Nell’arte del progettare entrano in gioco la visione, l'etica, il desiderio, la competenza, la condivisione, la memoria, la lungimiranza, il coraggio, la lealtà, le relazioni, la comunità, la valorizzazione, l’impegno e la costanza, ma anche la passione, l’amore e l’entusiasmo, per essere (o volere essere) vivi e fecondi, visibili e credibili, non semplici viventi.
Autoreferenza, arroganza, nepotismo, tiepidezza, passiva consuetudine non favoriscono la progettualità e la fecondità. Danneggiano il 'bene comune', creano sterilità e false illusioni, non cammino e vita .
gp
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di Alessandro D’Avenia
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Viventi
o vivi?
Hanno
“tutto” per “essere viventi”, ma “poco” per “essere vivi”. Il combinato di
consumismo, nichilismo e individualismo (che chiamo CONIND, vera pandemia
esistenziale) di cui li abbiamo dotati paralizza il desiderio e quindi il
destino, rendendoli anzitempo apatici, impauriti o depressi. Ma il dolore è
anche la loro salvezza, perché il desiderio non può essere mai distrutto, è più
radicale della paura di non essere abbastanza: la spinta a nascere sempre di
più caratterizza gli umani, che sanno coniugare i verbi al futuro e sono
apparsi sulla Terra cominciando a seppellire i loro simili, convinti che
l’oltre, non la morte, ha l’ultima parola.
A ispirare quest’oltre è il desiderio: principio di umanizzazione e animazione della vita, che sin da bambini impariamo ad allenare o distruggere guardando quello che desiderano gli adulti. Lo diceva già due secoli fa Leopardi: “Sebbene spento nel mondo il grande e il bello, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia” (Zibaldone, agosto 1820). Sta a noi adulti nutrire il loro desiderio e non solo il loro stomaco, non scambiare la gioia(creare/amare) con il pienessere (consumare/usare).
La
felicità
La
felicità è scoprire ciò in cui ciascuno di noi è insostituibile e agire di
conseguenza. I ragazzi vengono immessi in un sistema culturale che invece
chiede a tutti la stessa cosa, e così a poco a poco il loro desiderio si
spegne, il loro destino evapora. Quando arriva maggio cerco di chiudere
programmi e verifiche, per dedicare le ultime settimane di scuola
all’esplorazione della loro vocazione attraverso esercizi, letture, test. La
maturità, esame che promuove il 99,8% dei ragazzi ed è quindi inutile, si
chiude con la paternalistica domanda di rito: “Dopo che vuoi fare?”. Questa
domanda, posta in corner e non sempre (in genere solo ai “bravi”), indica tutta
l’inadeguatezza di un sistema educativo in cui la vocazione di ciascuno, invece
di essere la prima, è l’ultima delle preoccupazioni. Dovrebbe essere “la”
domanda, la prima, appena seduti all’esame: “Perché sei venuto al mondo?”. Se
dopo 13 anni a scuola con adulti “educatori” non hai scoperto i tuoi talenti e
i tuoi limiti che cosa abbiamo fatto con te? Ti abbiamo educato o addestrato?
Fatto nascere o imbalsamato? Dove troverai mai il coraggio di vivere, anzi di
“essere vivo”, se non sai neanche che cosa “ti rende vivo”? La domanda a cui
questa generazione va allenata è questa: “Perché sei qui?” e non “Che cosa vuoi
fare?”.
Il
“perché?”
Il
“perché” è ciò che poi genera qualsiasi “che cosa” e “come”: chi sa il “perché”
può affrontare poi ogni “come” e “che cosa”. Per capirsi: il mio perché non è
fare l’insegnante, lo scrittore, il narratore, l’editorialista… questi sono
solo i “come” e “che cosa” di una più radicale vocazione, ciò che mi fa essere
vivo, il perché sono qui, che cosa posso essere e fare solo io, ciò che mi
consente ogni giorno di venire alla luce e al mondo: sono qui per aiutare gli
altri a trovare la propria vocazione attraverso la bellezza, risvegliare il
loro desiderio addormentato o scoprire quello ancora sconosciuto. Che poi
questo diventi “lavoro” (e quindi valore riconosciuto e retribuito) attraverso
una lezione, un articolo, un libro o un racconto teatrale, lo detta la
contingenza storica e le occasioni incontrate.
