venerdì 7 novembre 2025

LA DIMORA DI DIO

E' L'UOMO VIVENTE


Vangelo: Gv-2-13-22/

 Commento di Paolo Squizzato

Il Vangelo di questa domenica prosegue, nel vangelo di Giovanni, l’episodio delle nozze di Cana, racconto simbolico che ci ricorda come ciò che chiamiamo Dio non abiti nei cieli, ma là dove l’uomo si lascia amare e ama: è lì che comincia la festa.

Ora, immediatamente dopo ‘la festa’, Giovanni ci conduce nel luogo della religione, dove si respira potere, performance, frustrazione e in ultima analisi, tristezza. Da una parte la fede – partecipazione senza prestazione alla vita divina che ci attraversa – dall’altra la fatica del merito e del mercato. Sono le due possibilità di vivere la propria vita da credenti. A noi la scelta.

Nella storia, salvo rare eccezioni, ha prevalso un mondo “religioso” che ha scelto il controllo invece della fiducia, la dottrina al posto della vita, la fatica di conquistare il cielo attraverso meriti e sacrifici, dimenticando che quel cielo ci abitava da sempre. Ma non lo si è voluto credere, perché troppo bello per sembrare vero. In fin dei conti – lo sappiamo – la religione è sempre amministrazione del divino: è lei ad attestare chi può entrare, chi ne è escluso, quali norme osservare per meritare il favore di un dio.

Ma Gesù è rimasto a Cana, alla festa, ossia in quella postura umana chiamata fede per cui l’imperativo è dono: non ciò che l’uomo deve ad un dio, ma ciò che l’Amore desidera donargli. Per questo non può accettare il tempio trasformato in luogo di commercio, dove tutto si risolve nel becero do-ut-des, io essere umano do qualcosa a te dio altissimo affinché tu possa ricambiarmi in salute, sicurezza e protezione. Per questo Gesù ha distrutto – in maniera definitiva sulla croce – l’immagine del dio commerciante, convinto com’era che quella fosse la vera idolatria religiosa da sconfiggere.

Giovanni colloca questo gesto in prossimità della Pasqua — “dei Giudei”, precisa — quasi a dire: questa è ancora una pasqua imperfetta, una liberazione solo rituale. Migliaia in quei giorni salivano al tempio portando agnelli, denaro, e compiendo sacrifici. Un culto che odorava di sangue e fatica. La Pasqua autentica si sarebbe compiuta da lì a poco: sul legno della croce si aprirà la nuova geografia del divino: non più verso l’alto, ma verso l’interno.

Da allora, la dimora di Dio è l’uomo vivente, come intuiva Ireneo; anzi potremmo dire “Dio” non è altro che la profondità stessa della vita che si dona, il cuore pulsante di ogni essere che ama. È qui la vera liberazione: non dal peccato morale, ma dalla paura di non essere amabili.

È bello costatare come il Vangelo di Giovanni non inizi con un dogma, ma con una demolizione: quella del falso dio.

Solo chi lascia cadere il dio del dovere potrà incontrare il Dio dell’essere. Solo chi smette di trattare con il Cielo come con un commerciante potrà accorgersi che il Cielo è già dentro di sé, come un respiro che non chiede nulla, se non di essere accolto.

E allora, forse, comprendiamo che la fede non è un atto religioso, ma semplicemente un atto umano.
Non si tratta di credere in dio, ma di credere come Dio: con la stessa fiducia, la stessa gratuità, la stessa capacità di amare senza misura. Questo è il vero tempio, questo il vino nuovo che continua a colmare le anfore del mondo, e fare di ogni quotidiano una Cana dove si vive la festa.

Cercoiltuovolto

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OMBRE SULLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA


 L’esplodere del caso Almasri cade all’indomani della definitiva approvazione della riforma della giustizia e getta un’ombra inquietante sul rapporto del nostro governo con le leggi – in questo caso quelle internazionali – e con la magistratura.

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di Giuseppe Savagnone  

 Una vicenda inquietante

Fin dall’inizio, infatti, la vicenda del torturatore libico ha evidenziato l’intento dell’esecutivo di eludere le prime e di attaccare la seconda.

A cominciare dal video in cui Giorgia Meloni – rivolgendosi ai suoi sostenitori invece che riferire in parlamento – dopo aver dichiarato che la responsabilità del sorprendente rimpatrio di un criminale era tutta dei giudici della Corte, aveva  accusato quelli italiani di perseguitarla: «La richiesta di arresto della Corte Penale Internazionale», aveva affermato con la consueta grinta –  «non è stata trasmessa al Ministero italiano della Giustizia, come invece è previsto dalla legge, e per questo la Corte d’Appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida. A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, piuttosto che lasciarlo libero noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente per ragioni di sicurezza con un volo apposito come accade in altri casi analoghi. Questa è la ragione per la quale la procura di Roma oggi indaga me, il sottosegretario Mantovano e due ministri».

Una tesi fatta propria con forza per giorni dal governo e dai giornali di destra, ma clamorosamente smentita dallo stesso Nordio, chiamato a riferire in Parlamento e costretto ad ammettere che la richiesta di arresto era in effetti stata consegnata, ma, essendo scritta in inglese, c’erano stati problemi nella lettura.

Quanto alla motivazione della premier per spiegare il rimpatrio di Almasri – la sua pericolosità – l’ovvia obiezione è stata che proprio per questo sarebbe stato più logico tenerlo in prigione piuttosto rimandarlo in Libia, la roccaforte dove era al sicuro e dove ha potuto continuare a consumare i suoi crimini.  

Alla fine di una serie di bugie e di scaricabarile, è venuta finalmente la dichiarazione che alla base della decisione c’era stata la ragion di Stato.  Ammettendo così i legami, creati dal nostro governo e anche recentemente riaffermati, con la fazione libica di cui Almasri è un importante esponente, per bloccare il flusso dei migranti. Col risultato che, ora che questa fazione è stata messa in minoranza, e Almasri è stato arrestato, la Libia risulta paradossalmente più rispettosa dell’Italia nei confronti del diritto internazionale e della Corte che lo tutela.

La riforma della giustizia fra tecnica e politica

Non è un episodio incoraggiante in un contesto in cui, da parte del governo e della maggioranza, si continua a ripetere che la riforma della giustizia – in realtà riforma della magistratura – costituisce, come hanno detto la premier e il ministro Nordio, «un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai cittadini» e rappresenta  «un traguardo storico (…)  a favore degli italiani»,  e non «una legge punitiva contro la magistratura».

