PSEUDONIMO
DI GESU’
-Vangelo: Luca 10,25-37 -
Commento di Don Augusto Fontana
Si
chiama “reato di omissione di soccorso” quello del sacerdote e del levita che
transitano fischiettando accanto all’uomo colpito dai rapinatori. Reato diffuso
oggi sui cigli delle strade da criminali che feriscono o uccidono e tirano
dritto; reato che assume proporzioni intollerabili quando non si compie on
the road ma nella mia e, forse, tua coscienza. Lì abbiamo steso una
pellicola impermeabile ad ogni notizia che riguarda la carne ferita di uomo,
donna, vecchio, bambino, carne della nostra carne. Il samaritano della parabola
fu, tutto sommato, fortunato: incontra un ferito una volta nella vita ed è, per
questo, santificato da Gesù nel suo vangelo per i secoli dei secoli. Ma noi,
ogni giorno vediamo, sappiamo, conosciamo carni maciullate, schiave esposte,
bimbi violati di sesso o di armi o di lavoro. Siamo all’assuefazione, alla
indifferenza inescusabile ma inevitabile. Don Milani difendeva il “principio
della cura” (I care = mi preoccupo) contro quella qualunquistica
indifferenza di ieri che oggi ha infettato anche me. E mi chiedo come fa Dio,
il Signore, a non diventare un po’ assuefatto pure lui che da quel giorno sul
monte Oreb continua a guardare, ascoltare e scendere
per liberare: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho
udito il suo grido; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo
dalla mano dell’Egitto» (Es. 3,7-8). Non sempre ne vedo chiaramente
gli esiti e Lo attendo al varco nell’invocazione: «Signore, mio padre tu sei
e campione della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell’angoscia, nel
tempo dello sconforto e della desolazione» (Siracide 51, 10).
Padre Antonio Izquierdo scrisse, con una felice intuizione, che «il buon
samaritano è lo pseudonimo di Gesù».
I Padri della Chiesa (Ambrogio, Agostino, Gerolamo e altri) tenendo conto di
tutto il simbolismo di Gerusalemme, la città santa della salvezza, interpretano
in modo particolare questa parabola. Nell’uomo che scende da Gerusalemme verso
Gerico vedono la figura di Adamo ribelle che rappresenta tutta l’umanità
espulsa dall’Eden, la Gerusalemme Celeste. Nei briganti che assalgono l’uomo,
vedono il tentatore che ci spoglia dall’amicizia con Dio. Nella figura del
sacerdote e del levita vedono l’insufficienza dell’antica Legge per la nostra
salvezza che sarà portata a compimento dal nostro Buon Samaritano, Gesù Cristo,
che partendo anche lui dalla Gerusalemme celeste ci cura con l’olio della
consolazione e il vino dello Spirito e della speranza. Nella locanda i Padri
vedono l’immagine della Chiesa e nella figura dell’albergatore intravedono i
fratelli nelle mani dei quali Gesù affida la cura dei con-fratelli. La partenza
del samaritano dall’albergo, i Padri la interpretano come la risurrezione e
l’ascensione di Gesù che promette di ritornare per dare a ciascuno il suo
merito. Alla chiesa Gesù lascia per la nostra salvezza i due denari: la Sacra
Scrittura e i Sacramenti. Questa interpretazione allegorica e mistica del testo
ci aiuta a cogliere bene il messaggio di questa parabola.
FARSI “PROSSIMO”.
«Credo che per leggere onestamente la parabola dobbiamo non tanto
identificarci con il protagonista positivo, ma comprendere che di noi fanno
parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono momenti di un
unico faticoso movimento verso una vera compassione»[1], arrivare non solo a “sentire
compassione”, ma a “fare la compassione” (S.Gerolamo traduce “fecit
misericordiam” = fece la compassione).
Un uomo incappò nei ladroni
Gesù ambienta la parabola in questa strada tra Gerusalemme e Gerico, nota
per le sue insidie. Quest’uomo è ognuno di noi camminatori imprudenti su
sentieri che conducono lontano dall’Eden. «Fammi conoscere, Signore, le tue
vie, insegnami i tuoi sentieri… Tutti i sentieri del Signore sono verità e
grazia per chi osserva il suo patto e i suoi precetti» (Salmo 24, 4. 10).
Questa strada si presta a interpretare bene anche la nostra situazione di
discepoli: “Ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10, 3);
“Vegliate e pregate per non cadere in tentazione” (Lc 22, 46).