Il
desiderio
Il
desiderio è quel principio di ispirazione che libera dalla “bipolarità” di cui
è prigioniera questa generazione (e non solo): piacere (faccio solo quello che
mi va) e dovere (prima o poi sono costretto a far qualcosa). Oscillare tra
piacere e dovere significa avere rinunciato alla libertà, lasciar decidere
altro o altri, in balia di emozioni passeggere o costrizioni eterodirette. Per
questo poi l’arena per esistere un po’ di più diventano i social, vite
schermate utili a lenire il dolore di non essere nessuno, cioè di nessuno (solo
chi appartiene esiste, solo chi si riceve nelle relazioni buone poi si
avventura nella vita). Ma per fortuna la vita è generosa, e sempre qualcosa o
qualcuno risveglia l’ispirazione, il desiderio, che ha dentro sia il dovere (chiunque
ami qualcosa si impegna, costi quel che costi, per ciò che ama, altrimenti non
lo ama), sia il piacere, per la persona “ispirata” tutto diventa piacere, anche
la fatica, perché tutto punta a fare altra vita, creare e crearsi:
ricrearsi.
Maturare
un’arte di vivere
Ma
come può questa generazione maturare un’arte di vivere, senza prima averne
l’ispirazione: il desiderio o vocazione che dir si voglia? E come può farlo se
nessuno li aiuta a scovarla? Che me ne faccio di un ragazzo che sa chi è
Telemaco se poi non riesce ad essere Telemaco (nome che vuol dire “colui che
combatte da lontano”: per chi e cosa lotti tu “da lontano”, cioè fin da ora,
anche se non lo ottieni subito?) ma si limita ad essere Telefono (una vita
schermata)? E qui il tema diventa politico come segnalava sempre Leopardi:
“L’ardore giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta
entrava grandemente nella considerazione degli uomini di Stato. Questa materia
vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei
reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Eppure, esiste ed opera
senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto”.
La politica di cui parlo non è quella dei politicanti che spesso è solo farsa o retorica del potere, ma la cura operata da chiunque abbia affidate delle vite, un progetto da realizzare e non la gestione di risorse da esaurire (da quando le persone si chiamano “risorse umane” non possiamo che esser tutti esauriti: tutto comincia sempre dalle parole sbagliate). Manca un progetto educativo, una paideia che abbia a cuore i destini di ciascuno e quindi di tutti. La scuola continua a servirsi del lessico militare con cui è nata a fine Ottocento, quando serviva a mettere dietro una scrivania dei contadini: appello, file, classe… anziché aprirsi a quello della bottega (maestro, movimento, stile…). Non basta più un sistema che punta ancora a “intruppare” anziché a “individuare”, nell’unico modo in cui ci si individua: all’interno di relazioni generative (sin da quando siamo bambini impariamo a dire “io” dopo aver detto “tu”) e trovando lo stile originale di ciascuno.
L’energia
Leopardi,
riferendosi ancora all’ardore giovanile continua così: “laddove anticamente era
una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa
materia così naturale e inestinguibile divenuta estranea alla macchina e
nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che
non si può sopire né impiegare in bene né impedire che non scoppi in temporali
e terremoti”. Gli era già tutto chiaro: i giovani rivolgono l’energia
inespressa del desiderio o contro gli altri o contro se stessi (chi non crea
de-crea, chi non genera de-genera): violenza, suicidi, dipendenze, patologie
alimentari, abulie o iperattivismo, depressioni… ne sono la crescente evidenza.
Questa fragilità è fragilità del desiderio oppresso o represso.
La
concretezza
Può
sembrare un quadro fosco, ma non lo è, perché lo riporta a una concretezza
possibile. Infatti, vedo fiorire o rinascere chi trova adulti disposti a
chiedere: “Perché sei venuto al mondo?”, adulti che ascoltano la risposta senza
imporre copioni, e rimangono a far la strada insieme, anzi magari la aprono. La
riposta dei giovani non è quasi mai: sono qui per comprare cose, fregarmene di
tutto e tutti, e divertirmi più che posso… queste sono solo fughe dal dolore
profondo del desiderio dimenticato e quindi del destino mancato. Non sono
ottimista, perché ritengo l’ottimismo l’ideologia paternalistica che parla dei
giovani (mai “con” i giovani) come “il futuro” senza poi fare nulla, ma sono
invece pieno di speranza, che è azione concreta rivolta a ciò che ho per le
mani.
Il
futuro
Un
giovane non è il futuro, ma ha il futuro in sé, solo se impara a dargli un
nome, il proprio: ciò che solo lui può essere e fare, scoprendo che i talenti
che ha non gli appartengono ma sono già del mondo che li sta aspettando, la sua
unicità è per la comunità. Solo così scopre che è necessario al mondo, proprio
facendo venire al mondo quello per cui è fatto, e si tira fuori dall’anonimato
nichilista, consumista e individualista, diventa “vivo” non solo lui ma tutto
attorno a lui.
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