Da qui il moltiplicarsi delle raccomandazioni perché il referendum che dovrà decidere della sua conferma o meno non venga affrontato in una prospettiva politica, ma solo guardando al contenuto tecnico del testo approvato dal parlamento

«Il prossimo step sarà il referendum», ha detto il ministro della Giustizia. «Mi auguro che venga mantenuto in termini pacati, razionali e non politicizzati».  Perciò, ha aggiunto, «è bene che la magistratura, come io auspico, esponga tutte le sue ragioni tecniche ma per l’amor del cielo non si aggreghi a forze politiche per farne una specie di referendum pro o contro il governo».

A favore della riforma

In realtà, ci sono argomenti giuridici che possono giustificare la separazione delle carriere. Essa è la logica conseguenza del passaggio, con la riforma del codice di procedura penale del 1989, dal sistema inquisitorio del processo a quello accusatorio. Quest’ultimo, infatti, è basato sul principio dialettico secondo cui la verità può essere accertata dando spazio alla discussione tra parti – il pubblico ministero e l’avvocato – in una posizione di parità dialettica.

In questa logica la figura del pubblico ministero e quella del giudice si diversificano nettamente e non prenderne atto rende plausibili i timori di chi  imputa all’attuale processo di essere ancora sbilanciato a favore dell’accusa – di fatto ancora troppo legata al giudice – rispetto alla difesa. Da qui anche il pericolo di errori giudiziari a danno di innocenti, di cui purtroppo non mancano esempi anche clamorosi, come il caso di Enzo Tortora.

Oltre a introdurre la separazione della carriere e la conseguente creazione di due distinti Consigli superiori della magistratura, la riforma prevede anche l’introduzione del sorteggio come sistema per la scelta sia dei rappresentanti “togati” che di quelli “laici”, provenienti cioè dalla politica.

Anche qui ci sono motivazioni che possono essere riconosciute senz’altro ragionevoli, in particolare la necessità di ridimensionare il ruolo delle correnti in cui attualmente si distribuiscono i membri della magistratura, dopo le rivelazioni, emerse nel corso del caso Palamara, circa il ruolo che l’appartenenza ad esse ha finora avuto nell’assegnazione di cariche di prestigio nei tribunali.

Da qui, l’opportunità di impedire che, grazie a un sistema elettorale basato sui giochi delle correnti, accedano ai due nuovi CSM persone che poi, per restituire il favore ricevuto, distribuiscano incarichi ai loro sostenitori. L’introduzione del sistema del sorteggio mira a vanificare il peso che le correnti hanno già alla base, annullando il loro ruolo nella scelta dei membri dei due CSM e di conseguenza anche all’interno di essi.

È su questi punti che molti giuristi, al di là degli schieramenti politici, insistono  nell’esprimere il loro favore alla riforma.

Tuttavia…

L’ermeneutica ci ha insegnato, tuttavia, che un testo va letto nel suo contesto. È così anche di quello della legge di riforma, che non è caduto dal cielo, ma si colloca all’interno di un dibattito politico su cui non è possibile chiudere gli occhi.

E il caso Almasri rientra in questo contesto, perché evidenzia, al di là delle assicurazioni, un atteggiamento vittimistico persistente, da parte della nostra premier, nei confronti dei magistrati sia stranieri che, soprattutto italiani, volto a mascherare le reali responsabilità del governo nei confronti del principio di legalità. 

Un vittimismo ereditato, del resto, dal personaggio – Silvio Berlusconi – che rappresenta in qualche modo l’ispiratore e il nume tutelare non solo di Forza Italia (che ne mantiene il nome nel suo simbolo elettorale), ma di tutta la maggioranza,

E al cavaliere, nella sua vita « bloccato da una magistratura ideologizzata», come ha detto la sua compagna Marta Fascina, è stata dedicata questa riforma da tutte le forze di governo. 

Paradossale che, al tempo stesso, si sia potuto sostenere –  come ha fatto il vicepremier Tajani, celebrandola come «un momento storico, una vittoria epocale, politica e morale», con cui «si realizza il grande sogno di Berlusconi». – che essa «non ha nulla a che vedere con le interpretazioni malevole fatte, perché nessuno vuole attaccare la magistratura». 

Ora, senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, nessuno può mettere in dubbio che una riforma fatta in nome di Berlusconi vada “contro” quei giudici che il cavaliere ha sempre accusato di essere  «comunisti» o,  in alternativa malati di mente: «Questi giudici», affermava nel 2003, nella sua veste di presidente del Consiglio, «sono doppiamente matti. Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».

Non stupisce, perciò, che, il quotidiano più vicino a Meloni, «Libero», diretto dal suo ex portavoce Mario Sechi, abbi sintetizzato il senso della nuova legge col titolo «Vince Giorgia, brinda Silvio» e una vignetta in cui è rappresentato  Berlusconi pesantemente assiso – schiacciandolo sotto di sé – su un palazzo di giustizia, mentre, in tenuta da veglione di capodanno, brinda esultante.  

La posta in gioco

E sulla scia del cavaliere membri del governo e della maggioranza attuale, con toni sprezzanti, ripetutamente attaccano i giudici, cercando di delegittimarli accusandoli di travalicare per motivi ideologici le loro competenze. .

Proprio alla vigilia dell’approvazione definitiva della riforma, la premier l’ha indicata come «la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza» tornando poi sulla questione, dopo lo stop della Corte dei Conti al progetto del Ponte sullo Stretto, definendolo «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento».

L’idea che la magistratura, come del resto il governo e il parlamento, sia uno dei tre organi costituzionalmente rappresentativi dello Stato e meriti dunque rispetto non sembra neppure sfiorare la nostra presidente del Consiglio e i suoi ministri, molto sensibili, invece, agli attacchi nei confronti dell’esecutivo che, a loro avviso, infangano e danneggiano l’Italia.   

Vengono misconosciute, qui, la logica e le regole dello Stato liberal-democratico, che prevedono precisamente il diritto/dovere dell’organo giudicante di esercitare un controllo sulle attività degli altri due, sanzionandone le eventuali illegittimità.

È questo il senso della separazione dei poterei sancita dalla nostra Costituzione. Ed è questo il senso dell’autonomia di ogni organo rispetto agli altri. la magistratura non può dettare le linee politiche al governo. Ma quest’ultimo non può sindacare le sentenze dei giudici.

È stato detto più volte che per fermare l’azione di un governo e di un parlamento eletti con i voti dei cittadini i giudici dovrebbero a loro volta candidarsi e farsi eleggere. Dimenticando che è la nostra Costituzione ad aver posto un organo che non dipende dal consenso popolare, nella consapevolezza, che il potere assoluto del popolo ha sempre portato ai totalitarismi.

Le ragioni tecniche a favore della riforma non possono per questo essere dimenticate. Ma il clima in cui sono state fatte valere è chiaramente politico e non nel senso in cui questo termine indica il riferimento al bene comune, ma nell’accezione meno nobile, che identifica la politica con il gioco dei partiti.

