- di Giuseppe Savagnone*
I
problemi del PD
Le
elezioni di domenica scorsa dovevano dare delle risposte e invece hanno aperto
delle nuove domande. Quella che rimbalza più di frequente in questi giorni
sulla stampa riguarda l’identità del PD, che esce da questo voto sconfitto e
confuso. Sui risultati deludenti hanno pesato certamente degli errori a livello
tattico, ascrivibili alla incapacità, da parte di Enrico Letta, di gestire
saggiamente i rapporti con gli altri partiti della sinistra – primo fra tutti i
5stelle – , dando luogo così a un suicidio elettorale largamente annunciato.
Tutti
però si stanno rendendo conto che c’è, a monte, un problema di ordine
strategico, che non si può risolvere con le dimissioni del segretario e che non
riguarda le occasionali alleanze elettorali, ma l’identità stessa del partito.
Sta
di fatto che da tempo, ormai, il soggetto politico che sulla carta avrebbe
dovuto essere il portavoce delle fasce più deboli e svantaggiate della
popolazione, lo strenuo sostenitore della lotta contro tutti i privilegi e le
ingiustizie sociali, sembra avere ripiegato su altre battaglie. Battaglie come
quella relativa alla questione del gender e del fine vita, che appassionano i
salotti borghesi, ma non interessano affatto i 5 milioni e mezzo di persone che
versano in una condizione di povertà assoluta e lasciano abbastanza
indifferenti anche quelle ampie fasce di lavoratori che vedono sempre più
minacciato il loro tenore di vita dal rincaro delle bollette e dalla crescente
inflazione.
Per
questo, contrariamente alle miopi previsioni del gruppo dirigente dem, che
credeva di poter assorbire il voto dei 5stelle, Conte ha potuto operare in
extremis una forte rimonta proprio puntando sul disagio sociale ed economico di
larghe frange e della popolazione, soprattutto del sud, che vedono nel reddito
di cittadinanza un salvagente, discutibile quanto si vuole, ma concreto, che
permette alle famiglie di arrivare alla fine del mese. Da qui la netta
percezione che la vera sinistra non sia più rappresentata dal PD.
Possibili
prospettive
C’è
chi trae da questa situazione una indicazione positiva per il futuro del
partito e vede in un suo spostamento verso il centro – attualmente occupato da
Calenda e Renzi – una prospettiva da prendere in serio esame. Ciò naturalmente
comporterebbe una rottura dell’alleanza con «Sinistra italiana» di Fratoianni,
che sinora ha rappresentato la copertura a sinistra della politica dei dem.
Al
tempo stesso, però, c’è un’anima del partito democratico che continua a
coltivare, astrattamente, la nostalgia di un ritorno alle lotte sociali e che
spera – magari riprendendo il dialogo con i 5stelle – di riportare il PD a
sottolineare almeno alcuni aspetti della sua originaria anima socialista e di
rappresentare adeguatamente una versione non populista della sinistra.
Una
soluzione che dovrebbe però comportare una vera e propria rifondazione del
partito, con un profondo rinnovamento del suo stile pratico, riportando i suoi
dirigenti di nuovo a quel contatto diretto con la gente, nelle piazze e nelle
fabbriche, che in questa campagna elettorale è stato piuttosto caratteristico
di Conte e dei leader della destra.
Però
la vera rifondazione del partito democratico dovrebbe riguardare, ancora più a
monte, la sua identità culturale. Era nato come alleanza tra socialisti e
cattolici progressisti, ma in questi anni si è sempre più ritrovato, in
sostanza, ad essere il continuatore del partito radicale (significativa
l’alleanza con la Bonino) nel sostenere innanzitutto le battaglie per i diritti
civili individuali, lasciando decisamente in secondo piano quelle per i diritti
sociali.
Una
linea che non è né socialista (Marx, a proposito dell’enfasi su questi diritti,
parlava di «robinsonate», in riferimento al celebre personaggio di Defoe, che
si costruisce da solo la sua vita in un’isola deserta), né cattolica
(l’insegnamento sociale della Chiesa collega inscindibilmente i diritti delle
persone alle loro responsabilità verso gli altri e verso il bene comune). Siamo
nella logica del liberalismo neocapitalistico, a cui peraltro si ispira oggi
l’Unione Europea.
È
il primato del single, che in realtà non riguarda solo l’aborto e il matrimonio
omosessuale, ma tutti i rapporti sociali ed economici, escludendo che essi
debbano esser regolati in funzione di una dimensione etica comunitaria che
supera gli interessi degli individui. Su questa linea di fatto si muove il PD.
Ma
a questo punto bisogna dire chiaro che si fa questa scelta, smettendola di
definirsi “di sinistra”, e puntare sul centro neo-liberale, in cui sarebbe
possibile unirsi non solo con Calenda e Renzi, ma forse anche con Forza Italia,
che della inviolabilità dei diritti individuali è sempre stata accanita
sostenitrice (specialmente in materia di tasse). Rinunziando una buona volta a
parlare di giustizia sociale e di uguaglianza, parole che mettono paura alla
borghesia benestante e la spingono verso la destra. Non avere il coraggio di
fare questo passo significa restare in un limbo che, a livello elettorale,
diventa isolamento.
Oppure
si potrebbe ipotizzare una presa di coscienza che porti riscoprire il carattere
anticamente rivoluzionario (in senso culturale) del partito e di ciò che si
intende per “sinistra”, riportando l’asse ideologico sulla linea di battaglie a
favore non solo dei migranti – l’unico residuo, nel programma del PD, della
scelta per i più poveri – , ma di tutti gli sfruttati e gli emarginati della
nostra società, magari non nella prospettiva assistenziale del reddito di
cittadinanza, ma in quello di una seria redistribuzione della ricchezza e della
creazione di posti di lavoro.
