prevarrà l'utopia o la persona?
- di Leonardo
Servadio
L’idea di un
abitato che ruota attorno alla 'macchina' ha lasciato il campo a visioni
ispirate al Rinascimento con l’aggiunta del 'giardino' ottocentesco. Quanto
pesa la tensione all’equità
La tensione tra equilibrio e sostenibilità
nei nuovi grandi progetti urbanistici È un po’ come un ibrido tra la Grande
muraglia cinese e il monolito di 2001 Odissea nello Spazio. Un artefatto
lineare lungo 170 chilometri con le pareti esterne a specchio che riflettono la
sabbia del deserto: è The Line, il progetto per una “città ideale” elaborato
per l’Arabia Saudita dallo studio di architettura Morphosis. Sarebbe alta 500
metri: tra i maggiori grattacieli al mondo, ma questa dimensione scomparirebbe
rispetto alla straordinaria lunghezza, e sarebbe larga 200 metri e ospiterebbe
ben nove milioni di persone. Le pareti esterne a specchio isolerebbero la
lunghissima città-monolito dai raggi solari dardeggianti tra le dune e da
lontano farebbero apparire la sua presenza come quella di un miraggio. Sarebbe
composta da due edifici paralleli tra i quali, ombreggiato dalle alte pareti
laterali, correrebbe un giardino rutilante di vegetazione. Grazie a velocissimi
treni capaci di percorrere tutta la lunghezza in venti minuti per l’assenza di
curve, che sarebbe possibile vivere a un’estremità – poniamo quella che
s’inoltra sul mare – e lavorare all’alta estremità.
Si è parlato
molto di questo progetto quando è stato rivelato nel gennaio 2021 e ancora di
più quando i suoi disegni di massima hanno cominciato a circolare quest’estate.
Il lungo profilo argenteo che si posa sul deserto appare come qualcosa di
assurdo, pretenzioso, astratto. Ma l’idea di città lineare non è nuova, è anzi
conseguente all’inizio della civiltà dei trasporti motorizzati: Arturo Soria la
propose per la Madrid della fine dell’800. Convinto che il modello tradizionale
urbano fondato su espansioni concentriche rendesse difficili i trasporti, pensò
che uno stradone assiale carrabile dotato anche di ferrovia avrebbe facilitato
i trasferimenti e propose di disporre abitazioni e luoghi di lavoro ai lati di
quello. Cominciò anche a costruirla, ma lo sviluppo della Ciudad Line al si
arrestò per problemi amministrativi e economici, così che questa oggi resta come
uno dei quartieri periferici della capitale spagnola, inglobato nell’espansione
concentrica del tessuto urbano. Anche Le Corbusier formulò una proposta di
città lineare per Algeri, ma non poté realizzarla. Oggi il progetto saudita si
presenta come la punta estrema della visione della città intesa come gigantesca
macchina, in cui i due termini – gigantismo e macchinosità tecnologica –
divengono inscindibili espressioni della ricchezza e del potere sulla natura e
su chi resta emarginato dai luoghi del privilegio.
Già Antonio
Sant’Elia, in perfetto stile futurista, aveva elaborato il concetto di
città-macchina nel suo manifesto del 1914. Quanto l’età delle macchine abbia
sconvolto il modo di avvicinarsi all’urbanistica è dimostrato in modo evidente
da Brasilia, che dal 1960 ha sostituito Rio de Janeiro quale capitale dello
stato latinoamericano: malgrado l’eleganza delle architetture firmate da Oscar
Niemeyer e la grandiosità del disegno urbano elaborato da Lucio Costa – come
una vasta ansa che segue l’andamento del lago Paranoá – si sviluppa su
un’ossatura di autostrade a più corsie che fanno dell’automobile l’elemento
privilegiato, in spazi nei quali il pedone si sente emarginato e schiacciato:
del resto è stata concepita in quegli anni Cinquanta in cui Detroit era la
Mecca dell’industria e l’automobile era il fattore principe dell’economia.
Questo tipo di
visione urbana si contrappone alle città ideali di epoca rinascimentale, tutte
a “misura d’uomo” quali Palmanova, col suo disegno di perfetta geometria incentrato
sull’esagonale Piazza Grande dalla quale per gemmazione origina tutto il
tessuto urbano; o Terra del Sole raccolta attorno alla Piazza d’Armi nella
quale si confrontano il palazzo del Pretorio, sede del potere civile, e la
chiesa di Santa Reparata, espressione del potere religioso; o Sabbioneta,
disposta con geometrica regolarità entro l’abbraccio della muraglia. In tante
città italiane sviluppatesi in quel periodo si riconosce il tentativo di
trovare una forma geometrica che privilegi il centro quale nucleo originario,
sede dell’autorità che regge l’abitato e spazio in cui la cittadinanza si
poteva riunire tutta assieme: attorno a questo l’abitato si estendeva come se
fosse un organismo vivente.
Oggi si nota
che, per quanto persistano qua e là visioni da città-macchina, non sono
necessariamente queste che informeranno gli abitati del futuro. Si trovano anzi
visioni più vicine a quelle rinascimentali, con la novità dell’ansia del
ritorno alla natura pur nel tempo della tecnologia. Di qui che tanti progetti
di nuovi nuclei si focalizzino sul desiderio di inglobare alberi e prati tra
gli edifici e sopra di essi, sulle orme dell’idea ottocentesca di
città-giardino. Tra i tanti progetti di nuove città, ecco Amaravati, elaborata
da Foster + Partners, che sarà la nuova capitale dello stato indiano di Andhra
Pradesh, sul fiume Krishna: 13 piazze, rappresentanti i 13 distretti dello
stato, si allineeranno una di seguito all’altra, accompagnate da sinuosi canali
e percorsi ciclopedonali alberati, per culminare nella piazza centrale dominata
da un’alta antenna che segnerà la sede del governo statale.
E in Canada lo
studio Partisans progetta di trasformare il villaggio agricolo di Innisfil, non
lontano da Toronto, in una città modello di impianto radiocentrico chiamata The
Orbit, in cui coltivazioni e abitazioni convivano nei medesimi spazi. In
Messico, Stefano Boeri è stato incaricato di sviluppare vicino a Cancun una
Smart Forest City dotata di 7,5 milioni di piante, specchi d’acqua e boschi.
Presso Chengdu in Cina lo studio Oma ha disegnato un insediamento di 4,6
chilometri quadrati suddiviso in sei quartieri intesi a essere totalmente
liberi da automobili. E per le Maldive, in zone che si ritiene possano finire
sommerse dalle acque tra qualche decennio, lo studio Waterpractice ha ideato la
prima “cittàisola galleggiante”, articolata in 5.000 abitazioni flottanti tra
loro raccordate. G li organismi delle città ideali rinascimentali erano murati,
fortilizi atti a difendersi da pericoli esterni; le città ideali novecentesche
erano innervate di motori e esse stesse intese come grandi macchine.
Tra i progetti
attuali solo The Line si distingue per l’eccezionale artificiosità, tale per
cui molti dubitano che mai potrà essere veramente realizzata sebbene il suo
committente, il principe Mohammed bin Salman, non manchi del potere economico
necessario e sebbene sulle coste del Golfo Arabico siano già sorte tante città
lussuose irte di grattacieli. Gli altri progetti urbanistici attuali hanno
tutti un’impostazione nettamente favorevole alla ricerca di un nuovo equilibrio
tra costruito e natura, e qua e là si ravvisa anche il desiderio di ottenere
edifici accoglienti non solo per le classi agiate. Lo studio danese di Bjarke
Ingels (Big) ha ben tre nuovi insediamenti urbani in progetto e tra loro si
segnala Telosa, intesa per sorgere in una zona desertica presso la costa
occidentale degli Usa: sarà incentrata su un’alta torre chiamata Equitism. Il
fondatore, il miliardario Marc Lore, intende acquistare un terreno di 60mila ettari
e farne dono alla città in cui si aspetta che possano vivere circa 5 milioni di
persone. La sua idea è che la comunità potrà ricavare utili a sufficienza per
sostenere la qualità della vita anche delle fasce più deboli della popolazione:
di qui il nome della torre inteso come un manifesto di equità.
C’è in questo
qualcosa che riecheggia i temi cari all’utopismo ottocentesco di un Owen o di
un Fourier. Una reazione alle città ipercapitalistiche dei grattacieli sempre
più alti e costosi: l’auspicio è che oggi tali tematiche siano contemperate da
equilibrio, oltre che dalla ricerca di equità, quale quello espresso dalla
dottrina sociale della Chiesa, che a inizio Ottocento ancora non era stata
esplicitata in un corpus sistematico, com’è avvenuto dalla Rerum novarum in
poi. Perché i progetti urbani sono sempre anche progetti sociali ed economici,
e non solo disegni più o meno originali di carattere architettonico.
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