Un articolo di Vito Mancuso su "La Stampa" ha aperto il dibattito. L'ebraismo è una tradizione vivente e non può essere ridotto a citazioni di singoli versetti.
Aberrante la categoria
di nazi-sionismo
Domenica
scorsa, sulla Stampa, Vito Mancuso ha scritto un lungo articolo che, prendendo
a pretesto il dramma di Gaza e l’angosciante guerra tra Israele e Hamas, sembra
voler impartire una lezione teologica sull’essenza dell’ebraismo e sul sionismo.
Quest’ultimo è fenomeno storico complesso, ad un tempo culturale e
sociale oltre che religioso e politico, e non può essere liquidato con
l’aberrante categoria di “nazi-sionismo”, sdoganata anche in alcune
manifestazioni pro-Pal senza reticenze o il benché minimo senso critico. Ma non
varrebbe la pena indignarsi per giudizi personali, seppur usati con estrema
irresponsabilità pubblica, se l’articolo non argomentasse che le radici del
«nazi-sionismo con la kippà» si trovano in testi sacri come il Deuteronomio
(quinto libro del Pentateuco, che fa parte della Bibbia cristiana, oltre che
della Torà) e nella stessa religione ebraica.
Associare
o equiparare il sionismo al nazismo è una perversione storica, dettata da puro
accanimento ideologico. Si possono legittimamente criticare
le politiche militari e le strategie belliche dell’attuale governo israeliano,
e persino stigmatizzare parole e azioni di alcuni suoi ministri, ma non si può
ascrivere alla “religione ebraica” la logica di quelle politiche. Tanto meno
l’attualità del conflitto mediorientale giustifica una rappresentazione
dell’ebraismo piegata, oltre l’oggettività storica e senza riguardi per la sua
enorme multiformità, all’ossessione di trovare nei testi sacri ebraici il male
che si intende stigmatizzare o il bene che si presume di difendere. È
contrario a ogni approccio critico scindere l’ebraismo in due essenze, una
spirituale (supposta buona e accettabile) e una politica (ovviamente cattiva,
demoniaca sin dall’origine). Chi si muova in questo schema rischia di accusare
proprio la Bibbia, o almeno alcune sue pagine, di fomentare odio e razzismo.
Ma
qui si accusa la Bibbia, anzi la Torà, al fine di accusare chi l’ha ricevuta,
elaborata, tramandata e interpretata per secoli, e una siffatta impresa può
essere compiuta solo ricadendo nelle fragili contrapposizioni e nelle sterili
precomprensioni religiose di un passato che la cristianità si è da tempo
lasciata alle spalle. E come nell’ebraismo non esiste un’essenza
malvagia, non esiste neppure un’essenza opposta, angelicata e sigillata in una
purezza tanto spirituale quanto autistica. Lascia senza parole, poi, che si
voglia rintracciare quest’essenza buona in un coccio archeologico di tremila
anni fa, di cui riferisce Amos Oz in un suo libro e nel quale si perora la
causa di orfani e vedove (perorazione che, Torà a parte, è già nelle leggi del
codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C.).
L’ebraismo
in carne e ossa, non quello di un reperto antico che è pari a un fossile, si
trova in una continuità vivente di Bibbia e Mishnà, di Talmud e midrashim e
codici halakhici, illuminata dall’ininterrotta catena dei maestri di Israele.
Additare l’autentica fede ebraica nel coccio di cui parla Oz (non il mago, ma
lo scrittore), è assai simile a trovare il vero cristianesimo in un frammento
catacombale, ignorando i Vangeli e l’unità ermeneutica tra Tanakh e Nuovo
Testamento, censurando i padri e i dottori della Chiesa, i concili, i papi e i
vescovi, e il codice di diritto canonico. Un progetto di ristrutturazione
dell’esegesi e dell’ermeneutica della Bibbia, tesa a rimuovere versetti e
capitoli oggi ostici alla nostra comprensione, significa ripetere l’errore di
Marcione diciotto secoli dopo. Quella continuità porta i nomi, in ebraico, di
masorà e di qabbalà ossia di “tradizione”, la quale rende inseparabili
scrittura e oralità, fedeltà e innovazione, autorità del Testo e autorevolezza
dei maestri che lo devono continuamente reinterpretare. Chi ostracizza
i testi o ne propone radicali censure è spesso ignaro dei profondi percorsi di
studio e di analisi che li hanno resi “sacri” nel corso dei secoli, senza con
ciò divinizzarli.
Il
giudaismo non è mai stato una religione nel senso moderno-illuministico del
termine, e a ben vedere definirlo “religione” è assai improprio. Si tratta di
religione per analogia, non per sua natura. Israele è da sempre anzitutto un
‘am e una kehillà, un popolo-nazione-comunità, tale in forza della sua lingua,
di cultura e folklore, di una patria storica e anche, perché no?, di una
rigorosa prassi religiosa. Le molte lingue usate dagli ebrei e la loro
diaspora non hanno rimosso, semmai rafforzato la coscienza di essere nazione,
ben prima che in Europa questo concetto venisse stuprato dai nazionalismi
esasperati tra Otto e Novecento. Inoltre, il rapporto del mondo ebraico con
i propri testi sacri non è di tipo fanatico o idolatrico, perché essi non sono
presi alla lettera.
Nessuna
halakhà o normativa ebraica è mera applicazione della Torà scritta. È
invece tipico di una mentalità fondamentalista pensare che le scelte politiche
dell’attuale governo israeliano derivino da qualche versetto del Deuteronomio
(estrapolato dal contesto e dai commenti rabbinici che lo spiegano). Usare le
Scritture ebraiche (Torà e Talmud in particolare) per delegittimare la fedeltà
degli ebrei alla loro identità, per disprezzarne la fede e convincerli che il
vero ebraismo è altra cosa da quel che praticano e credono, ecco il tratto
peculiare della lunga storia dell’antigiudaismo a matrice religiosa, per il
quale gli unici ebrei buoni erano quelli che smettevano di essere tali e si
convertivano alla fede cristiana.
Infine, lo schema di un Israele spirituale versus un Israele politico (non si diceva “carnale”?) non evoca tanto una dialettica paolina, assai meno antiebraica di quel che comunemente si pensi, quanto tradisce un dualismo di tipo gnostico, a cui in vero ripugnano le idee stesse di rivelazione, di presa in carica del governo del mondo, di terra promessa e persino, se mi si permette, di “resurrezione della carne”.
La gnosi di certi teologi è agli antipodi
sia della tradizione ebraica sia della fede cristiana e ha presupposti manichei
che la rendono del tutto incapace di comprendere non solo l’ebraismo ma anche
l’agone della storia e le odierne sofferenze dei popoli in conflitto.
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