In un quadro più sereno, si potrebbe pensare al modo di garantire la parità tra accusa e difesa, ma senza creare un corpo separato di pubblici ministeri consacrati univocamente all’accusa e a rischio, perciò, di diventare veramente un pericolo per la corretta amministrazione della giustizia.

Così come si dovrebbe studiare insieme il modo di evitare l’indebita ingerenza delle correnti nelle nomine degli alti magistrati, senza dover ricorrere a un sistema come quello del sorteggio, che mortifica la logica della rappresentanza, sottraendola alla scelta dei rappresentati e consegnandola al caso.

Questo dovrebbe accadere in un paese democratico. Adesso la parola va ai cittadini, nella speranza che essi siano più capaci di sviluppare un confronto più simile al dialogo di quello che si è svolto finora in parlamento. Ma deve essere chiaro che la posta in gioco non è il funzionamento della magistratura, ma la comprensione e il rispetto dello spirito della nostra Costituzione.

www.tuttavia.eu


 

PROFUMO DI FUTURO

 


Ottant’anni e un giorno che profuma di futuro.

Ieri non abbiamo solo spento delle candeline: abbiamo acceso fiammelle di speranza.


Davanti agli occhi emozionati di Papa Leone XIV simbolo di tutte le radici che ci hanno fatto crescere.


L’AIMC, stretta attorno alla sua presidente Esther Flocco, ha celebrato 80 anni di vita, di scuola, di cura, di presenza.


Ottant’anni di maestre e maestri che non insegnano soltanto, ma accolgono, ascoltano, seminano. E come ogni storia che non si accontenta del passato, ieri non si è guardato indietro: si è costruito un altro pezzo di domani.

 Perché ogni compleanno è un inizio travestito da traguardo.


È stata infatti l’occasione per aprire ufficialmente l’Anno Accademico della nuova Università LUMB, un sogno diventato struttura, visione diventata aula, grazie alla presenza del Rettore Giuseppe Desideri e alla lectio magistralis del professor Alfonso Giusti.


Una pagina che profuma di avventura, studio e futuro condiviso.

Tutto questo per dire che i sogni non si realizzano con le frasi ad effetto, ma con la pazienza dei mattoni, uno sopra l’altro, con mani che tremano di fatica ma non di paura. 

E ieri lo abbiamo sentito forte: quando ci si mette amore, si resta. Quando ci si mette cuore, si cresce. 

Quando si crede nel futuro, il futuro arriva.

AIMC, auguri.


Ottant’anni portati con la dolcezza di chi ha ancora molto da dare.

 Lunga vita a chi educa, a chi costruisce, a chi non smette di crederci.

E a noi, che c’eravamo, il compito di raccontarlo.


Perché certe giornate non finiscono: si tramandano.

#AIMC #80anni #LUMB #scuola #mestre #maestri #bambini #insieme

SCUOLA SENZA AMBIZIONI

 


Allarme di Crepet 

sulla scuola: 

"È evidente 

dove stiamo andando"

Paolo Crepet torna a lanciare un allarme sulla scuola legato 

all'uso dell'Intelligenza Artificiale:

 come rischia di diventare l'apprendimento

- di  Francesca Pasini

Il noto psichiatra e sociologo Paolo Crepet lancia un nuovo allarme sulla formazione scolastica: dalla mancanza di ambizioni all’uso massiccio dell’Intelligenza Artificiale, secondo l’esperto “è evidente dove stiamo andando”.

Osservatore attento dei cambiamenti che stanno attraversando la società contemporanea, lo studioso ha spiegato quale sarà il futuro della scuola, un ambiente che starebbe smettendo di avere ambizioni, minacciato dai repentini cambiamenti a cui stiamo assistendo.

Perché la scuola non ha più ambizioni per Crepet

Il mondo sta cambiando a una velocità incredibile. Basti pensare all’avvento dell’Intelligenza Artificiale che sta modificando tanti aspetti della nostra vita quotidiana, tra cui anche il modo di studiare e formarsi.

A denunciare un cambiamento tanto veloce e profondo è Crepet, che ha spiegato in un’intervista a La Stampa perché secondo lui la scuola non avrà più ambizioni: “Una certa cultura porta a perseguire un unico risultato, che è il fare tutto col minor sforzo possibile. La fatica e il sudore sono, per qualcuno, qualcosa di novecentesco, che non ha più senso fare”.

L’IA sarebbe la principale responsabile: si ottengono risultati scolastici con meno fatica, ma a scapito dell’apprendimento reale. È così che la scuola, “che era un luogo per definizione esigente, e che lo è sempre stata anche se è stata criticata per questo, non avrà più ambizioni”, secondo il sociologo e psichiatra.

Come diventerà la formazione secondo Crepet

La preoccupazione è chiara per Crepet, che in diverse occasioni ha messo in guardia circa le conseguenze negative e drammatiche dell’uso sconsiderato dell’IA, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani: “So cosa sta arrivando – ha messo in guardia -. Oggi metà degli studenti universitari americani si è laureata con l’Intelligenza Artificiale. È evidente dove stiamo andando”.

Ecco allora come si trasformerà l’apprendimento scolastico secondo l’esperto: “Diventerà su misura, sarà una chat che risponde ai tuoi requisiti, alle tue domande. E lo fa perché sa tutto di te“. Un tema che riguarda già molti adolescenti, che sempre più spesso, quando hanno problemi, li “confidano” a una chat per ottenere le risposte cercate, piuttosto che parlarne con altre persone, adulti o coetanei (una situazione che anche Prof Enrico Galiano ha denunciato). In questo modo, lo “sforzo di uscire e cercarsi degli amici correndo il rischio di essere rifiutati” si annulla.

Una dinamica preoccupante, che comprende anche il mondo dei social e della violenza che circola sul web, elementi che amplificano il rischio di isolamento e passività tra i giovani, alla quale si può cercare di porre rimedio attraverso la conoscenza e l’ascolto: “È fondamentale incontrare le persone e ascoltarle. Quando lo si fa, quello che si ascolta è sempre diverso da quello che pensiamo”, ha concluso lo psichiatra e saggista, che ha voluto anche incitare a riflettere sul rischio di diventare persone “replicanti, incapaci di esercitare il libero arbitrio”. Infatti, sarebbe attraverso il coraggio del pensiero che si può provare a costruire un futuro libero, creativo e non omologato.

EDUCAZIONE AMBIENTALE E COMPLESSITA' UMANA

 

Due facce

 della stessa medaglia


- di Federica Berton*

Le continue minacce all’equilibrio dell’ecosistema terrestre dovute a una brusca accelerazione della crescita tecnologica e economica hanno portato a riflettere sul fatto che l’uomo sembra aver perso uno stile di vita in stretta connessione con la natura. Per questo motivo occorre un’educazione ambientale capace di far assumere (non solo alle nuove generazioni) una diversa concezione dell’ambiente e dell’interazione in e con esso, richiamando alla responsabilità, che deve essere educata con il coinvolgimento di tutti.