Un sacerdote vedendolo passò dall’altra parte
Il primo personaggio che transita è un professionista della religione,
conosce la legge di Dio, guida la preghiera, passa il suo tempo in chiesa,
quindi si trova per caso sulla via della sofferenza dell’uomo ma, appena la
sbircia, gira alla larga. L’essere accanto all’uomo che soffre, non fa parte
dei suoi programmi e doveri: egli deve interessarsi delle cose di Dio. E Gesù
lo ripudia come eterno rappresentante dell’indifferenza del cuore. Se non
sapessimo che questa parabola risale a Gesù la diremmo nata dalla mente
dissacratrice di un nemico della religione, un’invenzione sacrilega di un
anticlericale denigratore di preti. Ma siccome è Gesù a parlare ci mettiamo in
ascolto di una profezia che vuole colpire liturgie e pratiche religiose avulse
dalla carità e dalla vita: «Smettete di presentare offerte inutili,
l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso
sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto,
sono per me un peso; sono stanco di sopportarli» (Isaia 1,13-14).
Anch’io devo passare dall’orto-dossia (“hai risposto bene [in greco
= orthôs]”) alla orto-prassi (“fai questo e vivrai”).
Un levita
Il secondo personaggio è un funzionario che “arriva sul posto” e
anche lui “passa dall’altra parte”. Tutti e due “passano dall’altro
lato” con un gesto non solo di indifferenza, ma di esplicito scostamento. È
diverso dal Gesù-samaritano che arriva “vicino a lui” (prossimo).
Il levita è il tipo di tutti coloro che, nella Chiesa o nella parrocchia, sono
sempre ai loro posti, notai di Istituzioni, di Leggi, di Immobili e di
Tradizioni secolari e sanno distinguere bene le eccellenze, le eminenze e i
monsignori, le Rubriche rituali e i paragrafi dei Codici.
Un samaritano era in viaggio…
Il terzo personaggio è Gesù, questo “extracomunitario samaritano” che si
avvicina: «questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel
tuo cuore, perché tu la metta in pratica» e io non possa accampare scuse
dicendo che Dio è irraggiungibile. L’Incarnazione è un Dio che anziché
chiudersi in se stesso in maniera narcisistica e oziosa sceglie di aprirsi
all’esterno. E’ ciò che i Padri antichi della chiesa hanno sintetizzato con
l’idea della “con-discendenza” (syn-katàbasis), cioè il suo
essere-per-l’uomo. Il teologo Chenu, in periodo di Concilio Vaticano II,
chiamava questa modalità dell’agire di Dio, “legge dell’estroversione“[2]. Il Concilio Vaticano II nella “Gaudium
et spes” scrive: “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo
modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza
d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo … egli si è
fatto veramente uno di noi” (GS n. 10). E’ per questo motivo che “chiunque
segue Gesù Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo” (GS n. 41).
Il Gesù-samaritano sembra non gradire certi riti che privilegiano più il
salotto che la strada, più le pantofole che gli scarponi da viaggio, più la
vestaglia da camera che il bastone del pellegrino.
…passandogli accanto…
Altre volte questo “passare accanto” di Gesù ha scatenato campi
magnetici tonificanti: Mat. 20, 30 «Ed ecco che due ciechi, seduti lungo la
strada, sentendo che passava, si misero a gridare: «Signore,
abbi pietà di noi, figlio di Davide!»; Mc 1,16 «Passando lungo
il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre
gettavano le reti in mare…»; Mc 2,14 «Nel passare, vide Levi,
il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse:
«Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì»; Lc 19,4 «Allora Zaccheo
corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva
passare di là».
Lo vide.
Anche il “vedere” è una qualità di Dio e un suo dono. Non per niente
Gesù guarisce parecchi ciechi. Ci vogliono occhi per vedere i poveri. “La
povertà non è solo quella del denaro, ma anche della mancanza di salute, la
solitudine affettiva, l’insuccesso professionale, la disoccupazione … gli
handicap fisici e mentali, le sventure familiari e tutte le frustrazioni che
provengono dall’incapacità di integrarsi nel gruppo umano più prossimo”
(Paolo VI).
Sono i drop-out: i “caduti fuori” dal circuito, i caduti in
disgrazia. Per loro il Gesù-samaritano ripete il rito del Padre misericordioso:
«Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse
incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15,20).
Ne ebbe compassione.
Significa sentirsi provati emotivamente nell’indignazione e nella
compassione materna, guardare la storia e la geografia dall’angolo dei poveri.
Uno dei termini con cui l’A.T. indica la misericordia è rahamim,
che propriamente designa le “viscere materne” ed è usato per esprimere quel
sentimento intimo, profondo e amoroso che lega due esseri per ragioni di sangue
o di cuore. Is 49,15: “Forse che la donna si dimentica del suo bambino,
cessa di avere compassione del figlio delle sue viscere? Anche se esse
(viscere) si dimenticassero, io non ti dimenticherò”.
Lettera
enciclica “Fratelli tutti”.
Papa
Francesco ha dedicato tutto il capitolo secondo della “Fratelli tutti” alla
rilettura e attualizzazione di questa Parabola.
[1] Eucaristia
e parola, a cura della comunità di Bose, Ed. V&P.
[2] Chenu M.D., “Pour une anthropologie
sacramentelle”, in La Maison Dieu 119 (1974) 86.
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