venerdì 17 luglio 2020

TORNARE A GENERARE PER RISCOPRIRSI UN POPOLO



Al di là delle news, 

la crisi della natalità

di Giuseppe Savagnone

Avrebbe forse meritato maggiore attenzione, da parte della stampa e dell’opinione pubblica, il dato, pubblicato in questi giorni, dall’Istat, secondo cui nel 2019 il numero delle nascite, in Italia, è ulteriormente diminuito di 19.000 bambini (-4,5%) rispetto all’anno precedente, toccando un minimo storico dal tempo dell’Unità. Abituati come siamo a lasciarci polarizzare dalle novità che “fanno notizia” – le news –, rischiamo di non percepire la direzione dei grandi processi a medio e lungo termine che maturano anno per anno, e da cui in realtà il nostro futuro dipende molto più che da singoli eventi su cui tanto si discute.
Il riflesso sulle pensioni
In questo caso la gravità della situazione avrebbe dovuto essere percepita se non altro alla luce dall’altro dato, anch’esso ufficiale, che il numero delle pensioni erogate dall’Inps, nel nostro Paese, ha superato per la prima volta quello degli stipendi. Perché non è necessario essere particolarmente inclinati alla matematica per aver chiaro che cosa questo significhi per le future generazioni. In passato un lavoratore poteva contare, per ricevere la meritata pensione, sui prelievi che lo Stato faceva dagli stupendi dei suoi due o tre figli. Era una piramide la cui base, normalmente abbastanza ampia (i figli a volte erano anche più d due o tre), di soggetti produttivi, sosteneva senza problemi il vertice, costituito dal pensionato.
Era già allarmante, nel recente passato, la progressiva riduzione di quella base. Il numero di giovani lavoratori che potevano mantenere gli anziani a riposo è andato diminuendo sempre di più. Oggi sappiamo che il rapporto è addirittura sceso al di sotto della parità. Grazie anche a riforme come quella della “quota cento”, fatta dal precedente governo, che ha ulteriormente favorito l’aumento dei pensionati (220.000 in più rispetto all’anno precedente). Se continua così, chi verrà dopo di noi, i nostri figli, non potrà più avere la ragionevole fiducia di godere, alla fine del proprio servizio professionale, di un reddito garantito. Si parla tanto di “diritti”, ma noi stiamo sistematicamente violando – in questo come in altri campi – quelli delle generazioni future.
L’occasione sprecata degli stranieri
Per un certo periodo a compensare questi vuoti c’è stata l’immigrazione, con l’arrivo di lavoratori stranieri i cui stupendi hanno dato ossigeno al nostro sistema pensionistico. Il precedente presidente dll’Inps, Tito Boeri – silurato dal governo giallo-verde anche per questo –, si era sforzato disperatamente di spiegarlo, dati alla mano, chiedendo una politica di progressiva integrazione che permettesse di fa passare dal lavoro “in nero” a quello “in regola” i cosiddetti “clandestini”. I “decreti sicurezza” – emanati dal Conte 1 e mai abrogati dal Conte 2, malgrado il cambiamento della formazione governativa – hanno messo una pietra tombale su questo progetto, rendendo sempre più difficile quella integrazione e respingendo gli stranieri verso un quasi inevitabile permanenza nella clandestinità.
Un Paese di vecchi
Ma l’emergenza pensionistica è solo un aspetto – sia pure di immediata rilevanza economica – di un problema più ampio. Stiamo sempre più diventando un Paese di vecchi. Il tasso di natalità è di 1,5 figli per donna, quando ce ne vorrebbero almeno due per mantenere il nostro livello di popolazione. Perfino gli stranieri, che avevano in una prima fase sopperito a questo deficit di natalità e contribuito a mantenere discretamente alto il numero degli alunni nelle nostre scuole primarie, da una parte sono stati scoraggiati dal venire in Italia (-8,6%) dall’altra sembrano essersi adeguati al trend degli italiani.
Il risultato, secondo lo studio Istat, è che la nostra popolazione dovrebbe scendere dai 60 milioni e 391mila residenti del 2019 ad appena 28 milioni alla fine di questo secolo. Anche altri Paesi del mondo stanno avendo una flessione, ma noi siamo in prima linea.
La mancanza di una politica per la famiglia