L’educazione ambientale è un processo di riconoscimento dei valori, del rispetto nei confronti dell’alterità, siano essi piante, animali o persone, è un “sentimento della vita” capace di cogliere l’altro, di vederlo, di ascoltarlo, senza perdere di vista né l’io né il tu. Sentire la vita si specifica nella cooperazione e nella solidarietà tra i popoli, nell’impegno di affinare la sensibilità verso l’ambiente naturale. L’educazione ambientale non è “semplicemente” un curricolo da inserire nelle attività scolastiche, anche se sarebbe già un grande passo, ma è soprattutto una lezione di vita, sia fisica che spirituale, è un’occasione di cambiamento dei comportamenti verso la collettività.

La consapevolezza che nel nostro passato esisteva qualcuno che ci ha lasciato in eredità il suolo su cui poggiamo i piedi, su cui coltiviamo il nostro cibo, muove sentimenti di riconoscenza e responsabilità verso il futuro. Il senso di responsabilità non deve mai venire meno, per aver voglia di sentirsi parte di un tutto uniti nella fratellanza di condividere un mondo.

Il rispetto per l’ambiente dovrebbe essere stimato come un valore connesso con l’idea di formazione: questa visione anticipa il pensiero di salvaguardia e degrado e vuole suggerire di condurre a elaborare forme di fraternità “per essere nel mondo” e modelli di crescita ben diversi da quelli oggi dominanti nei confronti del pianeta. Considerare l’ambiente correlato con lo sviluppo umano e con i principi etici dell’agire in maniera prudente rappresenta una condizione imprescindibile per considerarci ospiti di questa Terra.

Attraverso i temi dell’educazione ambientale, alla sostenibilità e alla cittadinanza globale, è possibile stimolare nelle giovani generazioni la consapevolezza di esser parte di una comunità locale e globale. Nel 1762, J.J. Rousseau scriveva nel suo trattato, l’Emilio, l’importanza per il bambino di vivere secondo natura, ovvero di ricevere un’educazione naturale. Il giovane Emilio viene allontanato dalla città per trascorrere l’infanzia in campagna, a stretto contatto con l’ambiente naturale, e con un’educazione improntata sui bisogni più profondi ed essenziali del bambino e sul rispetto dei suoi ritmi di crescita.

Il bambino di Rousseau, quindi, vive con ritmi lenti apprendendo facendo esperienza di ciò che vede, tocca e sente. Per il padre fondatore della pedagogia contemporanea è imprescindibile il concetto secondo il quale l’apprendimento passa attraverso il fare concreto ma, osando attualizzare il pensiero ai giorni d’oggi, come peraltro faranno altri studiosi della materia, il contatto con la natura muove sentimenti legati al rispetto, sensibilità e giudizio. Ecco allora che, se è vero che l’uomo per sua stessa natura è anche un essere sociale, sentimenti quali rispetto e sensibilità appaiono indispensabili per vivere nella collettività.

La cooperazione tra i popoli, il rispetto per l’altro, la collaborazione e uno stile di vita rispettoso accompagnano l’essere umano a un approccio civile, responsabile e di reciprocità nei confronti del pianeta. Vivere secondo natura, considerando la complessità globale con un’attenzione ai principi della sostenibilità ecologica, sociale ed economica diventano oggetto di riflessione interdisciplinare in un’ottica di dialogo interculturale, alla solidarietà, alla pace e alla legalità. In un mondo che corre sempre più veloce dove l’uomo si spinge verso la conquista di nuovi spazi terrestri, dove la tecnologia sostituisce sempre più la nostra mano, urge posizionare e mantenere al centro del pensiero collettivo l’educazione ambientale e ristabilire con il mondo quella naturale e fisiologica connessione che ci permette di essere umani capaci di accoglienza, responsabilità e rispetto.

Occorre in poche parole “stare” perché, come diceva Rousseau, la regola di ogni buona educazione non è guadagnare tempo, ma perderne.


*Coordinatrice Casa Adriana

ArchéBaleno72

Foto tratta dalla mostra “Nei miei occhi“.


 

giovedì 6 novembre 2025

ABBIAMO PERSO LE STAGIONI


Non ci sono più le mezze stagioni? 

No, sono proprio le stagioni a non esserci più: nella nostra carne. 


- di Alessandro D'Avenia

All’inizio le raccontava la terra, Omero infatti ne trova tre nel ritmo dei campi: il periodo dei raccolti, quello del riposo e quello del risveglio. Il ciclo vivente del terreno e di noi terreni: seminare, mietere, riposare. Lavoro e attesa. Azione e riposo. Fu poi un altro greco nel I sec a.C., l’astronomo Sosigene di Alessandria, a calcolare in modo preciso le quattro stagioni che Giulio Cesare impose al mondo nel 46 a.C. con il suo calendario. Infatti, la luce del Sole segna quattro giorni astronomici: i due solstizi (il sole sta), cioè il giorno con più luce, all’inizio dell’estate, e quello meno luminoso, all’inizio dell’inverno, e gli equinozi (aequa nox: notte uguale al giorno), cioè i due giorni in cui luce e buio si equivalgono (inizio della primavera e dell’autunno). Le tre stagioni si basavano sugli effetti terreni, le quattro (nelle zone temperate) sulle cause celesti. Comunque sia il tempo è scandito dal rapporto tra macro e microcosmo, un nodo di leggi naturali e vita umana che dà il ritmo all’esistenza. Un nodo che è stato sciolto dalla tecnologia, siamo poco legati alla terra e al cielo: nei supermercati non ci sono stagioni e il nostro ritmo circadiano (l’orologio biologico che regola le funzioni del corpo in base alla luce) è in tilt (siamo sempre in jet-lag a prescindere dall’ora legale...). Delle stagioni ci rimane solo un sentimento, un capolavoro di Vivaldi o una pizza? A che prezzo?

