giovedì 25 giugno 2020

SCUOLE DI SCRITTURA: INUTILI E OMOLOGANTI

Uno spietato pamphlet di Squillaci contro quelle realtà che si prefiggono di insegnare la creatività e l'editing secondo le mode e non per fare letteratura.
Ma, prima delle scuole, gli autori come facevano?


di MASSIMO ONOFRI

Il titolo del libro di Alfio Squillaci è un invito alla lotta: Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! (Gog edizioni, pagine 128, euro 12). Il sottotitolo, invece, ne esplicita le ragioni polemiche: perché la letteratura non è una catena di montaggio. Il nostro scrittore ha notevoli dosi di sintesi e una mira che gli consente di raggiungere il bersaglio: al di là del fatto che si concordi o meno con lui. Senza dire della sua duttilità filosofica: quella di chi sa passare, all’uopo, da Aristotele a Guido Calogero.
Il quadro è dettagliato e preciso, senza elusioni, basato sui fatti (magari sulla storia del concetto di bestseller o su quella delle scuole di scrittura), franco nel linguaggio e spietato nelle sue verità (andate a vedere ciò che scrive di Roberto Saviano e delle sue eventuali contraddizioni). Ci concentreremo solo sulle questioni che ci interessano di più, ma si potrebbero fare altre scelte, tutte legittime. Ecco: «Fino a qualche decennio fa l’aspirante romanziere non faceva che seguire scuole tutte proprie di lettura creativa: si metteva a bottega ossia di uno o più maestri, leggeva molto e dopo un certo periodo di apprendistato, si lanciava». Mimesi e improvvisazione, insomma. E poi: «Oggi sempre più c’è chi si rivolge ai manuali o a scuole di scrittura creativa che fioriscono in ogni dove. Perché l’obiettivo è non solo scrivere, ma farsi leggere o addirittura scrivere bestseller, perforare la cortina dell’anonimato e raggiungere il più vasto pubblico».
Parole da cui si ricavano due cose fondamentali. Primo: che all’aspirante scrittore non interessa più la letteratura in se stessa, ma il successo. Secondo: l’idea (sostenuta con fede positivista) che non serva leggere per affinare il proprio eventuale talento sulle pagine dei grandi del passato, ma basti solo l’acquisizione (il più possibile veloce) delle tecniche (pratiche o teoriche) per raggiungere la fama e magari anche la soddisfazione economica. Detto in altri termini: non si vuole più essere simili, come in anni d’altre mitologie, a D’Arrigo o Pizzuto, ma a Carolina Invernizio (senza magari sapere chi sia stata costei). C’è poi un altro punto su cui si concorda con Squillaci da molto tempo, tant’è che chi scrive ne ha fondata una a Nuoro proprio lo scorso anno: «Più che scuole di scrittura creativa, si potranno concepire scuole di lettura creativa come suggeriva Steiner», in cui si insegni appunto «non solo a “imparare a capire la struttura delle frasi e ad analizzare la grammatica del testo” ma anche (…) a pescare nell’immenso laboratorio delle narrazioni mondiali le modalità in cui si è espressa la narrazione». Per comprendere meglio: anche in vista d’un esercizio d’ammirazione. Ma mai per ricavarne regole da applicare astrattamente e in modo non funzionale a quanto si va scrivendo. E delle pagine Contro l’editing ne vogliamo parlare? E di quelle sul mito dell’intreccio e della «bella storia»? Un dato del libro da non tacere è la presenza di brillanti analisi critiche, fatte sempre in vista degli scopi dell’argomentazione, senza ridondanze: si tratti di Balzac e Flaubert (soprattutto); Taine, Barthes e Céline; Moravia, Gadda e Arbasino; o Sebald. E che cosa c’è di più gratificante del constatare certe impreviste connessioni tra una riflessione sull’insegnamento della scrittura creativa e una citazione del Kant della Critica del giudizio sul concetto di «genio». Questo per dire che tante sono le frecce a disposizione di Squillaci per il suo arco: mantenendo sempre un piacevole tono da civile conversazione. Lasciamo al lettore il resto del libro, su cui aleggia una domanda cruciale: «Ma prima delle scuole di scrittura creativa come si faceva?». Che, in considerazione di tanti storici capolavori universali, ha come l’aria di delegittimare il tema stesso di queste pagine: facendoci intuire, delle scuole di scrittura, l’assoluta inutilità.







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