lunedì 29 dicembre 2025

CENTOSEDICI PERSONE

 


“L’irripetibilità

 di quelle 116 persone 

morte 

nel Mediterraneo”

 

-di Stefano Arduini

 

La tragedia dei migranti al largo delle coste libiche, di cui si ha avuto notizia nel giorno di Natale e di cui si è parlato pochissimo in questi giorni di festa, non può essere ridotta a fredda contabilità.

Scrivere di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.

È resistenza.

Perché ciò che non viene nominato smette di esistere.

E l’algoritmo questo lo sa bene.

Un solo superstite, tratto in salvo da un pescatore tunisino, è la contabilità dell’ennesima tragedia del mare: 116 morti a seguito del naufragio di una barca, salpata da Zuwara in Libia, e avvenuto al largo delle coste libiche a causa del maltempo.

La tragedia è datata giovedì 18 dicembre, ma se ne è avuta certezza solo nel giorno di Natale (grazie ad Alarm Phone).

In questi giorni di festa (almeno in questa parte del mondo) se ne è parlato pochissimo.

Centosedici morti nel Mediterraneo.

Lo diciamo così. Lo abbiamo letto così sui nostri social.

In una riga, come se fosse un dato. Come se fosse un aggiornamento. Come se bastasse.

Ma 116 non è un numero: è una scorciatoia.

Serve a rendere la tragedia gestibile, a farla stare nello spazio ridotto dell’attenzione pubblica, a permetterci di passare oltre.

È il linguaggio dell’algoritmo, che classifica, riduce, seleziona, dimentica.

Centosedici erano persone, non erano lontane.

Non erano “altre”.

Non erano diverse da noi.

Noi non abbiamo alcun merito nell’essere sopravvissuti.

E loro non hanno alcun demerito nell’essere su quella barca.

Stavano facendo ciò che gli esseri umani fanno da sempre: cercare una possibilità di vita.

Non eroismo.

Non incoscienza.

Necessità.

Hannah Arendt ci ha ricordato che la singolarità di una vita non è sostituibile da nulla.

E allora ogni morte che accettiamo come “inevitabile” è una sconfitta che normalizziamo.

Non perché non potesse accadere, ma perché scegliamo di non fermarci a guardarla.

Ogni essere umano è unico, irripetibile.

La vita di un solo uomo vale più di tutte le idee astratte.

Eppure, continuiamo a sacrificare vite concrete in nome di astrazioni molto ben organizzate: il controllo delle frontiere, la deterrenza, la sicurezza, i flussi, l’indifferenza. Parole che funzionano bene nei documenti, meno nei corpi.

I corpi sono la “grande idea” della storia.

Ce lo ha insegnato Albert Camus.

La linea che separa il “noi” dal “loro” è fragile, mobile, spesso immaginaria, ma rassicurante. Basta nascere qualche chilometro più in là, basta un passaporto diverso, perché quella linea diventi un muro morale.

E perché la morte, improvvisamente, non ci riguardi più.

Ma dimenticare i morti è come ucciderli una seconda volta.

Elie Wiesel non parlava solo della Shoah: parlava della responsabilità universale della memoria.

La memoria non è un esercizio del passato, è un atto di giustizia nel presente: ricordare è rendere giustizia.

Scrivere di loro, nominarli, farne memoria non è pietismo.

È resistenza.

Perché ciò che non viene nominato smette di esistere.

E l’algoritmo questo lo sa bene.

Non è la mancanza di notizie a renderci ciechi, ma la loro trasformazione in rumore.

Centosedici morti diventano uno scorrimento veloce, una notifica che non interrompe davvero nulla. Il sistema funziona quando non ci fermiamo.

E invece fermarsi è l’unica cosa da fare.

Fermarsi a dire che dietro ogni numero c’era una voce, un volto, una storia che non conosceremo mai — e che proprio per questo ci riguarda.

Ricordare queste 116 persone non le riporterà indietro.

Ma ci impedisce di diventare complici dell’oblio.

Ci obbliga a restare umani in un tempo che premia la distrazione.

Ci ricorda che nessun algoritmo può decidere quali vite contano.

Finché continueremo a scriverne, a dirne i numeri come nomi mancanti, a farne memoria pubblica, l’algoritmo non avrà vinto.

E forse nemmeno noi avremo perso del tutto.

 VITA

Immagine

Nessun commento:

Posta un commento