Abbiamo perso il senso del tempo ciclico e quindi il fatto che anche noi, come i campi, siamo fatti per semina, raccolto e riposo. La nostra costante produzione ci esaurisce e l’ansia quotidiana ce lo grida. Per cercare le cause, chiedo agli studenti che cosa determina le stagioni e rispondono: la distanza dal Sole. È vero il contrario: nel nostro emisfero l’estate cade proprio quando la Terra ne è più lontana. Il ritmo delle stagioni dipende infatti dalla combinazione dell’inclinazione dell’asse terrestre con l’orbita attorno al Sole: muta l’angolo di incidenza dei raggi. Questa perdita della connessione con le leggi del cosmo riduce la natura a emozione da foto e porta all’indifferenza verso la mirabile logica del creato. Ci dovrebbe lasciare a bocca aperta che ci siano leggi precise a regolare tutto perché questo significa che la vita, nella sua incalcolabile varietà di fenomeni, si dà solo grazie a relazioni armoniche: orbite, corolle, alveari, occhi... Il disordine e la bruttezza li dobbiamo alla sospensione della logica della e nella vita. Infatti, l’arte (e quindi il lavoro umano) imita la natura non perché la riproduce, altrimenti la fotocopia sarebbe l’arte suprema, ma per fare «come» fa la natura: agire in vista della vita, di una vita bella e buona. Quando Cristo deve spiegare come il Padre cura gli uomini invita infatti a guardare i fiori selvatici: «Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Ma io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6).

Abbiamo perso la fede, prima che in Dio, nella realtà. La realtà è superata: crediamo più allo schermo che alla finestra, alla luce artificiale che a quella naturale. Non era così per Antoni Gaudí, architetto della Sagrada Familia a Barcellona, che al tramonto del XIX secolo inventò strutture architettoniche mai viste «trovandole» (inventare viene dal verbo latino per trovare) in natura, osservando alberi e conchiglie. Mise le stagioni in un edificio: era un genio perché era umile. Chi entra in quel tempio sente il legame tra il cosmo e la propria vita. Lo stesso legame che aveva ispirato 5000 anni prima di Gaudí i costruttori di Stonehenge, calendario astronomico e rituale in pietra: nei solstizi il Sole sorge o tramonta in perfetto allineamento con le pietre principali, illuminandolo come un tempio. Quei popoli dipendevano già dal nesso tra cosmo e vita umana, per loro scienza, arte, religione, lavoro, festa erano tutt’uno. E noi, nostalgici di questo nodo e dispersi in frammenti senza senso, andiamo ad ammirare il «monumento», dal latino monere: far sapere, ricordare. Che cosa? Che la vita ha una logica, è fatta per la luce.

Il Tempio della Concordia ad Agrigento è famoso perché il Sole nascente illumina l’interno della cella (l’ambiente più sacro, dove c’è il dio) nell’equinozio di primavera. Anche a Chichén Itzá in Messico, sulla Piramide di Kukulkán (XI sec) i Maya aspettavano l’arrivo del dio rappresentato dal serpente piumato creato dalla luce sulla scalinata nei giorni equinoziali. Nel tempio principale di Angkor Wat in Cambogia (XII sec) in quei giorni le torri all’alba incorniciano il disco solare. A Machu Picchu in Perù (XV sec) l’Intihuatana («pietra che lega il Sole») indicava agli Inca solstizi ed equinozi. Nell’Isola di Pasqua i grandi Moai di pietra di Ahu Akivi (XIII-XV sec) guardano il tramonto del Sole nell’equinozio di primavera e gli danno le spalle all’alba in quello d’autunno, per segnare l’attesa del ritorno della luce e di un nuovo ciclo. Nella cattedrale di Chartres in Francia (XIII sec), a mezzogiorno del solstizio d’estate, un raggio di luce attraversa un foro nella vetrata di Saint Apollinaire e illumina un chiodo nel pavimento al centro di una mattonella storta, un simbolo del legame tra il Dio creatore e ogni singola cosa, anche una punta di spillo («anche i capelli del vostro capo sono contati» dice Cristo per ribadire la cura del Padre). A San Miniato al Monte, a Firenze, all’alba dell’equinozio di primavera, la luce illumina il segno del Cancro nello zodiaco marmoreo sul pavimento, a memoria della nascita del Battista in quei giorni, patrono della città e testimone supremo di Cristo.

Si potrebbe continuare ma bastino questi «monumenti» a ricordare che, per culture lontane e così diverse, «sacro» è lo spazio che lega il cosmo alla vita quotidiana: cielo e terra, stella e campo, culto e coltura, divino e umano... In una cultura che dimentica questa armonia l’uomo si illude di essere padrone della vita, di esserne lui la legge, fino a rovinarla con effetti che oggi sono sconfortanti. Il poeta e Nobel Josif Brodskij, nel suo libro su Venezia, narra che durante il Medioevo, per avere un bel bambino, si invitava la donna incinta a guardare solo cose belle: concepiamo e generiamo vita in base a ciò con cui siamo in relazione (a Venezia lo si vede). Se ci accontentiamo delle piccole luci dei nostri schermi (ri-)produrremo qualche bagliore artificiale, simulacri di vita. Ma i grandi parti (concezioni) sono frutto dall’osservazione innamorata della realtà, dalle mele di Newton ai girasoli di Van Gogh, perché la vita è un nodo di cielo e terra, è data e affidata, ha una logica da custodire, osservare, scoprire e compiere. La Terra è inclinata di circa 23° rispetto alla perpendicolare del piano dell’orbita: senza questa «stortura» il giorno sarebbe sempre uguale alla notte e non ci sarebbero stagioni. Nella nostra lingua «inclinazione» indica anche ciò verso cui si è portati.

La Terra è portata per il Cielo, noi per la luce, quella vera: venire alla luce e dare alla luce.

Ultimo banco

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lunedì 3 novembre 2025

INSEGNANTI, PELLEGRINI DELLA SPERANZA

 


“Un’educazione che guarisce 
e difende l’umanità”

 Il ruolo dell'istruzione, della religione e della fede 

nei contesti post-conflitto

 

 

-       - di Izzeldin Abuelaish < izzeldin.abuelaish@utoronto.ca *

 Introduzione

Cari fratelli e sorelle,

Cari insegnanti e pellegrini della speranza,

Cari amici nella fede e nell'umanità e servitori della pace,

È una benedizione e un profondo onore trovarmi in mezzo a voi, insegnanti, credenti e servitori della pace, per parlare di ciò che ci unisce: la nostra fede condivisa nell'umanità, la nostra dedizione all'istruzione e la nostra speranza in un mondo guarito dall'odio.

È con un cuore colmo di gratitudine e umiltà che mi presento oggi davanti a voi – tra insegnanti, credenti e guaritori del mondo – per parlare di ciò che ci unisce: la nostra fede nell’umanità, la nostra dedizione all’istruzione e la nostra speranza di pace.

È con un cuore colmo di gratitudine e umiltà che mi presento oggi davanti a voi – tra insegnanti, credenti e guaritori del mondo – per parlare di ciò che ci unisce: la nostra fede nell'umanità, la nostra dedizione all'istruzione e la nostra speranza e le nostre azioni per la libertà, la giustizia, la dignità, i diritti, l'uguaglianza, la responsabilità e la pace per tutti, dove nessuno è lasciato indietro. Un mondo libero dall'odio, dall'ingiustizia, dalla discriminazione, dalle guerre, dalla violenza...

