Parla la religiosa, docente di economia e segretario del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. "È una delle parole chiave per una economia basata sulla condivisione"
La fecondità della dimensione sociale della gratitudine è al
centro della riflessione che in questa conversazione offre suor Alessandra
Smerilli, salesiana, docente di Economia politica alla Pontificia Facoltà di
Scienze dell’educazione Auxilium e Segretario del Dicastero per il Servizio
dello sviluppo umano integrale.
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Intervista di Cristina Uguccioni
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La gratitudine ha dimensione sociale e fecondità sociale: come le
descriverebbe?
Credo ci siano molte implicazioni pubbliche della gratitudine. Sottolineo
un aspetto che è ogni giorno alla portata di tutti. Anzitutto le persone grate
determinano una atmosfera, creano attorno a sé un senso di fiducia e di
benessere grazie al quale è più facile che anche altri passino dal lamento e
dalla sfiducia a un atteggiamento costruttivo. Questo perché le persone grate
fanno sentire importante chi hanno di fronte, sono portate a sintonizzarsi sul
meglio che è negli altri e a chiamarlo in gioco. La loro capacità di
concentrarsi sulla crescita e la loro natura altruistica creano spazio per far
fiorire gli altri. Sono persone umili, perché la gratitudine le porta a
riconoscere il debito che le lega ai doni altrui. Ma “umile” rimanda all’humus,
alla fertilità della terra che ogni ambiente umano può diventare. Chiaramente,
“fertile” può farci pensare anche alle conseguenze economiche e sociali di
una convivenza segnata da queste attenzioni, dal saper dire grazie. In effetti,
se una comunità ha forte consapevolezza di ciò che uno deve all’altro e di come
le sfide si vincono insieme, la sua crescita è più dinamica e felice rispetto
alla situazione in cui si combatte tutti contro tutti.
In che modo la gratitudine può dare forma all’economia?
Già Adam Smith, padre fondatore della Scienza Economica, nel suo libro ‘La
teoria dei sentimenti morali’ sostiene che la gratitudine giochi un ruolo
vitale nel rendere il mondo un posto migliore in cui vivere. Benedetto XVI ha
dedicato la Caritas in Veritate a mostrare come la gratuità,
la logica del dono, non sia un di più, ma un aspetto fondante la dinamica
economica. È un aspetto che le teorie economiche classiche hanno ampiamente
sottovalutato e che la Chiesa ha contributo e sta contribuendo a portare in
evidenza: protagonisti dell’economia sono gli esseri umani che, nonostante il
peccato, non sono per natura irrimediabilmente egoisti e votati all’interesse
proprio. I loro scambi, i loro progetti, le soluzioni che costruiscono per far
fronte alla vita di ogni giorno, hanno in sé una continua vocazione al bene
dell’incontro e della cooperazione. In questo ambito, la parola gratitudine può
assumere la sfumatura della restituzione: a un territorio, alle generazioni
successive, a coloro cui si deve la propria crescita. Gratitudine e
restituzione implicano anche il superamento di quelle disuguaglianze che si
devono alla storia e allo sfruttamento degli uni sugli altri. Noi dobbiamo ai
poveri giustizia: questo è un aspetto drammaticamente attuale e poco riconosciuto
della gratitudine. L’economia civile e altre ricerche – cattoliche e non –
di nuovi modelli di sviluppo vorrebbero manifestare più chiaramente come uno
sguardo grato alla vita debba generare un’economia del dono, mostrando che si
tratta di un’economia non di decrescita, ma di una crescita a più alta
intensità: più inclusiva, più ecologica, più integrale.
Una delle parole chiave di The Economy of Francesco (EoF) è proprio
gratitudine: questo processo/movimento, nato cinque anni fa, sta cominciando ad
avere rilevanza sul piano internazionale?
Sì, sta iniziando ad avere rilevanza internazionale, ma è ancora un
movimento in fase di sviluppo e di crescita. La gratitudine è una delle
parole chiave che guida i giovani coinvolti, i quali promuovono
un’economia basata sulla condivisione, la solidarietà e il rispetto
dell’ambiente. Molti giovani imprenditori, economisti e attivisti stanno aderendo
a questo movimento e contribuendo a diffondere i suoi principi e valori in
tutto il mondo. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare per trasformare
realmente il sistema economico attuale e portare avanti un’economia più equa e
sostenibile. La gratitudine è uno dei punti di forza dell’EoF che i giovani
possono capitalizzare per raggiungere questo obiettivo.
