“Giovani fragili spinti nel branco da adulti iper protettivi o assenti”
Quello delle
baby gang composte da minorenni stranieri o italiani è un preoccupante fenomeno
in crescita. Un disagio e una violenza frutto di molte fragilità
Un fenomeno
crescente quello delle “baby gang”, gruppi di minorenni autori di gesti
criminali e di violenza, e anche di vere e proprie guerre tra bande. Tra i casi
più recenti quello che ha portato all’arresto di quattro ragazzi di origine
egiziana, all’epoca dei fatti minorenni, che assaltavano automobili dove si
trovavano prostitute con i loro clienti, sfasciavano le macchine e picchiavano
gli adulti, dando come unica motivazione “odiamo gli italiani”.
-Paolo Vites
Secondo don
Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano Beccaria e fondatore
della comunità di accoglienza Kayròs, “il fenomeno coinvolge anche ragazzi
italiani, spesso di buona famiglia, con genitori molto protettivi che
permettono loro tutto e di conseguenza cresciuti con fragilità evidenti e
incapacità ad affrontare la realtà e le fatiche quotidiane”.
Come cappellano
di un carcere minorile ha sicuramente avuto a che fare con membri di queste
baby gang, che si dice siano in gran parte composte da ragazzi stranieri di
seconda o terza generazione. E’ così?
Proprio in
questi giorni è uscita una indagine su questo fenomeno condotta dall’Università
Cattolica insieme al Dipartimento giustizia minorile. I dati parlano di un
fenomeno trasversale che riguarda ragazzi di seconda e terza generazione, ma
anche ragazzi italiani. Al Beccaria e nella mia comunità ne ho incontrati
parecchi.
Cosa c’è
alla base di questi loro comportamenti?
Il disagio,
anche se motivato da logiche diverse, ha come tratto comune la fragilità e
soprattutto la sfiducia verso il mondo adulto e verso le istituzioni.
Chiaramente le motivazioni sono diverse a seconda dei singoli casi. C’è chi
lamenta un vuoto e una assenza totale dello Stato nei loro quartieri e nelle
loro case popolari. Si costituiscono come una società tra pari, dove l’adulto è
annullato perché di fatto non c’è mai stato. Si fanno giustizia da sé, fanno
tutto in autarchia. Ci sono poi i minori stranieri non accompagnati che hanno
una forte esposizione al crimine, ragazzi che non trovano collocazione nelle
poche comunità, perché non ci sono abbastanza posti per accoglierli. Solo a
Milano ne abbiamo mille che vivono per le strade e sono più esposti a
commettere crimini per soldi. Infine ci sono gli italiani che emulano i
comportamenti dai social e cercano di farsi rispettare in una logica tribale.
Molti dei
ragazzi italiani sono anche di buona famiglia, vero? Si può dire che con questi
legami cercano di far fronte a una sorta di noia esistenziale?
Sono ragazzi
che spesso sono eccessivamente protetti dalle famiglie. Questa cura eccessiva
porta a ragazzi insicuri e fragili, che davanti alle difficoltà non hanno la
capacità di affrontare i fallimenti o le fatiche. Sono abituati a ottenere
tutto dai genitori e di fronte a un brutto voto scolastico soccombono e
precipitano in queste condotte che sono deresponsabilizzanti: si va dietro al
branco per coprire la propria inconsistenza.
Branchi dove
per entrarne a far parte si deve dimostrare di essere un duro?
Sì. C’è un
aspetto purtroppo non tenuto in debito conto, il consumo di sostanze
stupefacenti e di alcol. Stiamo assistendo a un ritorno molto pericoloso al
consumo di alcol. Molti crimini adolescenziali sono legati al consumo di droghe
euforizzanti come la cocaina e questo è un problema che bisogna affrontare.
Come ci si
può approcciare nel modo giusto a questi ragazzi che hanno deciso di
auto-escludersi dal mondo?
Bisogna andare
dove sono, avere il coraggio di entrare nei loro quartieri, di entrare nei loro
linguaggi, accoglierli nella loro diversità. Non ci sono grandi strategie, se
non l’ascolto attento. E bisogna sollecitare le istituzioni affinché diano loro
un tessuto sociale dignitoso in cui vivere.
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