Non vengo a voi dalla teoria o dall'astrazione, ma dalla vita stessa: una vita segnata dalla perdita, ma guidata e sollevata dalla fede; un viaggio attraverso il dolore e la sofferenza, ma ancorato e guidato nella speranza.

Ho vissuto la guerra. Ho seppellito le mie figlie.

Ma non ho mai seppellito la mia fede e la mia convinzione che l'istruzione, la fede e la compassione possano trasformare l'oscurità in luce, le sfide in opportunità e il dolore in promesse e speranza, non in Dio, non nelle persone e non nel potere dell'istruzione di trasformare l'oscurità in luce.

Ho vissuto la guerra. Ho seppellito le mie figlie.

Ma non ho mai seppellito la mia fede: né in Dio, né nelle persone, né nel potere dell'istruzione di trasformare l'oscurità in luce.

Mi presento davanti a voi non come vittima della guerra, ma come testimone delle sue ferite più profonde e come credente nel potere di ciò che può guarirle: l'istruzione, la religione e la fede.

Ho visto cosa può distruggere l'odio.

Ho seppellito le mie amate figlie, la mia famiglia, la mia casa, eppure mi rifiuto di seppellire la mia speranza. Perché dalle ceneri della distruzione ho imparato che nessuna bomba può uccidere lo spirito della conoscenza e nessun proiettile può mettere a tacere la fede nell'umanità.

In ogni conflitto, le vittime più gravi non sono solo vite umane: sono la perdita di fiducia, di compassione, della convinzione di poter vivere insieme. Quando le armi tacciono, la guerra invisibile continua: una guerra nei cuori, nelle menti e nelle anime.
Ed è qui che l'educazione e la fede devono emergere, non come armi di divisione, ma come strumenti di guarigione e rinascita.

Religione e fede: dalle ferite alla saggezza

La fede è la bussola interiore che ci mantiene umani in tempi disumani.
La religione – nella sua forma più autentica – non ci divide; ci lega gli uni agli altri.

La religione, se compresa nella sua essenza, non è un elemento di divisione, ma unificante.
Tutte le fedi condividono un comandamento fondamentale: amare il prossimo, cercare la giustizia e proteggere la vita. Tutte le fedi ci chiamano a mostrare compassione, a perdonare e a guarire.

Ma troppo spesso la religione è stata presa in ostaggio, usata o abusata da coloro che la usano per giustificare odio, crimini, avidità.

Dobbiamo rivendicarlo, come fonte di guarigione, non di danno.

La fede non consiste nel costruire muri; consiste nel costruire ponti.
Non riguarda "noi e loro", ma tutti noi, insieme.

Tra le rovine della guerra, ho scoperto che la fede – la vera fede – non inizia nei templi o nelle moschee, ma nel cuore che si rifiuta di rinunciare all'umanità e alla speranza.
È la fede che ci dice:

"Anche dopo l'oscurità, c'è l'alba. Anche dopo la morte, c'è la resurrezione."

La fede non è passiva; ci chiama ad agire, a perdonare, a ricostruire e a restituire la dignità a coloro che sono stati disumanizzati.


Senza fede – fede in Dio, fede nella giustizia, fede reciproca – la riconciliazione è impossibile.

Nelle società post-conflitto, la religione dà alle persone la forza di andare avanti, di ricostruire e di credere nuovamente nella sacralità della vita.


Trasforma le vittime in testimoni e i difensori, i testimoni in insegnanti di giustizia, libertà, dignità e uguaglianza, dove la pace è una conseguenza...

 

La guerra distrugge più delle infrastrutture: distrugge l'architettura morale ed emotiva dell'umanità. Mentre la ricostruzione ricostruisce i muri, l'istruzione e la fede ricostruiscono le persone.

La religione guarisce le ferite invisibili:

ci insegna a vivere di nuovo, ad avere di nuovo fiducia, a credere di nuovo.


Ci ricordano che la nostra comune umanità è sacra, che nessuna vita è sacrificabile e che il potere più grande che deteniamo è il potere di prenderci cura degli altri.
La religione, nella sua forma pura, aiuta sia le vittime che i carnefici a riscoprire la loro comune umanità.

La vera religione non insegna contro chi combattere , ma insegna come perdonare.

La religione ripristina il significato e l'ordine morale: la guerra non distrugge solo corpi ed edifici, ma ne distrugge il significato. Le persone perdono la fede nell'umanità, nella giustizia, in Dio, nella vita stessa.

La religione pura ripristina l'orientamento morale, ricordando ai sopravvissuti che la sofferenza non è la fine, che la vita ha ancora un valore sacro, che la giustizia e la pace rimangono mandati divini.

Nelle situazioni post-conflitto, questo è fondamentale:

        Aiuta le persone a dare un senso alla perdita.

        Sostituisce la disperazione con uno scopo.

Trasforma le vittime in testimoni morali che lavorano per impedire il ripetersi della violenza. "All'indomani della guerra, la religione può riaprire le porte delle nostre comunità, ma la fede riapre le porte dei nostri cuori. Una ricostruisce ciò che è stato distrutto fuori di noi; l'altra ricostruisce ciò che è stato spezzato dentro di noi. Insieme, sono le due ali della speranza – e solo con entrambe l'umanità può risorgere".

La religione rielabora il tessuto sociale. "La religione e la fede non consistono nel costruire muri, ma nel costruire ponti di umanità". La religione pura fa proprio questo: trasforma gli insegnamenti sacri in atti condivisi di compassione.

La religione traduce la fede in azione:

nella sua forma più pura, la religione non è solo preghiera, ma compassione in azione. La ripresa post-conflitto necessita sia del conforto spirituale della fede sia della compassione pratica che la religione ispira:

        Guarire i malati.

        Educare i bambini.

        Prendersi cura delle vedove e degli orfani.

        Difendere la giustizia e i diritti umani.

Quando la religione è vissuta come servizio – a Dio attraverso gli altri – diventa il motore più potente di guarigione sociale. "La preghiera più autentica dopo la guerra", si potrebbe dire, "è quella di guarire le ferite di chi soffre".

 

La religione come ponte tra comunità divise: se vissuta con umiltà, la religione diventa il ponte più forte per superare le divisioni causate dalla guerra.

La collaborazione interreligiosa, quando è radicata in principi etici condivisi, può ricostruire la fiducia tra gruppi un tempo ostili.

Dopo la guerra, i cuori sono pieni di dolore, rabbia e sfiducia.

La religione pura offre un linguaggio di perdono ed empatia, invitando le persone ad andare oltre la vendetta.

Guarire l'anima post-conflitto : nelle società post-conflitto, ricostruiamo strade e case, ma spesso dimentichiamo di ricostruire cuori, menti e anime.
Il trauma della guerra non è solo fisico: si radica nel tessuto sociale, trasmettendosi di generazione in generazione.

Se l'odio può essere contagioso, allora lo può essere anche la compassione. Se la violenza può diffondersi, lo può fare anche la guarigione .

Ecco perché educazione e fede devono andare di pari passo.
Le scuole non devono solo insegnare i fatti, ma anche promuovere empatia, giustizia, libertà, dignità, rispetto e uguaglianza.

I leader religiosi non devono solo predicare, ma anche praticare il perdono.
E i politici devono considerare l'istruzione e la riconciliazione come sicurezza nazionale: non lussi, ma necessità.

 

L’odio, una malattia da prevenire

Il nostro mondo non conoscerà mai la pace finché non tratteremo l'odio come una malattia da prevenire, non come un destino da accettare.

Abbiamo bisogno di un nuovo tipo di salute pubblica, che guarisca sia il corpo che l'anima e la mente.

 

Costruiamo insieme un mondo in cui l'istruzione dia potere, la fede illumini e l'umanità unisca. Dove leader e bambini imparino non il linguaggio della vendetta, ma la grammatica della riconciliazione.

Dove le nostre religioni si incontrino non nel conflitto, ma nella compassione. E dove noi, come un'unica famiglia umana, diciamo: "Mai più l'odio vincerà. Mai più il silenzio sarà la nostra risposta".

Perché la compassione è più forte dell'odio. La conoscenza è più forte dell'ignoranza.
E la fede, quando è guidata dalla giustizia e dalla misericordia, è più forte della guerra.

 

L’etica, una bussola morale

La vera religione non chiede mai alle persone di dimenticare l'ingiustizia, ma le invita a trasformarla attraverso la verità e la responsabilità. Nelle società post-conflitto, l'etica religiosa fornisce una bussola morale per i processi di verità e riconciliazione:

        Tutelare la dignità delle vittime.

        Richiedere la verità e il pentimento.

        Incoraggiare il perdono come atto morale libero, non come amnesia forzata.

Questa verità equilibrata con la misericordia, la giustizia con la compassione, è al centro di ogni messaggio profetico. Previene il ritorno della violenza trasformando la rabbia in responsabilità.

La religione nella sua forma più pura: una fonte di guarigione e speranza; la religione, quando intesa nella sua essenza più pura, non riguarda dogma, dominio, divisione o differenza: riguarda liberazione, dignità e compassione divina.
Non si tratta di dividere l'umanità in "noi" e "loro", ma di vedere il riflesso divino in ogni volto umano.

Nella sua forma più autentica, la religione è una medicina spirituale per le società ferite.
Dopo la guerra, quando le persone si portano dietro dolore, rabbia e sfiducia, la religione ricorda loro che la misericordia è più forte della vendetta e la compassione più profonda delle ferite.

Tutte le fedi condividono questo DNA morale. La religione, nella sua purezza, insegna il perdono come forma di forza, non di resa. Restituisce un significato alla sofferenza ricordandoci che la vita, anche dopo una devastazione, rimane sacra. Trasforma il trauma in responsabilità morale, invitando i sopravvissuti a non perpetuare il dolore, ma a impedirlo agli altri.

La religione riaccende la speranza e lo scopo: dopo la guerra, le persone spesso vivono in quello che i teologi chiamano "esilio spirituale".

Sopravvivono, ma senza speranza.

La religione pura riaccende la speranza:

segna che la vita, per quanto spezzata, può essere rinnovata; che la sofferenza può essere redentrice; che la pace non solo è possibile, ma è necessaria per la fede stessa

Dopo un conflitto, la religione pura diventa una medicina spirituale.
Aiuta le persone a trovare un senso nella sofferenza e la forza nel perdono. Ripristina l'orientamento morale in un mondo in cui la verità è stata infranta. Unisce le comunità attraverso la compassione e il servizio.

Istruzione:

 l'istruzione, amici miei, non è solo il trasferimento di conoscenze: è la nascita dell'umanità. Ogni classe, soprattutto in una società post-conflitto, è un santuario dove il dolore può essere trasformato in scopo e la disperazione in dignità.
Ogni vero insegnante è un pellegrino di speranza, che cammina con le anime ferite, aiutandole a riscoprire il significato e l'autostima.

Quando l'odio brucia le case, l'istruzione ricostruisce i cuori. Quando la guerra distrugge i libri, gli insegnanti riscrivono la storia dell'umanità. Quando l'ignoranza, l'arroganza, l'avidità e la paura accecano le menti, l'istruzione restituisce loro la vista. L'istruzione è l'antidoto più forte alle malattie del pregiudizio, della paura e della violenza.

Di che tipo di istruzione abbiamo bisogno? Non tutta l'istruzione guarisce.
Abbiamo visto l'istruzione usata per dividere, per indottrinare, per giustificare l'ingiustizia. Ma l'istruzione di cui il nostro mondo ha bisogno oggi – e che la nostra fede ci chiama a costruire – è un'istruzione con un impatto umano, sano e pacifico. Questa è un'istruzione che umanizza, non disumanizza.

Insegna agli studenti non solo come guadagnarsi da vivere , ma anche come rendere la vita degna di essere vissuta.

Coltiva l'empatia, il pensiero critico e il coraggio morale: la capacità di difendere la verità e la dignità anche quando il silenzio sembra più sicuro. La vera educazione è un'educazione del cuore e della mente.

Insegna il rispetto per la diversità, la compassione per i deboli e la responsabilità reciproca.
Incoraggia gli studenti a chiedersi non solo "Chi sono io?", ma anche "Chi siamo noi, insieme?".

Tale educazione difende l'umanità. È radicata nell'etica, nutrita dalla giustizia e guidata dall'amore.

Prepara i giovani non a dominare gli altri, ma a servirli, non a sfruttare il mondo, ma a guarirlo.

Un’educazione sana

Questo è ciò che chiamo educazione sana: un'educazione che alimenta il benessere emotivo, spirituale e sociale come parte della salute pubblica stessa.

Perché la salute di una società non si misura solo negli ospedali, ma anche nelle sue aule, nel modo in cui insegna ai suoi bambini a essere umani.

È stata questa convinzione a spingermi a creare la Daughters for Life Foundation , per dare alle giovani donne provenienti da regioni devastate dalla guerra la possibilità di imparare, di essere leader e di portare guarigione alle loro comunità.

Perché quando una ragazza riceve un'istruzione, la pace ha una madre, un futuro e un battito cardiaco.

Istruzione: il cammino sacro dalla sofferenza alla speranza

L'istruzione, amici miei, non è solo un atto di apprendimento: è un atto di fede.
Ogni aula in una società post-conflitto è uno spazio sacro, dove la disperazione può essere trasformata in possibilità.