Ci
sono le condizioni, nel nostro Paese, per il successo di una simile svolta? Si
potrebbe sperare che, con essa, il malessere sociale, espresso nel diffuso
clima di populismo e dominante in queste elezioni come nelle precedenti, possa
essere convogliato su obiettivi più adeguati da una vera sinistra? Difficile
dirlo. In ogni caso, è una scommessa che deve fare, se lo vuole, il gruppo
dirigente del PD.
Le
incognite nel fronte dei vincitori
Alle
incognite insite nella crisi degli sconfitti di queste elezioni fanno riscontro
quelle presenti nel fronte dei vincitori. L’indiscusso successo di Fratelli
d’Italia e di Giorgia Meloni non deve illudere. Già nel 2018 c’erano stati
nuovi partiti emergenti vincitori e vecchi partiti vinti, anzi in misura ancora
più eclatante: i 5stelle avevano avuto, a sorpresa, il 32%, a fronte di cui il
26% dei Fratelli appare tutto sommato un risultato molto buono, ma non certo
eclatante.
E
dopo le elezioni del 2018, l’alleanza tra Di Maio e Salvini, salutato
trionfalmente dal primo come una svolta storica, garantiva ai loro partiti
sulla carta una maggioranza parlamentare schiacciante, che sembrava destinata a
durare senza problemi fino al 2023. Sappiamo tutti com’è andata.
Il
problema che allora si presentò fu la necessità del nuovo partito emergente, i
5stelle, di governare con uno, la Lega, che era espressione di un passato che
si voleva superare, di cui, come alleato di Berlusconi, era stato largamente
artefice. Ora si ricreata la stessa situazione. Per un meccanismo elettorale
assurdo e per le divisioni, alle urne, tra i suoi avversari di sinistra, la
Lega, malgrado la batosta elettorale, conserva in Parlamento un peso
sproporzionato al consenso ricevuto.
Con
soli 2,4 milioni di voti, il partito di Matteo Salvini porta 29 persone al Senato
e 67 alla Camera, una cifra impressionante se paragonata alle preferenze
ottenute (si pensi che nonostante oltre 5,3 milioni di preferenze, il PD entra
con soli 40 rappresentanti al Senato e con 69 alla Camera e che con 4,3 milioni
di preferenze il partito guidato da Giuseppe Conte avrà 28 seggi al Senato e 52
alla Camera). A confronto anche Fratelli d’Italia risulta penalizzato: con il
triplo di voti della lega – 7,3 milioni – , ha solo il doppio dei
rappresentanti – 66 senatori e 119 deputati. Scherzi della democrazia, quando è
gestita male…
È
vero che Giorgia Meloni può contare sugli altri due alleati della coalizione di
destra, Forza Italia, (che con solo 2,2 milioni di voti, è riuscito a portare
18 persone al Senato e 44 persone alla Camera) e Noi Moderati (che con 255 mila
voti porta 1 persona al Senato e 7 alla Camera.). Ma, tenendo conto che il
Senato è composto da 200 membri e la Camera da 400, i rappresentanti della Lega
sono fondamentali per dare al governo di destra la maggioranza assoluta.
Su
questo sfondo si gioca il confronto tra le posizioni, in realtà abbastanza
diverse, della Meloni e di Salvini, nella formazione del prossimo governo. A
cominciare dal ruolo che quest’ultimo rivendica come ministro degli Interni e
che la leader di Fratelli d’Italia sembra molto restia a conferirgli. Al di là
di questo contrasto particolare, il problema è quello della coesistenza di due
forti personalità.
Sappiamo
tutti che il leader della Lega tende irresistibilmente a tracimare rispetto al
suo ruolo istituzionale. Con Conte lo ha potuto fare in modo incontrastato,
assumendo di fatto le redini del governo. Giorgia Meloni non sembra disposta ad
avere questo ruolo passivo, anzi pressa per una riforma della Costituzione che,
introducendo il regime presidenziale, le consentirebbe di essere eletta con
pieni poteri o quasi (quelli che voleva Salvini quando fece cadere il governo
Conte).
Ci sono in gioco due prospettive molto diverse. Per Salvini è importante l’autonomia regionale (del Nord) e vuole che al primo punto dell’ordine del giorno ci sia questa riforma. Giorgia Meloni viene da una formazione che privilegia il ruolo dello Stato unitario. Salvini vuole la flat tax senza riserve, la Meloni solo per la parte di reddito eccedente rispetto a quanto dichiarato l’anno prima.
Salvini
ha un passato di amicizia con Putin che lo rende inaffidabile agli occhi della
Nato, ed è portato – lo sappiamo già dalla sua precedente esperienza e ne
abbiamo oggi la conferma – allo scontro aperto con l’Europa, la Meloni, pur
essendo vicina a Orban, ha assunto un atteggiamento molto più cauto e
diplomatico su entrambi i fronti .
Dicevo
che queste elezioni hanno creato più interrogativi sul futuro che risposte. In
questo momento delicatissimo dal punto di vista economico e sociale – per il
nostro Pese e per tutta l’Europa – è urgente che, almeno alcune, vengano date.
Nella speranza che chi ha il compito di farlo guardi veramente al bene comune
piuttosto che a unilaterali giochi di potere.
* Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista
.
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