Educare.
Che errore
l'overparenting,
il genitore elicottero che controlla tutto
- di Luciano Moia
Siete genitori
“interventisti”? Pretendete di pilotare in ogni istante la vita dei vostri
figli? Non rinunciate a verificare con la massima cura possibile
frequentazioni, amicizie, contatti abituali e occasionali? Talvolta però, dopo
aver esercitato questa occhiuta vigilanza “a fin di bene”, vi interrogate
sull’opportunità di continuare in questo controllo sistematico e asfissiante?
Ai genitori che si pongono questi interrogativi, diciamo subito che i dubbi
sono più legittimi e che sarebbe necessario resettare le abitudini.
Negli Stati Uniti gli
psicologi hanno definito questa prassi di vicinanza un po’ asfissiante,
overparenting. Una genitorialità sovrabbondante in senso negativo, quasi
tossica perché pretende, per esempio, di incolpare sempre e comunque gli altri
bambini se il figlio, mentre gioca al parco, cade e si sbuccia il ginocchio.
Oppure di puntare il dito contro l’insegnante, facendo magari la voce grossa o
anche peggio, se arriva un brutto voto ma anche se il malcapitato docente si
permette di rimproverare il pargolo. Una delle espressioni più deteriore di
oveparenting consiste nel controllare i figli minori in tutti i loro
spostamenti, geolocalizzarli mentre escono da scuola, vanno in palestra, si
fermano a parlare con gli amici, avviene sempre più spesso con il loro
consenso.
I genitori, convinti di
aver trovato con questa “sorveglianza informata e condivisa” una modalità per
tacitare la loro coscienza, sostengono che anche i ragazzi vivono meglio.
Sanno, questi malcapitati figli, che un “genitore elicottero” veglia in qualsiasi
momento su di loro e – sempre secondo l’opinione di questi madri e padri – si
sentono più tranquilli. “Quando ha la tentazione di “deviare” si ferma in tempo
perché – mi raccontava qualche giorno fa un amico che sul suo iPhone segue
passo dopo passo i movimenti del figlio 14enne – sa che verrò a sapere
qualsiasi cosa in tempo reale. Una sicurezza per noi e una garanzia per lui.
Prima, ogni volta che usciva, si scatenava l’ansia. Cosa farà? Chi avrà
incontrato? Avrà bisogno di aiuto? Ora non abbiamo più motivi di essere
preoccupati”.
Ma è davvero così? Basta
il controllo elettronico per assicurare davvero a un ragazzo una crescita più
serena? O non sarà vero il contrario? E cioè che questo persistente
affiancamento da remoto finisce per produrre tutta una serie di effetti
negativi tali da azzerare la presunta tranquillità indotta dall’occhio
elettronico.
Due domande, tra le tante
che potremmo porci: quale senso di responsabilità riuscirà a sviluppare un
ragazzo consapevole – e apparentemente d’accordo – del fatto di essere
controllato in ogni suo spostamento? Non rischierà di subire una preoccupante
stagnazione per quanto riguarda lo sviluppo dell’autonomia? E, allo stesso
modo, non risulteranno paralizzate tutte le dinamiche relative alla conquista
dell’autonomia che si fondano in modo prevalente proprio sulla possibilità di
verificare, tentare, sperimentare? Anche sbagliare, naturalmente, come momento
normale e prevedibile di un percorso di crescita che va certamente promosso e
accompagnato, ma non video-controllato né teleguidato passo dopo passo.
Bisognerebbe anche
riflettere sull’autenticità del consenso espresso dai figli. Quali sono gli
adolescenti davvero contenti di essere controllati elettronicamente dai
genitori? Può essere che in alcuni casi, di fronte ad atteggiamenti tanto
ansiosi di mamme e papà da sfiorare la patologia, i ragazzi accettino la “spia
digitale” per non causare ulteriori motivi di stress e di conflittualità
familiare. Ma può anche darsi che, mentre noi ci affanniamo a trovare nuove
modalità di controllo elettronico, loro abbiano già capito il sistema per
aggirare il “nemico digitale”, illudendoci di poter dormire sonni mentre loro
si godono a nostra insaputa la riconquistata e legittima libertà.
Ma è chiaro che questi
sistemi di controllo elettronico, facilmente utilizzabili e forse facilmente
aggirabili, se possono essere utili in qualche circostanza estrema – un
concerto ad alto rischio di sballo e di droga – non sono da considerare
strumenti ordinari di accompagnamento educativo. Pensiamo a tutto l’ambito
scolastico, al mondo delle relazioni, alla pratica sportiva. Che senso avrebbe
verificare momento dopo momento la vita e gli incontri di un figlio o di una
figlia se non quello di azzerarne la spontaneità, spegnare il loro sano e
giusto vitalismo adolescenziale, convincerli di non essere in grado di far un
passo da soli senza l’occhiuta vigilanza elettronica dei genitori.
Attrezzare un ragazzo o
una ragazza alla vita significa, al contrario, mostrare con i fatti che ci
fidiamo di loro, che siamo convinti – anche se quasi sempre non è così – del
loro equilibrio, della loro capacità di giudizio, della possibilità di fare bene
da soli. Qualche volta ce la faranno a stare in piedi, qualche volta cadranno,
in alcune occasioni torneranno con le ginocchia e il cuore escoriati. Ma la
sfida dell’educazione è proprio questa. Coltivare con tutto l’impegno e la
passione possibile un albero capace di germogliare. E poi attendere con
pazienza e fiducia i frutti. Standosene, per quanto possibile, un po’ in
disparte.
Chi pretende di esserci
sempre, di intervenire, di stabilire modi e tempi della maturazione ottiene
solo l’effetto contrario. I frutti si guasteranno prima del tempo e non si
otterrà altro che una immaturità perenne e irreversibile. Non credo che qualche
genitore desideri questo per i propri figli.
E allora? Mettiamo da
parte l’overparenting e accettiamo il rischio di vederli crescere anche senza
sapere in diretta ogni particolare della loro vita, di scoprire ogni sillaba
delle loro conversazioni, di anticipare ogni loro possibile sbaglio. La bontà
di un approccio educativo non si misura dal tanto percepito grazie alla
geolocalizzazione, ma dal poco che loro ci verranno spontaneamente a raccontare
perché si fidano di noi.
www.avvenire.it
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