venerdì 26 giugno 2020

LA PAROLA, LA VITA, GLI SMARRIMENTI


Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Ivano Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” redatta per Avvenire.

Il libro / Interpretare i problemi dell’oggi con gli occhi esperti dell’antichità

Con la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi e un’ampia premessa dello stesso autore (dalla quale abbiamo tratto il significativo stralcio che introduce i testi qui anticipati), Raffaello Cortina manda in libreria Parole che allungano la vita. Pensieri per il nostro tempo, il libro di Ivano Dionigi (pagine 112, euro 12,00) che raccoglie, con l’aggiunta di inediti, i brani pubblicati fra gennaio e marzo 2020 su “Avvenire” nella rubrica di prima pagina “Tu quis es”. Uno sguardo sulla quotidianità, nei giorni che in Italia e in Europa hanno aperto la crisi della pandemia, attraverso l’esperienza della classici greci e latini.


di IVANO DIONIGI

La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare ( delectare), insegnare ( docere), mobilitare le coscienze ( movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta. La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor.
La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio ( Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti ( rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla? Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere ( vivere) dallo stare al mondo ( esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini ( Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore).
Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276–1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272–1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe).
Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans). Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» ( La forma della spada).




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