E NEMMENO NETANYAHU
A mani alzate
Nella tempesta di
polemiche che hanno fatto seguito al contestato accordo tra la Von
der Leyen e Trump sui dazi, la sola a dirsi relativamente soddisfatta, pur
con delle riserve, è stata Giorgia Meloni. «Giudico positivamente», ha
detto, «il fatto che si sia raggiunto un accordo. Ho sempre pensato e
continuo a pensare che un’escalation commerciale tra Europa e Stati Uniti
avrebbe avuto conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti».
La premier italiana ha
ragione di rivendicare la propria coerenza. Era stata lei a battersi –
insieme al cancelliere tedesco Mertz e in netto contrasto con il presidente
francese Macron – per evitare ad ogni costo uno scontro con gli Stati Uniti
e accettare il dialogo alle condizioni imposte da Donald Trump.
Da qui la totale rinunzia
da parte dell’Europa ad ogni contromisura in risposta ai pesantissimi dazi del
50% entrati in vigore dal 4 giugno su acciaio e alluminio. Da qui,
alla fine di giugno, la decisione dei paesi europei aderenti al G7 di
esonerare unilateralmente e ingiustificatamente le potenti multinazionali
statunitensi dalla tassa minima globale per le Big Tech, privandosi
di quella che tutti gli osservatori consideravano la più forte arma di
pressione sull’economia americana.
L’Europa si è dunque
presentata all’incontro con il presidente americano con le mani alzate, come
evidenzia, simbolicamente, che la presidente della Commissione europea abbia
accettato di recarsi nella tenuta privata, del Tycoon, piuttosto che in un luogo
istituzionale super partes come sarebbe stato nella logica di una diplomazia
paritaria.
Una strategia fortemente
criticata da esperti come il Nobel Joseph Stiglitz, che, in base ai precedenti
conflitti commerciali di Trump con altri paesi, come la Cina, aveva piuttosto
consigliato una linea dura, l’unica in grado di smontare le pretese irragionevoli
e arroganti del presidente americano.
Gli avvertimenti non
sono stati ascoltati, la linea della Meloni ha prevalso, e il risultato è stato
quello che il premier francese François Bayrou ha definito «un giorno buio» per
l’Europa che, a suo avviso, «decide di sottomettersi» agli Stati Uniti.
Con una formula più
pittoresca, il presidente ungherese Orbán ha commentato:
«Donald Trump non ha raggiunto un accordo con
Ursula von der Leyen, ma piuttosto si è mangiato la
presidente della Commissione europea a colazione».
Da qui una reazione quasi
unanime che ha trovato voce nei titoli di prima pagina dei giornali del 29
luglio, che parlavano di «Rivolta contro i dazi» («Repubblica»), di
«Rivolta dazi. Italia isolata» («La Stampa»), di «UE in ginocchio: “Giorno
buio”. Flop Meloni» («Domani»).
Una difesa dell’Occidente
Sul fronte opposto, «La
Verità», che pure parla di «resa sui dazi», ne scarica tutta la responsabilità
sull’Europa, lasciando in ombra il ruolo della premier italiana nel
determinarne la linea in questa occasione.
Ma la voce forse più
significativa è stata quella del direttore di «Libero», Mario Sechi, già
portavoce della presidente del Consiglio e spesso in profonda sintonia
con lei, nel suo editoriale, intitolato «Quell’Occidente che odia
l’Occidente».
Sechi associa
strettamente le proteste contro gli Stati Uniti per la loro politica sui dazi a
quelle nei confronti di Israele: per la guerra a Gaza. «La “chiamata” delle
sinistre al boicottaggio dei prodotti israeliani e di quelli americani è
esemplare per tracciare la mappa dell’Occidente che odia l’Occidente, svelare
la cattiva coscienza delle presunte classi colte, che agitano l’arma
dell’irrazionale e accendono la fabbrica del caos. L’antiamericanismo e
l’antisemitismo sono sempre più le facce della stessa medaglia».
Secondo il direttore di
«Libero», insomma, il problema dei dazi va visto in un contesto più ampio, in
cui è in gioco l’unità dell’Occidente, di cui l’alleanza tra Stati Uniti ed
Europa è il pilastro.
Parole che hanno un
riscontro, peraltro, nei reiterati appelli di Giorgia Meloni a lavorare per
«rendere di nuovo grande l’Occidente». Lo ha detto incontrando Trump nella sua
visita a Washington in aprile, ricevendone in risposta, per la verità, solo un laconico
«Possiamo farlo». L’ha ripetuto in altre occasioni. Quasi a far
dimenticare che lo slogan del presidente americano è invece «Rendere di nuovo
grande l’America» e che proprio in nome di esso egli ha rotto un fronte
politico ed economico che univa le due sponde dell’Atlantico e che costituiva,
appunto, l’Occidente.
Si capiscono, in questo
contesto, gli sforzi della nostra premier per proporsi come costruttrice di
ponti tra queste due sponde. Sforzi che, al di là di immediate risonanze
mediatiche – come nell’incontro di aprile della Meloni, con Trump, ricco di
sorrisi e di complimenti scambiati da molti per una intesa effettiva
– sono stati sistematicamente frustrati dall’assoluta indifferenza del
presidente americano nei confronti degli interessi europei.
E si capiscono anche i
toni rassicuranti che fin dall’inizio della presidenza Trump la nostra premier
ha usato nei suoi confronti. Così, quando ha detto di volersi annettere,
anche con la forza, la Groenlandia, togliendola alla Danimarca, e il
canale di Panama, la Meloni ha definito questa inaudita minaccia, che ha
lasciato sbalordite le diplomazie e l’opinione pubblica mondiale, «un modo
energico per dire che gli Stati Uniti non rimarranno a guardare di fronte alla
previsione che altri grandi player globali muovano in zone di
interesse strategiche per gli Stati Uniti e, aggiungo io, per
l’Occidente».