Le cause ovviamente sono tante. Una però è subito evidente, ed è la mancanza di una seria politica a favore della famiglia tradizionale – quella, per intenderci, che genera figli – e della maternità. Nella crescente attenzione ai diritti individuali l’Italia è rimasta sempre più indietro, rispetto anche ad altri Paesi europei, nel sostegno alla comunità familiare come tale, anzi ha promosso una serie di misure legislative, in nome della libertà individuale, che ne indebolivano i legami costitutivi, senza controbilanciarle – come invece si è fatto altrove – con altre che almeno incoraggiassero comunque alla generazione di figli.
Già al tempo del referendum sull’aborto
Il problema, del resto, ha radici antiche. Clamoroso il fatto che, già nella storica disputa sulla legalizzazione dell’aborto, non si sia mai pensato, prima di arrivare allo scontro sui princìpi, a promuovere di comune accordo – fautori e oppositori – una politica che, predisponendo una serie di contributi e di servizi, rendesse comunque più libera la scelta delle donne, dando loro, prima che il triste diritto di interrompere la gravidanza, quello di portarla a termine. Dall’una e dall’altra parte, si sono fatte dichiarazioni, si sono enunciati grandi valori, e non si è fatto quello che era più ovvio e più necessario.
Nessuna meraviglia: si era al tramonto di una stagione in cui a governare era stato il partito dei cattolici, da sempre entusiasti tutori della sacralità della famiglia, ma che non aveva fatto per essa nemmeno la metà di quello che si era invece fatto nella laicissima Francia.
E si è continuato sempre così, fino ad oggi. Molta retorica, sovrabbondanti promesse, qualche occasionale bonus bebè, ma non un’organica legislazione in grado di incoraggiare la generatività. C’è da stupirsi che siamo agli ultimi posti nel mondo?
Il problema del lavoro
Al di là dei fattori che riguardano direttamente la famiglia, ce ne sono altri che l’hanno colpita indirettamente. Penso alla difficoltà di trovare un lavoro prima di un certa età (e talvolta anche dopo…), che ovviamente ritarda la possibilità per le coppie di progettare di avere un figlio. Oppure, anche quando il lavoro c’è, alla sua precarietà (pardon, in politically correct si dice “flessibilità”): chi può pensare di mettere al mondo un bambino quando sa che il suo contratto scade dopo un anno? E questo già prima della pandemia. Che succederà adesso?
Non solo biologia
La mancanza di fecondità degli italiani non è però solo un fatto che riguarda la biologia. Da molti anni si parla di un “declino” dell’Italia che non è tanto una questione demografica o, come alcuni credono, economica, ma riguarda le risorse più profonde di vitalità del nostro Paese. del resto, sono gli economisti a sottolineare che la decrescita del Pil dipende da una crisi della produzione, che a sua volta deriva da quella del consumo, le cui origini vanno cercate in una diffusa sfiducia. Manca la speranza nel futuro.
La rabbia e la paura non generano nulla
Le passioni dominanti di questi ultimi anni sono state la rabbia e la paura. Ma con esse non si genera nulla. Con la rabbia si rimpiange qualcosa del passato che si è perduto, con la paura ci si trincera nell’esistente, difendendolo con le unghie e con i denti. Perché si possa generare bisogna, invece, aprirsi al futuro, preferire il rischio alla sicurezza, immaginare ciò che ancora non esiste invece di aggrapparsi a ciò che non esiste più.
La mancanza generatività biologica è così una metafora di quella spirituale e culturale che ci rende un Paese di vecchi anche a prescindere dall’anagrafe. Non mancano, naturalmente le eccezioni che potrebbero essere invocate per smentire questa diagnosi. Ma è pur vero che molte grandi espressioni del genio italiano sono state possibili proprio per il fatto che sono state realizzate all’estero.
Tornare a generare per riscoprirsi un popolo
In ogni caso, resta il problema di fondo di un risveglio delle risorse morali e spirituali del nostro popolo. La ripresa economica, che pure è una urgenza assoluta, in questo momento difficilissimo, non può essere affidata solo a misure che piovono dall’alto. A parte le perplessità – che purtroppo condivido – sull’efficacia di queste ultime, anche nella migliore delle ipotesi esse non possono sostituire uno spirito di iniziativa, una creatività, un coraggio che esige l’impegno di tutti. Per uscire dalla crisi bisogna di nuovo ritornare a generare: non solo figli, ma anche idee, esperienze, relazioni costruttive… Magari riscoprendo, così, di essere quello che ci siamo dimenticati di essere: un popolo.




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