sabato 18 luglio 2020

UN PAESE CHE NON LEGGE E' UN PAESE CHE NON COMPRENDE


NOI, CONSEGNATI

 AL PRESSAPPOCO

di Alessandro  Zaccuri

Si entra in libreria con più circospezione del solito, si accenna un saluto al titolare seduto in cassa, quasi non ci si arrischia a chiedere come sta andando. Protagonista di effimeri e tempestosi dibattiti nelle settimane più dure dell’emergenza coronavirus (riaprire no, riaprire sì, riaprire chi?), il mondo del libro italiano sta oggi attraversando una crisi che si annuncia devastante. Tale, per intenderci, da far rimpiangere la clamorosa flessione del 2008, quando il mercato si ridusse di un terzo. A confermare l’allarme – già percepito, in modo più o meno empirico, dagli addetti ai lavori e dai semplici appassionati – sono i dati dell’indagine realizzata da Cepell e Aie (si tratta rispettivamente del Centro per il libro e la lettura e dell’Associazione italiana editori) per valutare le conseguenze della Covid-19 sui 'consumi culturali' del Paese. In discussione non c’è soltanto la sorte delle librerie, che in questi mesi hanno drasticamente ridotto la loro attività a parziale beneficio del commercio online, ma il ruolo che la lettura dovrebbe svolgere in una fase tanto delicata. E che invece, con ogni evidenza, non riesce più a svolgere da tempo.
Ancora una volta, la pandemia ingrandisce e accelera un fenomeno già in atto. Ciò non toglie che la situazione, una volta trascritta in termini percentuali, resti sconfortante. Nello scorso mese di maggio, per esempio, solo il 58% degli italiani afferma di aver letto almeno un libro nell’anno precedente, con una riduzione del 15% rispetto allo stesso mese del 2019. La quota scende al 50% se si prende in esame il periodo aprile-maggio 2020, quello del pieno lockdown. Perché non si legge, perché non si è letto neppure allora? Gli intervistati danno risposte diverse, che vanno dalla comprensibile preoccupazione (anche molti lettori forti, andrà ammesso, non trovavano più la concentrazione necessaria) alla meno plausibile mancanza di tempo. E poi c’è la concorrenza della rete e delle piattaforme, certo, degli smartphone e delle serie tv. Ma la risposta forse potrebbe essere più brutale e diretta: gli italiani non leggono perché in Italia la lettura non è ritenuta importante. A parole sì, ci mancherebbe altro. La retorica del buon libro, lo struggimento per il profumo della carta (chi ha abbastanza libri in casa sa che il problema è semmai la polvere), la parete che arreda grazie alle copertine sistemate per nuances. Questo però è corredo, ornamento, non risorsa strategica.
Lo si è visto durante il lockdown, appunto, con le incertezze sul sistema scolastico e con la sostanziale scomparsa dell’università dal dibattito pubblico.
Perché la lettura – su questo occorre essere chiari – non è unicamente questione di romanzi e di poesie, che pure danno un apporto decisivo alla formazione della coscienza personale.
Si possono leggere saggi filosofici e trattati di economia, per esempio, ed è indispensabile che si legga di scienza e di teologia, di matematica come di spiritualità. La realtà è complessa, lo è sempre stata. Da qualche tempo, però, questa stessa complessità è maggiormente percepita e le sue conseguenze sono più evidenti, come l’andamento del contagio ha drammaticamente confermato. Per questo bisognerebbe leggere di più, non di meno.
Preoccuparsi per il destino del libro non significa soltanto prendersi a cuore il futuro di un settore merceologico, per quanto lavoro e dignità vadano garantiti a tutti: redattori editoriali e librai, promotori e addirittura autori. Il punto è che un Paese senza lettori è un Paese che non legge, ossia che non ha gli strumenti per interpretare il presente. Si affida all’emozione, al sentito dire, all’equivoco del pressappoco.
S i è visto nei mesi scorsi, ripetiamolo, e c’è da temere che si continuerà a vedere per un bel pezzo, se è vero – come sostiene la stessa indagine Cepell-Aie – che gli italiani d’ora in poi non prevedono affatto di tornare a concentrarsi sulla lettura. Di rallentare un po’, semmai. Di concedersi qualche altra distrazione. In questo, purtroppo, non vige più distinzione di classe, né di ruolo. Anche gli osservatori più coriacei e meno disposti alla nostalgia si sorprendono ogni tanto a vagheggiare il passato, quando in Parlamento sedevano persone che i libri, anziché scriverli, li leggevano. Per scacciare il malumore, allora, si prova a fare un salto in libreria. Si entra, si saluta, non si chiede più come sta andando.



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