Con un tentativo, fin da
allora, di sottolineare la coincidenza della causa degli Stati Uniti con quella
dell’Occidente. Ma trascurando il particolare che dell’Occidente, anzi della
NATO – che ne rappresenta l’espressione militare – fa parte anche la Danimarca,
il paese minacciato di aggressione, a cui non è andata nemmeno una parola di
solidarietà.
E quando Trump, lo scorso
giugno, ha imposto ai paesi della NATO un aumento delle spese militari al 5%
del loro PIL, la nostra presidente del Consiglio, che aveva sempre indicato
come soglia massima il 2%, è stata pienamente d’accordo: «Sono impegni sostenibili», ha scandito.
«Lo voglio ribadire: per
l’Italia questa spesa è necessaria per rafforzare la nostra difesa, per
rafforzare la nostra sicurezza in un contesto che lo necessita, ma in una
dimensione che ci consente di assumere questi impegni sapendo già che non
distoglieremo neanche un euro dalle altre priorità del governo a difesa e a
tutela degli italiani».
Anche se non ha chiarito
da dove si prenderanno i soldi. Perché è vero che l’1,5% di questo totale
potrà riguardare spese per la sicurezza nazionale in senso lato:
cybersicurezza, centrali elettriche e reti di telecomunicazione terrestri e
satellitari, infrastrutture strategiche di mobilità militare come ferrovie,
strade, ponti, porti e aeroporti. Ma per il rimanente 3,5% da investire in
spese militari in senso tradizionale, si dovranno trovare 700 miliardi.
Una necessità
ineluttabile? A smentirlo è il fatto – segnalato da tutti gli osservatori – che
il premier spagnolo Sanchez si è rifiutato di piegarsi alle pressioni di Trump,
senza lasciarsi intimorire dalle minacce di rappresaglie economiche.
Sulla stessa linea è
l’allineamento dell’Italia alle posizioni di Trump nei confronti della guerra
condotta da Israele nella Striscia di Gaza. Di fronte allo stupefacente
progetto di trasformare un territorio, da secoli appartenente ai palestinesi,
in un resort tutistico di lusso gestito dagli Stati Uniti, deportando gli
abitanti attuali in paesi vicino, come l’Egitto e la Giordania, il nostro
ministro degli Esteri si è limitato a far presente l’irrealizzabilità dell’idea
per la indisponibilità dei due paesi in questione, ricordando che l’Italia è
stata sempre favorevole alla soluzione dei “due Stati” prevista
dall’originaria risoluzione dell’ONU del 1947.
Purtroppo, già
in passato, quando, il 10 maggio 2024, nell’Assemblea delle Nazioni Unite
è stata messa ai voti una risoluzione – approvata da 143 paesi, tra
cui Francia e Spagna – per il riconoscimento della Palestina
come qualificata a diventare membro a pieno titolo dell’ONU, l’Italia si è
astenuta: «Riteniamo» ha detto in quella occasione il nostro
rappresentante, «che tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso
negoziati diretti tra le parti». Non facendo cenno al particolare che il
governo di Netanyahu esclude assolutamente la possibilità di uno Stato
palestinese.
E adesso, che il
presidente Macron ha annunciato l’intenzione della Francia di riconoscere lo
Stato palestinese – come già hanno fatto altri 148 paesi, tra cui, per citare
solo alcuni di quelli europei, la Spagna, l’Irlanda, la Svezia, la
Norvegia, la Polonia, lo Stato della Città del Vaticano – la nostra premier, in
linea ancora una volta con gli Stati Uniti, ha definito questo
riconoscimento «prematuro», attirandosi la risposta del cardinale Parolin,
Segretario di Stato del Vaticano: «Prematuro riconoscere lo Stato di
Palestina? Per noi è la soluzione».
Ma già quando Trump aveva
colpito con sanzioni la corte Penale Internazionale, rea di aver emesso un
mandato di cattura nei confronti di Netanyahu e del suo ministro della guerra,
per «crimini contro l’umanità», il governo italiano era stato l’unico di quelli
dell’Europa occidentale a rifiutare di firmare un lettera di protesta e di
solidarietà alla Corte.
È difficile, davanti a
questa storia, di cui la vicenda dei dazi è solo l’ultimo atto, evitare
l’impressione che Giorgia Meloni rifiuti di prendere atto che l’Occidente non
esiste più, dopo la svolta di Trump, e che la sua ostinata volontà di
rilanciarlo si risolve in concreto in un appoggio incondizionato alla folle
volontà di potenza del presidente degli Stati Uniti.
Da qui i continui moniti
ad evitare una spaccatura tra le due sponde dell’Atlantico che è già avvenuta
per scelta di quest’ultimo, e, nel caso dei dazio, a non provocare una guerra
commerciale che in realtà era già in corso, scatenata dall’altra parte.
Da qui anche la
condivisione della complicità di Trump nel genocidio perpetrato a Gaza (ma
anche in Cisgiordania) da Netanyahu e il mantenimento, nei fatti, dell’appoggio
a Israele, pur mascherandolo con qualche frase di disapprovazione ufficiale per
placare il malessere dell’opinione pubblica italiana.
Ma, con buona pace del
direttore di «Libero», l’Occidente non è l’America di Trump e tanto meno
l’Israele di Netanyahu. E la sola speranza di ridare vita alla sua
migliore tradizione è di non dimenticare mai che essa è fondata su valori
antitetici a quelli della violenza e della sopraffazione, di cui questi tristi
personaggi sono l’incarnazione.
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