Ogni insegnante è un pellegrino della speranza: cammina con le anime ferite, aiutandole a riscoprire il significato della vita, la dignità e la pace.

Quando l'odio brucia le case, l'istruzione ricostruisce cuori e anime.
Quando la guerra distrugge i libri, gli insegnanti riscrivono le storie dell'umanità. Quando l'ignoranza, l'avidità e l'arroganza accecano le menti, l'istruzione restituisce loro la vista.

Il Sacro Cammino dalla Sofferenza alla Speranza:

l'istruzione, amici miei, non è solo un atto di apprendimento, è un atto di fede. Ogni aula in una società post-conflitto è uno spazio sacro, dove la disperazione può essere trasformata in possibilità.

Ogni insegnante è un pellegrino di speranza: cammina con le anime ferite, aiutandole a riscoprire il significato della vita, la dignità e la pace.

Quando l'odio brucia le case, l'istruzione ricostruisce i cuori.

Quando la guerra distrugge i libri, gli insegnanti riscrivono le storie dell'umanità.

Quando l'ignoranza acceca le menti, l'istruzione restituisce loro la vista.

L'istruzione è il vaccino contro l'odio, la medicina più potente per curare le malattie morali della paura, del pregiudizio e della vendetta.

L'istruzione è la medicina più potente per curare le malattie morali della paura, del pregiudizio e della vendetta.

L'istruzione è l'antidoto e il vaccino contro l'odio. L'istruzione non riguarda solo la lettura e la scrittura. È il vaccino contro l'odio, l'antidoto all'ignoranza e alla paura.
È ciò che trasforma il dolore in uno scopo e la rabbia in azione. Quando insegnavo tra le macerie di Gaza, vedevo bambini che avevano perso tutto, eppure i loro occhi brillavano ancora della luce dell'apprendimento. Non erano solo studenti; erano semi di un futuro che dobbiamo coltivare.

L'istruzione fornisce al figlio della guerra il linguaggio per dire: "Non odierò".
Dà ai giovani nei campi profughi il potere di sognare oltre i muri. Dà ai sopravvissuti la capacità di ricostruire la società sulla giustizia, la conoscenza e la compassione.

Ecco perché ho fondato la Daughters for Life Foundation: per dare alle giovani donne, che hanno perso così tanto a causa della guerra, la possibilità di rivendicare il loro diritto a imparare, a guidare e a guarire il mondo attraverso la loro saggezza.

Perché quando una ragazza riceve un'istruzione, la pace ha la possibilità di vivere.

L'istruzione e la religione possono guarire ciò che la guerra frantuma: i fondamenti morali ed emotivi della società. Ci insegnano a vivere, non solo a sopravvivere. Ci ricordano che siamo tutti figli di Dio, indipendentemente dal nostro nome, dalla nostra nazione o dal nostro credo.

Nei contesti post-conflitto, dobbiamo educare non solo la mente, ma anche il cuore.
Dobbiamo insegnare la storia senza odio, la memoria senza vendetta e la fede senza fanatismo. Perché una pace costruita sulla paura è fragile, ma una pace costruita sull'educazione e sulla fede dura.

Insegnanti:

I veri pellegrini della speranza, messaggeri dell'umanità

Cari insegnanti, voi siete gli architetti della pace di domani. Siete voi che piantate semi di speranza nel terreno della sofferenza. Ogni lezione che insegnate con amore è una sfida all'odio.

Ogni atto di pazienza è un atto di fede.

Non siete solo trasmettitori di conoscenza, siete custodi dell'umanità.
Attraverso la vostra compassione e il vostro esempio, date anche ai bambini ciò che la guerra ha portato via: la capacità di sognare.

Non siete solo educatori. Siete pellegrini di speranza, che percorrono con fede la strada per un mondo migliore, dalla disperazione alla dignità, portando con sé la luce che nessuna oscurità può spegnere.

Potreste non vedere sempre i frutti del vostro lavoro, ma sappiate questo: ogni lezione di compassione, ogni parola di incoraggiamento, ogni atto di pazienza è una candela accesa nell'oscurità.

Tu porti avanti la missione del divino: guarire chi è spezzato, sollevare chi è caduto e ricordare all'umanità che l'amore è più forte della morte.

Nelle tue mani risiede il potere di spezzare il ciclo della violenza e di dare vita a una nuova generazione di costruttori di pace.

 

Elevare l’umanità

Vorrei concludere con un invito all'azione: "La religione non riguarda il dominio, riguarda la liberazione, non riguarda le regole, ma le relazioni.

Ci ricorda che la pace è sacra, che ogni essere umano porta con sé il respiro del Divino.
In un mondo post-conflitto, la religione pura diventa un santuario per l'anima, dove il perdono è adorazione, la compassione è preghiera e la ricostruzione dell'umanità è il più alto atto di fede.

Mentre celebriamo questo Giubileo dell'Educazione, ricordiamo che la nostra missione non è solo quella di educare le menti, ma di elevare l'umanità. Essere umani e difendere l'umanità:

la pace inizia in classe, ma non finisce lì. Deve raggiungere ogni casa, strada, parlamento, ogni cuore, ogni preghiera.

Impegniamoci a coltivare un'educazione che insegni la compassione e l'amore prima della logica, l'etica prima dell'economia, l'umanità prima della nazionalità; insegniamo ai nostri figli non solo come guadagnarsi da vivere, ma anche come rendere la vita degna di essere vissuta. Insegniamo ai nostri figli che essere veramente umani significa difendere ogni altro essere umano, soprattutto i sofferenti, i senza voce, i dimenticati.

Insegniamo loro che il perdono è forza, che la compassione è saggezza e che la speranza, anche nelle rovine, è un dovere e un'azione sacra.

Il futuro dell'umanità non dipende dalla potenza degli eserciti, ma dal coraggio degli insegnanti e dei credenti che osano amare quando altri scelgono l'odio .

Camminiamo insieme, persone di tutte le fedi, come pellegrini della speranza, guarendo un mondo ferito attraverso le forze divine dell'educazione, della fede e della compassione.

Perché quando il cuore educa, l'anima crede e l'umanità si unisce,
la pace non è un sogno; diventa il nostro destino.

 

Costruire il futuro del mondo

Il futuro del nostro mondo non sarà costruito da chi sa di più, ma da chi ha più a cuore la cosa.

Perché la conoscenza senza coscienza è vuota, mentre l'istruzione è piena di fede, compassione e umanità e può guarire il mondo.

Camminiamo insieme – musulmani, cristiani, ebrei, credenti e umanisti – come pellegrini della speranza, difensori della vita, costruttori di pace.

Perché quando il cuore educa, l'anima crede e l'umanità si unisce,
la pace non è un sogno; diventa il nostro destino.

 

* Università del Cairo , Harvard TH Chan School of Public Health

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