Qassam, l’ala armata di Hamas nella Striscia Deif.

Le accuse contro Netanyahu e Gallant includono «l’aver provocato lo sterminio, l’aver usato la fame come metodo di guerra, compreso il rifiuto delle forniture di aiuti umanitari e l’aver deliberatamente preso di mira i civili durante un conflitto»

Ora un collegio di giudici dell’ICC dovrà decidere se approvare la sua richiesta o meno. Ma è significativo che la Gran Bretagna abbia comunicato in questi giorni di voler ritirare le obiezioni che aveva presentato alla Corte contro la richiesta dei mandati di arresto nei confronti dei due esponenti del governo israeliano.

A completare questo quadro è la notizia che il 19 luglio la Corte Internazionale di Giustizia, chiudendo un procedimento che non diretto rapporto con la guerra di Gaza né con Hamas – perché riguarda la Cisgiordania, il cui governo dipende dall’autorità Nazionale Palestinese (in conflitto con Hamas) – ha deliberato che le colonie israeliane nei Territori palestinesi e l’utilizzo delle risorse naturali che Israele fa in quelle zone vìolano il diritto internazionale.

Secondo i 15 giudici della Corte, «il trasferimento di coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme da parte di Israele, e il mantenimento della loro presenza da parte di Israele, sono contrari all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra», che insieme alle altre tre convenzioni forma la base del diritto internazionale umanitario.

La risposta di Netanyahu è stata molto significativa, perché non ha negato i fatti, ma ne ha dato una lettura che li giustifica: «Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, né nella nostra capitale eterna Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria». Ha poi aggiunto che «nessuna falsa decisione all’Aia distorcerà questa verità storica, così come non può essere contestata la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria». Insomma, la Palestina è nostra.

In coerenza, del resto,  con la risoluzione approvata dalla Knesset  – il parlamento israeliano –  contro la nascita di uno Stato palestinese autonomo e dunque in aperta opposizione alla soluzione dei due Stati caldeggiata dagli Stati Uniti e dai paesi europei.

Insomma, siamo davanti a un progetto, consapevolmente e deliberatamente perseguito, ora espressamente dichiarato, che prevede l’integrale occupazione della Palestina da parte di Israele, con  la cacciata o la sottomissione dei suoi precedenti abitanti palestinesi.

Una sistematica “pulizia etnica” iniziata, secondo le incontestabili ricerche dello storico (ebreo israeliano!) Pappè, già alle origini dello Stato ebraico, prima sotto la guida di Ben Gurion come capo dell’Haganà, poi dai suoi successori, fino ad oggi.

Le Olimpiadi vetrina di civiltà

«La civiltà contro la barbarie», ha spiegato Netanyahu. E queste Olimpiadi, malgrado le riserve degli stessi governi occidentali, rispecchiano questo schema. Alla grande manifestazione sportiva  sono state ammessi solo  gli atleti delle nazioni “civili”, tra cui quelli israeliani. Sono stati lasciati fuori solo i “barbari.” E non solo, come è ovvio, Hamas. Nel traboccante calderone mediatico di  notizie sulle Olimpiadi non ha quasi trovato posto la decisione del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) che ha  escluso dalla partecipazione  la Russia.

Una scelta tutt’altro che irrilevante, dal punto di vista sportivo, se è vero che un noto giornale del settore la commentava così: «Una cosa è certa: Parigi vedrà un’Olimpiade mutilata e il medagliere finale sarà viziato dall’assenza di centinaia di atleti della Russia, una potenza sportiva di primissimo piano, che svetta da sempre insieme a Usa e Cina. Sarà una ferita profonda» («Gazzetta dello Sport» del 20 marzo 2024).

La ragione dell’esclusione è la stessa che, dopo il 24 febbraio 2022, ha visto la stessa misura applicata a tutti gli atleti russi – in una prima fase perfino a quelli che chiedevano di gareggiare a titolo personale – da tutte le manifestazioni sportive internazionali. La si può trovare chiaramente espressa nelle parole con cui il presidente degli Stati Uniti esprimeva l’intenzione di dimostrare «quanto la guerra di Putin abbia fatto della Russia un paria (…). Noi continueremo a lavorare con le nazioni per far rispondere la Russia delle atrocità commesse, e (…) isolare la Russia dal palcoscenico internazionale».

Si può discutere se lo sport debba essere il campo in cui esercitare queste pressioni politiche. Ma se, alla fine, si decide di escludere chi viola le leggi internazionali, come mai Israele è stato ammesso, in presenza di pronunzie ufficiali che denunziano le gravissime illegalità e disumanità di cui è responsabile e – forse ancora di più – di fronte alla sua dichiarata intenzione di perseverare in esse, infischiandosene dei giudizi di organismi e tribunali internazionali?

L’abusata formula secondo cui non si possono mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito – a ogni pie’ sospinto ripetuta dal governo di Tel Aviv e purtroppo anche da molti responsabili delle comunità ebraiche in tutto il mondo – assolutizza il problema dell’inizio di una guerra, nascondendo quello del modo di combatterla, anch’esso soggetto alle leggi internazionali e su cui si appuntano il sospetto di genocidio e l’accusa di crimini di guerra nei confronti dello Stato ebraico

Di più: alla luce dell’ultima sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (CIG), nella guerra in Medio Oriente il vero aggressore, all’inizio di tutto, è stato Israele, procedendo all’invasione illegale dei territori palestinesi. L’evento del 7 ottobre, che resta atroce e assolutamente ingiustificato, non può essere assunto come il principio di tutto (lo già aveva detto, all’indomani della tragedia, il segretario generale dell’ONU, Guterres, pur deprecando la strage compiuta da Hamas), ma si inserisce in una storia – documentata accuratamente da Pappè –  in cui gli aggrediti sono stati i palestinesi.

«La civiltà contro la barbarie», ha proclamato Netanyahu al Congresso americano. Le Olimpiadi traducono fedelmente questa formula, legittimando la collocazione di Israele nel primo polo. E tutti – almeno i governi e la stampa – faranno finta di nulla. Ma non si potrà cancellare la domanda: è davvero questa la civiltà?

 www.tuttavia.eu

 *Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo