domenica 28 dicembre 2025

INCLUSIONE A SCUOLA

 


La fatica di includere,

 ai tempi 

della solitudine 

della scuola


Classi sempre più complesse, docenti troppo soli, una formazione che non tiene il passo. L’inclusione scolastica, una delle più grandi conquiste del sistema italiano, è oggi sotto pressione, tanto che il 27,1% degli insegnanti sarebbe favorevole al modello a tre vie. Per trovare una risposta alla crisi del sistema, però, la scuola non deve guardare indietro ma aprirsi al territorio

di Veronica Rossi

«Per quanto mi impegni, a volte faccio fatica, in classe, ad attuare della modalità inclusive: ho bisogno di molto tempo per capire come lavora un ragazzo, anche se so qual è la sua diagnosi. Nel periodo della pre-adolescenza, poi, ci sono tante cose in evoluzione. