giovedì 31 luglio 2025

CONTROCOMUNICAZIONE

Immagine che contiene arte, vaso, pianta, interno

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto. 

Così le big tech digitali

 spengono il desiderio di pensare

Recensione di "Controcomunicazione", saggio di Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi (Franco Angeli, 2025): come si manifesta l’ottundimento del pensiero? In massimo grado con la polarizzazione. Si ha sempre meno voglia di capire le ragioni dell’altro. Che si tratti di decretare chi sia il più grande calciatore della storia, o il miglior film su Batman, o di chi è la colpa di una guerra, comanda la fazione, l’appartenenza emotiva

di Doriano Zurlo

È un libro molto interessante, Controcomunicazione di Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi (Franco Angeli, 2025). Lo dovrebbero leggere in tanti. Non solo chi si occupa di comunicazione in modo professionale (giornalisti, opinionisti, critici, insegnanti, politici, moderatori di talk show, pubblicitari, social media manager…), anche chi di mestiere fa tutt’altro. Se non altro per rendersi conto, per esempio, che «il potere di parola che chiunque sembra aver conquistato, l’opportunità cioè di parlare potenzialmente al mondo intero e divenire un opinion leader, potrebbe rivelarsi funzionale a un sistema di potere in principio alternativo a quello tradizionale, ma forse più soverchiante e subdolo di quello. In parole povere, per picchiare duro contro i governi e le vecchie corporation si fa il gioco delle big tech digitali, che sembrano essere così diventate più potenti dei governi e delle vecchie corporation».

Senza pensieri

Il saggio non è troppo lungo, in tutto parliamo di 150 pagine piuttosto scorrevoli. Ma gli spunti offerti sono parecchi, e ognuno è meritevole di riflessione. Tra questi, non mancano ragioni di sconforto e inquietudine per il futuro che ci aspetta. Gli autori constatano, non senza una punta di amarezza, che «la tecnica ci ha esonerato, nella storia, da molte attività fisiche faticose, e oggi – in particolare con l’avvento dei sistemi di intelligenza artificiale che già da tempo sono nei nostri smartphone, nei computer, nelle piattaforme TV – tende sempre più a esonerarci anche dal pensare. Gli strumenti scelgono per noi che cosa vedere o ascoltare, in base ai nostri gusti e a quelli di persone profilate come simili a noi, spesso anticipano i nostri desideri, altrettanto spesso li indirizzano. Gli strumenti, soprattutto, selezionano per noi le informazioni, il cosa, il come e il quando presentarcele, e per lo più inquadrano questa presentazione in un contesto interpretativo che ci instrada, perché è confortevole per noi (è creato su misura in base ai nostri interessi) e rafforza le nostre posizioni. Così non dobbiamo fare la fatica di pensare».

Una spiegazione, per quanto non esaustiva, del perché il mondo sia impazzito ai livelli attuali, va forse rimandata proprio a questo fatto che pare acclarato: abbiamo smesso di pensare. Ma come si manifesta l’ottundimento del pensiero? In massimo grado con la polarizzazione. Si ha sempre meno voglia di capire le ragioni dell’altro. Che si tratti di decretare chi sia il più grande calciatore della storia, o il miglior film su Batman, o di chi è la colpa di una guerra, comanda la fazione, l’appartenenza emotiva a un certo modo cristallizzato di vedere il mondo, «giacché le opinioni sfumate e le posizioni di mediazione hanno sempre meno cittadinanza nel circuito mediatico, in particolare sui social media».

Fake news

L’efficacia di una comunicazione, purtroppo, non è legata alla verità del contenuto che veicola. E questo libro, che è anche un libro di tecnica della comunicazione, volto a illustrare i meccanismi che rendono una comunicazione efficace o meno, ha il pregio di prenderne atto senza troppi patemi d’animo. Anche perché le fake news esistono da sempre: «Un esempio, fra i molti, possiamo prenderlo dal 1274 a.C., con la battaglia di Qadesh, nell’attuale Siria, fra gli Egizi e gli Ittiti, due vere super potenze dell’epoca. Sui muri dei tempi di Luxor e di Abu Simbel o nel Ramesseum di Tebe, sono rappresentate le scene di questa battaglia, in cui il faraone Ramses II travolge orde di Ittiti, schiacciandoli sotto le ruote del suo carro e correndo incontro a una fulgida vittoria. Tutti i sudditi dovevano comprendere questo successo, la comunicazione era importante quanto la vittoria. Ebbene le cose non andarono così, la battaglia si avviò verso uno stallo (e anzi semmai furono gli Ittiti a prevalere) al punto che si concluse con la stipula di un trattato di pace, divenuto assai famoso». 

Per quanto riguarda l’oggi, il tema è talmente pervasivo che non si può affrontare secondo schemi troppo scontati, quelli per i quali se crediamo all’allunaggio, alla terra rotonda, ai vaccini e al riscaldamento globale, allora siamo intelligenti e al riparo da qualsiasi manipolazione della realtà. Il fatto è che «tutti noi fruiamo delle fake news, quando esse coincidono o sono nell’area delle nostre convinzioni e del nostro pregiudizio. Se io ho un’opinione su un fatto e trovo un elemento di conferma, non mi insospettisco: posso non dargli troppo peso o posso invece aggiungerlo al mio bagaglio per rafforzare la mia idea, ma difficilmente mi impegno per metterlo in dubbio, per metterlo alla prova, per testarlo, per fare debunking, se volete». Vale per chi crede nelle scie chimiche, vale per noi che ci sentiamo colti e intelligenti e sempre dalla parte giusta.

Relativismo o verità?

Siamo dunque condannati a un relativismo che metterà in gioco per sempre qualsiasi nostra certezza? Già nel dibattito social attuale, non di rado mi è capitato di leggere commenti di questo tenore: “la verità è un concetto superato, guardiamo alla situazione concreta”». Mi è capitato soprattutto parlando della guerra che infiamma, da tre anni, l’est Europa. Sono stato in Ucraina tre volte, dall’inizio della guerra, e ogni volta ho riportato la mia testimonianza diretta, in aperta contraddizione con un certo racconto che farebbe degli ucraini un popolo al servizio degli Usa e di loschi interessi occidentali. Non potendo contestare la testimonianza diretta – a meno di non darmi del contaballe, e qualcuno l’ha pur fatto… – mi è stato contestata l’idea che si debba partire dalla verità: “è un concetto superato”. Qui, naturalmente, si pone l’eterno problema: nel momento in cui lo affermi, stai affermando una verità, la tua verità, e quindi cadi in contraddizione. Ma lasciamo perdere le finezze epistemologiche. Guardiamo al concreto, come mi è stato consigliato di fare. Seguendo questa logica, gli ucraini, invece di attaccarsi alla verità di avere subito un’aggressione, avrebbero dovuto rinunciare al Donbass subito, e così facendo non ci sarebbero stati tutti quei morti! È la logica del professor Orsini. Che se applichiamo anche a Gaza, però, ci costringerebbe a dare ragione a Trump: perché non spostare i palestinesi altrove e fare di Gaza una riviera per ricchi? Questo risolverebbe molte cose, no? Be’, c’è un piccolo problema, e questo problema si chiama, ancora una volta, verità. Se gli ucraini avessero detto, nel 2022, va bene, prenditi il Donbass, Putin si sarebbe preso l’Ucraina tutta intera. E se i palestinesi venissero dislocati in terre estranee alla loro tradizione, questo significherebbe l’annichilimento di un intero popolo. 

La verità, oltretutto, in casi come questi non ha bisogno di chissà quali tortuose elaborazioni: chiunque bombardi civili è un criminale.

Ritornare a pensare

Dalla verità non si può prescindere. Se io credo con i vaccini mi iniettino un microchip per controllarmi non potrò che agire di conseguenza, perché quella, per me, è la verità. E sulla verità, su ciò che crediamo tale, noi impostiamo ogni istante della nostra esistenza. Quello da cui si prescinde, invece – lo abbiamo accennato sopra ed è anche una tesi del libro – non è tanto la verità, quanto il pensiero. Ma cosa vuol dire pensare? Questo è un bel tema. Dal quale però siamo continuamente distratti. Il mondo digitale ci regala tante, tantissime cose. Perché ha trasformato ogni cosa – dai due sfigati al concerto dei Coldplay ai bambini mutilati a Gaza – in intrattenimento. Ma poi non è vero che ce le regala. Perché esige da noi un prezzo altissimo, esige la nostra attenzione, il bene più prezioso che c’è, in questo momento, sulla faccia della Terra. Distratti, abbiamo sempre meno tempo per pensare. Pensare vuol dire certamente leggere, approfondire, farsi aiutare da chi ne sa di più, non accettare certe semplificazioni, ragionare sulle varie posizioni, tentare mediazioni (la verità sta nel mezzo, diceva Aristotele), valutare i fatti, capire certi meccanismi eccetera. Ma significa soprattutto guardarsi dentro. Avere attenzione per noi stessi, cioè per ciò che ci costituisce, e ciò che ci costituisce è una esigenza di verità e giustizia infinite, che non si possono risolvere nelle parole di un talk show o di una polemica sui social.

Il passo che più mi è piaciuto del libro di Bosticco e Battista Magnoli Bocchi è questo: «Un venditore di automobili abile sa adattare le proprie argomentazioni alle esigenze e ai valori del cliente che ha davanti. La stessa auto può essere presentata come “la più sicura”, “la più elegante”, “la più economica”, “la più venduta” o “la più alla moda”, a seconda delle priorità dell’acquirente. Dipende dalla capacità del venditore di intuire i desideri e le preoccupazioni del compratore, cioè se, per esempio, ha paura di guidare, se vede l’auto come simbolo di prestigio, se è attento ai costi, se preferisce un modello molto diffuso per sentirsi rassicurato o un modello esclusivo per distinguersi: il venditore modifica la propria strategia di persuasione sulla base della percezione che ha del suo interlocutore. La macchina invece è sempre la stessa».

La macchina invece è sempre la stessa. Ecco, pensare serve a farci trovare la macchina, sotto tutte le allusioni e strategie che il venditore mette in atto per convincerci a comprarla. La macchina, in un certo senso, è la verità. Sempre che sia una macchina e non uno scaldabagno. 

Ma questo sta a noi scoprirlo.

 VITA

 

UN TEMPO PER OGNI COSA

 


C’è un tempo per lavorare e studiare, per fare ciò che si ‘deve’ e che è necessario soddisfare per rispondere delle proprie responsabilità.

Ma c’è anche un tempo, ed è questo, per gustare le parole, scritte o cantate, incise in un libro o in una canzone, e gioire della bellezza che ti regalano.

C’è un tempo per fare riunioni e per organizzare tutto quello che il programma prevede. Un tempo regolato e scandito dai bandi, dai progetti, dalle agende.

Ma c’è un tempo, e può essere questo, per godere dell’amicizia e degli affetti, per gustare la bellezza di un sorriso, di una gentilezza e della gratuità. Se non ci riusciamo non è perché siamo cattivi, piuttosto perché siamo prigionieri.

‘Cattivo’ dal latino captivus significa prigioniero. Sì, siamo prigionieri di quello che ci si aspetta da noi, di un dover essere che ci vede sempre inadeguati e in ritardo e comunque mai all’altezza. Prigionieri che attendono la liberazione.

C’è un tempo per le notizie, per inseguire le ultime info, per aggiornare i software. Tempo fugace perché queste cose si annullano una dopo l’altra, proprio come quando si giocava da bambini a mettere la mano sul dorso delle mani del papà, da sotto veniva sempre fuori un’altra mano che copriva la tua: e così via in un gioco in cui nessuno usciva sconfitto o vincitore, perché tutti prima o poi ci si ritraeva stanchi.

Ma c’è un tempo anche per approfondire, per incontrare qualcuno che pensa, che medita. Sì, che medita. Non ti scansare come se fosse solo una questione religiosa. Non è facile oggi trovare qualcuno che mediti. Già è difficile trovare qualcuno che pensi.

Eppure, questo può essere il tempo per meditare, nel senso etimologico del termine dal latino meditari, intensivo del verbo mederi che significa, tra l’altro, ‘prendersi cura di’. Da cui viene ad esempio il sostantivo ‘medico’ o ‘ri-medio’… parole che dicono una cura possibile. Prenditi cura di te stesso, del tuo cuore e guarisci dalla sklerocardia, da quella durezza di volto e di cuore che trionfa in ogni dove e ci fa più cinici e indifferenti, sempre infelici.

C’è un tempo ed è adesso per affrontare questo viaggio. Meditare è un viaggio che riguarda il pensiero, si muove sulle traiettorie del linguaggio, ma relativizza l’assolutismo della ragione e la tirannia dei sentimenti. Meditare è un’arte spirituale che mette insieme il corpo e l’anima, la mente e la psiche, le emozioni e i sentimenti e ti “fa nascere di nuovo amorevolmente”, come scrive Chandra Livia Candiani (Il silenzio è cosa viva, p. X).

C’è un tempo per lavorare e studiare, per fare ciò che si ‘deve’ e che è necessario soddisfare per rispondere delle proprie responsabilità.

Ma c’è anche un tempo, ed è questo, per gustare le parole, scritte o cantate, incise in un libro o in una canzone, e gioire della bellezza che ti regalano.

C’è un tempo per fare riunioni e per organizzare tutto quello che il programma prevede. Un tempo regolato e scandito dai bandi, dai progetti, dalle agende.

Ma c’è un tempo, e può essere questo, per godere dell’amicizia e degli affetti, per gustare la bellezza di un sorriso, di una gentilezza e della gratuità. Se non ci riusciamo non è perché siamo cattivi, piuttosto perché siamo prigionieri.

‘Cattivo’ dal latino captivus significa prigioniero. Sì, siamo prigionieri di quello che ci si aspetta da noi, di un dover essere che ci vede sempre inadeguati e in ritardo e comunque mai all’altezza. Prigionieri che attendono la liberazione.

C’è un tempo per le notizie, per inseguire le ultime info, per aggiornare i software. Tempo fugace perché queste cose si annullano una dopo l’altra, proprio come quando si giocava da bambini a mettere la mano sul dorso delle mani del papà, da sotto veniva sempre fuori un’altra mano che copriva la tua: e così via in un gioco in cui nessuno usciva sconfitto o vincitore, perché tutti prima o poi ci si ritraeva stanchi.

Ma c’è un tempo anche per approfondire, per incontrare qualcuno che pensa, che medita. Sì, che medita. Non ti scansare come se fosse solo una questione religiosa. Non è facile oggi trovare qualcuno che mediti. Già è difficile trovare qualcuno che pensi.

Eppure, questo può essere il tempo per meditare, nel senso etimologico del termine dal latino meditari, intensivo del verbo mederi che significa, tra l’altro, ‘prendersi cura di’. Da cui viene ad esempio il sostantivo ‘medico’ o ‘ri-medio’… parole che dicono una cura possibile. Prenditi cura di te stesso, del tuo cuore e guarisci dalla sklerocardia, da quella durezza di volto e di cuore che trionfa in ogni dove e ci fa più cinici e indifferenti, sempre infelici.

C’è un tempo ed è adesso per affrontare questo viaggio. Meditare è un viaggio che riguarda il pensiero, si muove sulle traiettorie del linguaggio, ma relativizza l’assolutismo della ragione e la tirannia dei sentimenti. Meditare è un’arte spirituale che mette insieme il corpo e l’anima, la mente e la psiche, le emozioni e i sentimenti e ti “fa nascere di nuovo amorevolmente”, come scrive Chandra Livia Candiani (Il silenzio è cosa viva, p. X).


Arche.it


mercoledì 30 luglio 2025

LA CRISI DELL'ASCOLTO

 

"La crisi di fede 
è crisi di ascolto"

 

 

 


E' Dio per primo che si rivolge a noi, soprattutto quando siamo stanchi e affaticati. 
Come? Nella sua Parola. Ma dobbiamo prima fare silenzio. 

 

di Enzo Bianchi 

 Nella nostra vita abbiamo bisogno di rinnovarci, ricominciare, riprendere il cammino percorso che a volte ci ha procurato stanchezza. Anche nella vita cristiana è necessaria questa dinamica, che è innanzitutto rinnovamento della fede. La fede è adesione di tutta la nostra persona al Signore, non è un atteggiamento intellettuale, né un sentimento destato dall’incontro con il sacro, è una relazione viva, un mettere la fiducia in Colui che abbiamo ascoltato con il cuore. Sì, perché la fede autentica cristiana nasce dall’ascolto di una parola che viene da Dio. È Dio che ci parla per primo, non noi parliamo per primi a lui, e la sua parola non è sonora, non si impone, chiede solo un cuore che sappia ascoltare. 