Come accompagnare e sostenere le giovani generazioni alle prese, in
Occidente, con un clima culturale dominato dall’individualismo e
dall’imperativo dell’autosufficienza?
Le giovani generazioni stanno educando oggi quelle più adulte a uno sguardo
meno individualistico di quello che ha trionfato negli scorsi decenni. Sono le
vittime di una ubriacatura di cui, a volte in forme incerte e scomposte, altre
volte in forme silenziose e sofferte, patiscono le conseguenze e desiderano il
superamento. I giovani in Occidente sono pochi, poco ascoltati, spesso accusati
da chi ha costruito attorno a loro un mondo respingente e giudicante. Il loro
desiderio di cambiamento è radicato, profondo. La nostra responsabilità è
quella di vedere nelle loro incertezze e nei loro bisogni una chiamata alla
conversione, così da offrire testimonianze credibili e da sostenere con risorse
materiali e spirituali i loro sogni.
In Occidente stiamo assistendo a una crescente burocratizzazione dei
rapporti sociali e dunque anche dei rapporti di lavoro; una burocratizzazione
che considera la gratitudine qualcosa di nobile ma di superfluo e ininfluente
per far funzionare il mondo del lavoro. Come si corregge questa visione che
marginalizza la gratitudine?
Riconoscenza ha la stessa radice di riconoscere: per dire grazie devo saper
vedere il dono. In economia, e in particolare nella gestione delle
organizzazioni, si è abituati a ragionare in termini di programmazione e
controllo: si fissano gli obiettivi e si controlla che essi siano raggiunti.
Poco spazio viene lasciato al dono, e quindi poco o nulla si fa per accorgersi
di quel dono. Trovo interessante la tesi di Norbert Alter: egli sostiene che
chi lavora all’interno delle organizzazioni ha bisogno di esprimersi come
persona nel proprio lavoro, di personalizzarlo, di donarsi, di andare oltre la
lettera del contratto. Le organizzazioni, che hanno tutto l’interesse a
ottenere molto dai dipendenti, organizzano sistemi di controllo che non sanno
riconoscere il dono, quindi non lo vedono. Per questo motivo non sono
riconoscenti e non lo apprezzano, rischiano di far demotivare i lavoratori
arrivando a impedire loro di donare. L’ingratitudine impedisce il dono, ecco la
tesi di Alter. Volendo ottenere molto dai dipendenti, il management rinuncia
alla risorsa più preziosa, la capacità di donare, che porta alla cooperazione e
tiene alte le motivazioni. La gratitudine quindi, oltre che collante sociale,
si può rivelare una forza enorme anche nella gestione delle organizzazioni:
essa, però, non può essere imposta. Ha bisogno di occhi che sappiano
riconoscere il dono, quel dono volontario e spontaneo che in qualche modo è
anche la personalizzazione del lavoro che si fa. È anche questo il motivo per
cui diciamo grazie al barista e non al distributore automatico del caffè: nel
lavoro del barista c’è un’espressione di sé, unica e legata al suo modo di
essere e di esprimersi. Ed è su questa linea che possiamo immaginare la
gratitudine insieme a un buon contratto e non in sostituzione di esso. La
riconoscenza verso il dono-gratuità non è in opposizione al denaro, ma le due
cose possono stare insieme: anche un aumento di stipendio può essere una forma
di gratitudine, se è conseguente al riconoscimento del dono.
A chi desidera rivolgere parole di ringraziamento?
Il primo pensiero va a coloro che mi hanno donato la vita e trasmesso una
fede radicata nella semplicità della terra e della vita quotidiana. Si tratta
dei miei genitori e di quelle persone a cui sono legate la mia infanzia e la
mia adolescenza in Abruzzo. Desidero ringraziare anche chi, in oratorio,
ha allargato la mia esperienza di fiducia e di casa, nell’amorevolezza del
metodo educativo salesiano. Sono poi grata a coloro che mi hanno chiesto dei
passi, a volte delle vere e proprie obbedienze, che hanno plasmato il cammino
della mia vita adulta. La vita religiosa, in questo, credo sia per tutti una
provocazione, l’invito a pensare che l’adulto non è principalmente chi si fa da
sé, ma chi accoglie volentieri – creativamente e attivamente – anche le circostanze
che non avrebbe pensato adatte a sé: da sola non avrei scelto di studiare
Economia, ma poi mi sono accorta di quanto preziosa è stata l’intuizione delle
mie formatrici. E da sola non avrei pensato alla Curia Romana come a un
luogo di cura e di incontro.
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