 Amico, non dimenticare che Salomone quando fu unto da Dio gli domandò il dono tra i doni: “Dammi un cuore che sappia ascoltare!”. La tua fede si rinnova dunque con l’ascolto della Parola, un ascolto attento e obbediente. Chiediti: se oggi c’è una crisi di fede non è forse legata a una crisi di ascolto? Manca anche l’ascolto del fratello e se non si ascolta il fratello che si vede come si potrà ascoltare Dio che non si vede? Ascoltare è accogliere le parole che ti raggiungono, discernere per verificare se sono parole che ti portano vita o se sono mortifere, se vengono dal Signore o se vengono dal buio presente nel profondo del nostro essere. 

Ascoltare è un’operazione da imparare che richiede esercizio, silenzio dai rumori e dalle parole vane. E accade a un certo punto che ascoltiamo una voce sottile, chiara e convincente, che parla con noi: è il Signore che chiede ascolto. 

 Rinnova l’ascolto e rinnoverai anche la fede nel lungo e a volte faticoso cammino verso il Regno.

 Famiglia Cristiana 

Immagine



EDUCARE E' LIBERARE

 


"Educare è liberare, 

ma la politica lo ignora.


 Folle la scuola che insegue 

il sistema produttivo"

 

La rivoluzione richiede pensiero critico, 

l’istruzione non sia ossessionata dagli sbocchi occupazionali.

di : Massimo Cacciari

Quale dovrebbe essere il compito fondamentale di uno Stato? La risposta che ci proviene dalle voci che stanno all’origine della nostra civiltà è una sola: nutrire, allevare ed educare i giovani. Nutrire e allevare il loro corpo, formare ed educare la loro anima. Nella loro indissolubile unità. Di che cosa infatti dovrebbe avere massima cura una città, una polis retta secondo ragione, se non della propria forza e della propria durata? E che cosa le garantisce se non nuove generazioni attrezzate in tutti i sensi ad affrontare anche l’imprevedibile? È un’idea gerontocratica dell’educazione quella che la riduce essenzialmente a trasmissione di saperi. Educare, come dice la stessa parola, significa trarre fuori dal giovane la potenza che già è in lui, aprire la sua mente, i suoi occhi, e non informarlo di ciò che padri e nonni hanno compreso e vissuto. Educare significa liberare. 

Il peccato mortale della nostra politica consiste nell’ignorare tutto ciò. Il suo fallimento è palese, ma ci si ostina a nasconderlo. I dati lo denunciano impietosamente. La sfiducia nelle capacità formative del nostro sistema cresce con disarmante regolarità. I laureati nella fascia d’età 25/34 anni sono il 30% (ma al Sud solo il 20%), il 10% in meno rispetto alla media europea. Di questi laureati quelli che prendono la via dell’emigrazione crescono ogni anno dall’inizio del nuovo millennio, passando da qualche centinaio a parecchie migliaia. Chi trova lavoro in patria lo ottiene, nella stragrande maggioranza dei casi, irregolare e sottopagato. E per ogni capitolo di questo dramma il Sud vede peggiorare la propria situazione rispetto al Centro-Nord. Sono dati a disposizione di tutti, non opinioni. La formazione delle nuove generazioni non rappresenta la priorità della nostra politica. E una politica che nella sua agenda non esprime questa priorità cessa di avere un qualsiasi futuro. 

Non si tratta soltanto di investimenti, di difendere almeno il potere d’acquisto degli stipendi di personale e insegnanti, di armare il cervello dei giovani piuttosto che riarmare eserciti per far guerre per interposta persona. Né la crisi della scuola italiana può essere semplicemente trattata come un capitolo del progressivo esaurirsi delle politiche di Welfare, del venire meno della volontà stessa da parte dello Stato di garantire a tutti i servizi essenziali. Nella sua politica per la scuola una classe dirigente ha sempre espresso, cosciente o no, nel modo più chiaro il proprio livello culturale e la propria strategia complessiva. L’assetto della scuola è lo specchio più veritiero della sua qualità. Quale idea di società emerge dagli attuali ordinamenti? Una confusa contrapposizione al modello classista gentiliano ha condotto a inseguire quello di una scuola “al servizio” del sistema economico-produttivo. Una scuola che tradisce il suo stesso etimo per diventare nec-otium, negozio, una sorta di pre-lavoro. 

Modello non solo culturalmente odioso, ma semplicemente idiota, poiché esso prefigura una scuola che si troverà sempre in costante ritardo rispetto alle trasformazioni organizzative e tecnologiche. Se la scuola deve essere nec-otium la si chiuda e si promuovano soltanto forme di learn-by-doing gestite da imprese e società, al loro interno. La rivoluzione tecnologica (e delle stesse forme di vita) in cui viviamo richiede persone capaci di capire, apprendere rapidamente, educate a un pensiero critico, pronte nel cogliere i segni del salto, della discontinuità nei processi economici e sociali. Altro che adattarsi allo stato presente e integrarsi in esso. 

Tutto si tiene. Una scuola, a tutti i gradi, che persegue l’obbiettivo di addomesticare il giovane al mercato, ossessionata dalla peregrina idea dello “sbocco occupazionale”, sarà necessariamente il trionfo dell’ordinamento burocratico, del controllismo formale. L’oppressione burocratica schiaccia l’autonomia didattica, omologa al basso, rende vacua chiacchiera ogni selezione meritocratica. L’insegnante ha sempre meno tempo per leggere, studiare, continuare a formarsi; produzione di riunioni per mezzo di riunioni, redazione di piani e progetti, rendiconti continui non sulle proprie conoscenze, ma sull’osservanza di procedure e metodi soffocano il suo spirito di iniziativa. Come ha bene spiegato Ivano Dionigi nel suo libro “Magister” ormai la scuola non la fanno i maestri, ma i ministri. 

È il sistema dell’universale sorveglianza. Tutto si svolge sotto il timore della punizione. Non hai seguito la regola, non hai riempito con diligenza i moduli prescritti, la controversia legale, magari fino al Tar, sta in agguato. Per essere tranquilli, obbedisci ai comandamenti ministeriali, per quanto stupidi possano essere e anche se ciò ostacola fino a impedirla la tua volontà di crescita intellettuale, di cambiare, di innovare dove le cose non ti sembra funzionino. Bada anzitutto al “successo formativo”, che si misura sulla percentuale degli studenti che finiscono il corso negli anni previsti. “Successo formativo” significa perciò non avere “bocciati”, non avere “fuori corso”. Il “sindacato Famiglia” vigila che così sia. La meritocrazia può attendere, anche perché quale meritocrazia potrebbe esserci in un regime che non ha alcuna politica per un reale diritto allo studio?. 

 L’astratto metodologismo imperante determina anche i piani di studio. La competenza disciplinare lascia il posto a indigeribili melting-pot specie nelle materie cosiddette umanistiche, infarinature di impressioni generiche su letteratura, arte, storia, invece di letture dirette, poche ma solide, conoscenze specifiche, limitate ma reali, fondate. Il “politicamente corretto” completerà l’opera di metamorfosi della conoscenza disciplinare in chiacchiera universalistica. 

Così non si educa il giovane e così lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale. Docenti e studenti debbono allearsi nel combattere questa intollerabile situazione. Solo da questa lotta può nascere anche una nuova élite politica, una nuova classe dirigente del Paese.

Fonte: La Stampa

 

L'OCCIDENTE ....

MA L'OCCIDENTE NON E' TRUMP 

E NEMMENO NETANYAHU


By Giuseppe Savagnone 

A mani alzate

Nella tempesta di polemiche che hanno fatto seguito al contestato accordo tra la Von der Leyen e Trump sui dazi, la sola a dirsi relativamente soddisfatta, pur con delle riserve, è stata Giorgia Meloni. «Giudico positivamente», ha detto, «il fatto che si sia raggiunto un accordo. Ho sempre pensato e continuo a pensare che un’escalation commerciale tra Europa e Stati Uniti avrebbe avuto conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti». 

La premier italiana ha ragione di rivendicare la propria coerenza. Era stata lei a battersi – insieme al cancelliere tedesco Mertz e in netto contrasto con il presidente francese Macron – per evitare ad ogni costo uno scontro con gli Stati Uniti e accettare il dialogo alle condizioni imposte da Donald Trump.

Da qui la totale rinunzia da parte dell’Europa ad ogni contromisura in risposta ai pesantissimi dazi del 50% entrati in vigore dal 4 giugno su acciaio e alluminio. Da qui, alla fine di giugno, la decisione dei paesi europei aderenti al G7 di esonerare unilateralmente e ingiustificatamente le potenti multinazionali statunitensi  dalla tassa minima globale per le Big Tech, privandosi di quella che tutti gli osservatori consideravano la più forte arma di pressione sull’economia americana.

L’Europa si è dunque presentata all’incontro con il presidente americano con le mani alzate, come evidenzia, simbolicamente, che la presidente della Commissione europea abbia accettato di recarsi nella tenuta privata, del Tycoon, piuttosto che in un luogo istituzionale super partes come sarebbe stato nella logica di una diplomazia paritaria. 

Una strategia fortemente criticata da esperti come il Nobel Joseph Stiglitz, che, in base ai precedenti conflitti commerciali di Trump con altri paesi, come la Cina, aveva piuttosto consigliato una linea dura, l’unica in grado di smontare le pretese irragionevoli e arroganti del presidente americano. 

Gli avvertimenti non sono stati ascoltati, la linea della Meloni ha prevalso, e il risultato è stato quello che il premier francese François Bayrou ha definito «un giorno buio» per l’Europa che, a suo avviso, «decide di sottomettersi» agli Stati Uniti. 

Con una formula più pittoresca, il presidente ungherese Orbán ha commentato: «Donald Trump non ha raggiunto un accordo con Ursula von der Leyen, ma piuttosto si è mangiato la presidente della Commissione europea a colazione».

Da qui una reazione quasi unanime che ha trovato voce nei titoli di prima pagina dei giornali del 29 luglio, che parlavano di «Rivolta contro i dazi»  («Repubblica»),  di «Rivolta dazi. Italia isolata» («La Stampa»), di «UE in ginocchio: “Giorno buio”.  Flop Meloni» («Domani»).

Una difesa dell’Occidente

Sul fronte opposto, «La Verità», che pure parla di «resa sui dazi», ne scarica tutta la responsabilità sull’Europa, lasciando in ombra il ruolo della premier italiana nel determinarne la linea in questa occasione. 

Ma la voce forse più significativa è stata quella del direttore di «Libero», Mario Sechi, già portavoce della presidente del Consiglio e spesso in profonda sintonia  con lei, nel suo editoriale, intitolato «Quell’Occidente che odia l’Occidente».

Sechi associa strettamente le proteste contro gli Stati Uniti per la loro politica sui dazi a quelle nei confronti di Israele: per la guerra a Gaza. «La “chiamata” delle sinistre al boicottaggio dei prodotti israeliani e di quelli americani è esemplare per tracciare la mappa dell’Occidente che odia l’Occidente, svelare la cattiva coscienza delle presunte classi colte, che agitano l’arma dell’irrazionale e accendono la fabbrica del caos. L’antiamericanismo e l’antisemitismo sono sempre più le facce della stessa medaglia».

Secondo il direttore di «Libero», insomma, il problema dei dazi va visto in un contesto più ampio, in cui è in gioco l’unità dell’Occidente, di cui l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa è il pilastro. 

Parole che hanno un riscontro, peraltro, nei reiterati appelli di Giorgia Meloni a lavorare per «rendere di nuovo grande l’Occidente». Lo ha detto incontrando Trump nella sua visita a Washington in aprile, ricevendone in risposta, per la verità, solo un laconico «Possiamo farlo». L’ha ripetuto in altre occasioni. Quasi a far dimenticare che lo slogan del presidente americano è invece «Rendere di nuovo grande l’America» e che proprio in nome di esso egli ha rotto un fronte politico ed economico che univa le due sponde dell’Atlantico e che costituiva, appunto, l’Occidente. 

Si capiscono, in questo contesto, gli sforzi della nostra premier per proporsi come costruttrice di ponti tra queste due sponde. Sforzi che, al di là di immediate risonanze mediatiche – come nell’incontro di aprile della Meloni, con Trump, ricco di sorrisi e di complimenti scambiati da molti per una intesa effettiva – sono stati sistematicamente frustrati dall’assoluta indifferenza del presidente americano nei confronti degli interessi europei.

E si capiscono anche i toni rassicuranti che fin dall’inizio della presidenza Trump la nostra premier ha usato nei suoi confronti. Così, quando ha detto di volersi annettere, anche con la forza, la Groenlandia, togliendola alla Danimarca, e il canale di Panama, la Meloni ha definito questa inaudita minaccia, che ha lasciato sbalordite le diplomazie e l’opinione pubblica mondiale, «un modo energico per dire che gli Stati Uniti non rimarranno a guardare di fronte alla previsione che altri grandi player globali muovano in zone di interesse strategiche per gli Stati Uniti e, aggiungo io, per l’Occidente». 

Con un tentativo, fin da allora, di sottolineare la coincidenza della causa degli Stati Uniti con quella dell’Occidente. Ma trascurando il particolare che dell’Occidente, anzi della NATO – che ne rappresenta l’espressione militare – fa parte anche la Danimarca, il paese minacciato di aggressione, a cui non è andata nemmeno una parola di solidarietà.

E quando Trump, lo scorso giugno, ha imposto ai paesi della NATO un aumento delle spese militari al 5% del loro PIL, la nostra presidente del Consiglio, che aveva sempre indicato come soglia massima il 2%, è stata pienamente d’accordo:  «Sono impegni sostenibili», ha scandito.

«Lo voglio ribadire: per l’Italia questa spesa è necessaria per rafforzare la nostra difesa, per rafforzare la nostra sicurezza in un contesto che lo necessita, ma in una dimensione che ci consente di assumere questi impegni sapendo già che non distoglieremo neanche un euro dalle altre priorità del governo a difesa e a tutela degli italiani».

Anche se non ha chiarito da dove si prenderanno i soldi. Perché è vero che l’1,5% di questo totale potrà riguardare spese per la sicurezza nazionale in senso lato: cybersicurezza, centrali elettriche e reti di telecomunicazione terrestri e satellitari, infrastrutture strategiche di mobilità militare come ferrovie, strade, ponti, porti e aeroporti. Ma per il rimanente 3,5% da investire in spese militari in senso tradizionale, si dovranno trovare 700 miliardi.

Una necessità ineluttabile? A smentirlo è il fatto – segnalato da tutti gli osservatori – che il premier spagnolo Sanchez si è rifiutato di piegarsi alle pressioni di Trump, senza lasciarsi intimorire dalle minacce di rappresaglie economiche.

Sulla stessa linea è l’allineamento dell’Italia alle posizioni di Trump nei confronti della guerra condotta da Israele nella Striscia di Gaza. Di fronte allo stupefacente  progetto di trasformare un territorio, da secoli appartenente ai palestinesi, in un resort tutistico di lusso gestito dagli Stati Uniti, deportando gli abitanti attuali in paesi vicino, come l’Egitto e la Giordania, il nostro ministro degli Esteri si è limitato a far presente l’irrealizzabilità dell’idea per la indisponibilità dei due paesi in questione, ricordando che l’Italia è stata sempre favorevole alla soluzione dei “due  Stati” prevista dall’originaria risoluzione dell’ONU del 1947.

 Purtroppo, già in passato, quando, il 10 maggio 2024, nell’Assemblea delle Nazioni Unite è stata messa ai voti una risoluzione – approvata da 143 paesi, tra cui  Francia e Spagna – per il riconoscimento della Palestina come qualificata a diventare membro a pieno titolo dell’ONU, l’Italia si è astenuta: «Riteniamo» ha detto in quella occasione il nostro rappresentante, «che tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti». Non facendo cenno al particolare che il governo di Netanyahu esclude assolutamente la possibilità di uno Stato palestinese. 

E adesso, che il presidente Macron ha annunciato l’intenzione della Francia di riconoscere lo Stato palestinese – come già hanno fatto altri 148 paesi, tra cui, per citare solo alcuni di quelli europei, la Spagna, l’Irlanda, la Svezia, la Norvegia, la Polonia, lo Stato della Città del Vaticano – la nostra premier, in linea ancora una volta con gli Stati Uniti, ha definito questo riconoscimento «prematuro», attirandosi la risposta del cardinale Parolin, Segretario di Stato del Vaticano: «Prematuro riconoscere lo Stato di Palestina? Per noi è la soluzione».

Ma già quando Trump aveva colpito con sanzioni la corte Penale Internazionale, rea di aver emesso un mandato di cattura nei confronti di Netanyahu e del suo ministro della guerra, per «crimini contro l’umanità», il governo italiano era stato l’unico di quelli dell’Europa occidentale a rifiutare di firmare un lettera di protesta e di solidarietà alla Corte.

È difficile, davanti a questa storia, di cui la vicenda dei dazi è solo l’ultimo atto, evitare l’impressione che Giorgia Meloni rifiuti di prendere atto che l’Occidente non esiste più, dopo la svolta di Trump, e che la sua ostinata volontà di rilanciarlo si risolve in concreto in un appoggio incondizionato alla folle volontà di potenza del presidente degli Stati Uniti.

Da qui i continui moniti ad evitare una spaccatura tra le due sponde dell’Atlantico che è già avvenuta per scelta di quest’ultimo, e, nel caso dei dazio, a non provocare una guerra commerciale che in realtà era già in corso, scatenata dall’altra parte. 

Da qui anche la condivisione della complicità di Trump nel genocidio perpetrato a Gaza (ma anche in Cisgiordania) da Netanyahu e il mantenimento, nei fatti, dell’appoggio a Israele, pur mascherandolo con qualche frase di disapprovazione ufficiale per placare il malessere dell’opinione pubblica italiana.

Ma, con buona pace del direttore di «Libero», l’Occidente non è l’America di Trump e tanto meno l’Israele di Netanyahu. E la sola speranza di ridare vita alla sua migliore tradizione è di non dimenticare mai che essa è fondata su valori antitetici a quelli della violenza e della sopraffazione, di cui questi tristi personaggi sono l’incarnazione.

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martedì 29 luglio 2025

IL LIVORE DEL BRANCO

 


IMMUNITA'

 DIGITALE

 


-       di Marinella Perroni

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Confesso di essermene stupita, e questa è sicuramente la prova che essere boomer è un condizionamento inesorabile.

Perché riservare un evento giubilare missionari digitali e influencer cattolici, una  categoria specifica, quando poteva forse rientrare in quello degli addetti alla comunicazione? 

 Non entro nel programma, che ha certamente un suo interesse specifico, dato che mira ad affrontare il tema della missione al tempo delle reti digitali, oltre che a richiamare a responsabilità il crescente numero di missionari digitali anche cattolici. Vorrei solo prendere lo spunto da qui per una riflessione a margine che non ritengo però marginale. 

 Quanto mi fa pensare è il repentino passaggio di testimone che c’è stato dalle agenzie educative – la famiglia, la scuola, le Chiese – agli influencer. Figure che non sono certo nate oggi, anche nelle Chiese. In molti abbiamo fatto l’esperienza di parroci che si servivano delle omelie domenicali per suggerire precise indicazioni di voto o di cardinali che hanno convinto a non andare a votare a un referendum. 

 

Il cortocircuito fra libertà e aggressione 

 

Che la propaganda sia una delle forze che muovono il mondo non è certo invenzione dell’era digitale, mentre lo è l’illusione che i propagandisti di ieri fossero schiavi di un’ideologia mentre quelli di oggi sarebbero liberi e aprono strade di libertà. 

 Non intendo qui, però, inoltrarmi nel complesso tema della propaganda. Quanto mi interessa è che il mondo della comunicazione, sia quello della carta stampata sia quello del web, è diventato il luogo privilegiato del cortocircuito tra libertà di espressione e aggressività verbale. 

 E ha creato una sorta di “grande fratello influencer”. Più che per le cose che comunica, per “come” le comunica. Non coincide con una persona, ma è piuttosto un clima, una sottile ma potente forza motrice di modi di pensare e di sentire collettivi. 

 A una diffusa “mala educazione” digitale che non soltanto distorce la realtà, ma inquina anche la comunicazione perché istilla false pretese e paure, paghiamo ogni giorno un prezzo molto alto. 

 Mi limito a un esempio, che però mi sta particolarmente a cuore perché riguarda un personaggio pubblico a cui sono legata da un’amicizia carica di stima. È però solo uno tra i tanti, e riferirmi a lui mi permette soltanto di mettere a fuoco il meccanismo perverso che viene oggi contrabbandato come libertà di espressione. 

 Mirare al bersaglio: Antonio Spadaro 

 Nel giro di due giorni, diversi quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Foglio) e alcuni siti cari al tradizionalismo cattolico (Silere non possum, Stilum curiae) hanno preso di mira padre Antonio Spadaro, il gesuita che è stato negli ultimi dodici anni il reporter privilegiato di papa Francesco, il primo papa gesuita della storia. 

 Affinità, amicizia, reciproca stima hanno fatto sì che padre Spadaro mettesse il suo mestiere di giornalista a servizio di un pontificato come quello di Bergoglio il cui magistero si è articolato in un ricco intreccio di parole e gesti. 

 La capacità interpretativa di Spadaro ha provato a rendere conto di questo intreccio e soprattutto del suo impatto, ma anche di rintracciarne l’ispirazione e suggerirne le finalità. Si può ritenere discutibile il modo in cui Spadaro ha assolto questo compito e io stessa ho avuto più volte occasione di discuterne con lui. Ma il problema non è questo. 

 Quello che colpisce è che, con precisione quasi chirurgica, un gruppo di soggetti accreditati all’informazione e, per di più, all’informazione vaticana, più vicini però ai mitici “leoni da tastiera” che non a genuini opinion makers, abbiano coinciso nei tempi e nei modi per lanciare un’offensiva contro Spadaro che gli riservava, di fatto, solo insulti. 

 Posso supporre che, se fosse ancora tra noi, papa Francesco direbbe al suo confratello «se la prendono con te, ma ce l’hanno con me». Fatto lampante, peraltro, perché gli stessi giornalisti non hanno lesinato offese verbali tanto gravi quanto grevi anche nei suoi confronti durante il suo pontificato: Francesco è stato il primo pontefice a confrontarsi frontalmente con la manipolazione della realtà al soldo di interessi settari tipica dell’epoca dei social e con un complottismo che, per quanto ridicolo, è stato però quanto mai penetrante. 

 Una situazione con cui anche Leone XIV dovrà presto fare i conti e che in fondo ha, però, anche un suo lato illuminante. Ha, infatti, svelato il segreto profondo di molti cuori, dato che anche chi si è sempre professato difensore ad ogni costo della figura in quanto tale del Pontefice romano, perché a lui solo va tributato onore e riconosciuta obbedienza, si è trasformato in professionista del dileggio, della provocazione, dell’oltraggio nei confronti di un papa che si permetteva di non rispondere alle sue aspettative. Ma torniamo a Spadaro. 

 I suoi detrattori sono partiti tutti nello stesso momento e tutti con lo stesso tono. Poco importa se spinti da una medesima occasione, l’annuncio della prossima uscita di un suo libro, oppure per un ordine di scuderia dato che, in fondo, nessuno di loro è entrato nel merito del libro, ma tutti si sono limitati solo a insultarne l’autore. Il tentativo di Spadaro di rilevare una linea di continuità tra Bergoglio e Prevost a partire dal magistero del primo e da interessanti dichiarazioni fatte dal secondo in un’intervista di alcuni mesi fa può essere legittimamente giudicato una pretesa inconsistente. 

 Sappiamo tutti, infatti, che l’assunzione di un ruolo può determinare un cambiamento decisivo nelle presone ma, soprattutto, dodici anni di pontificato non sono un’unità di misura paragonabile a idee espresse in un’intervista, per quanto seria essa possa essere. 

 Io stessa, d’altro canto, ho discusso con Spadaro sulla sua pretesa, eccessivamente cattolica a mio avviso, di stabilire sempre e comunque legami di continuità anche quando farebbe invece molto bene riflettere su decisivi elementi di rottura: mi aveva già lasciata perplessa, in fondo, l’opinione di Benedetto XVI quando, parlando con il clero romano, aveva sostenuto che l’ermeneutica della continuità e non quella della discontinuità dovevano guidare il giudizio sul Vaticano II. 

 Le idee di Spadaro sono del tutto discutibili, ma magari, prima, è necessario leggerle e ancora più necessario è provare ad elaborare un’argomentazione critica. 

 Ma proprio qui viene il punto che mi sta a cuore mettere in risalto. Perché si passa dalla legittima, anzi del tutto necessaria, possibilità di discutere i punti di vista alla precisa volontà di offendere le persone? E ci si trasforma in mestatori che volutamente hanno come unico scopo quello di sfregiare l’immagine di una persona? 

 Si tratta di un processo che dovremmo cercare di mettere sempre più a fuoco in questa nostra epoca in cui in troppi pretendono di influenzare i sentimenti prima ancora che le idee. 

 Quando il livore detta legge 

 Il caso Spadaro mi sta a cuore per amicizia, ma soprattutto perché è indicativo del clima che, purtroppo, sta diventando tossico anche nella mia Chiesa. Alla base di questo meccanismo perverso che sposta l’attenzione dalla discussione sulle idee all’oltraggio delle persone c’è un incontenibile livore. 

 Nei confronti di papa Francesco ha accompagnato tutti i giorni del suo pontificato e alimenta la damnatio memoriae che ha avuto inizio il giorno stesso della sua morte. Un livore che deve essere cresciuto a dismisura durante il silenzioso quanto imponente abbraccio di folla che ha accompagnato il suo ultimo viaggio in papamobile verso il luogo della sua sepoltura. 

 Se per molti ha prevalso la commozione, per alcuni specialisti dell’odio seriale ha invece prevalso il livore, e il livore, si sa, ha grande forza di collante. Creare un nemico e riservargli sarcasmo, disprezzo, sfregio è chiara attestazione della volontà di annichilire ciò (o chi) con cui non si sa avere a che fare. 

 Le nostre cronache, d’altro canto, sono piene di sfregi, siano essi nei confronti delle pietre di inciampo o di monumenti alla memoria di chi è stato ucciso per le sue idee. Vige il principio: non sei in grado di costruire nulla, sfregia ciò che qualcun altro ha costruito, non sei in grado di rendere ragione dei tuoi valori, sputa su quelli di altri. 

 La protezione dell’immunità 

 Ma c’è qualcosa di ancora più distruttivo, a mio avviso, in questo modo di fare l’influencer all’arma bianca ed è l’assoluta immunità da cui ci si sente protetti in nome di un vero e proprio simulacro della libertà di espressione. Un’immunità che fa pensare. 

 Quella parlamentare, prevista dalla Costituzione a tutela dal rischio di ingerenze dittatoriali, si è ormai trasformata in un privilegio di casta tanto scontato quanto pericoloso. 

 L’immunità digitale, invocata come espressione del più alto valore democratico, la libertà di espressione, si sta trasformando in un non meno pericoloso corrosivo della tenuta sociale. 

 La libertà di espressione è e resta certamente un diritto fondamentale, ma la grammatica e la sintassi dell’espressione sono e restano uno dei primi doveri delle istituzioni, che devono farsene carico. 

Nessuno pensa a una censura imposta dal padrone di turno, ma certamente l’anarchia delle parole non tutela la libertà né costruisce la responsabilità, ma anzi è preludio, a volte anche ben orchestrato, di pericolosi irrigidimenti del potere. 

 E sono convinta che la legittimazione silenziosa dell’immunità digitale contribuisce a trasformare un gruppo umano in un branco, dominato dalla pretesa di ciascuno di avere ragione piuttosto che dalla capacità di ciascuno di discutere le ragioni di tutti.

 Fonte: SettimanaNews

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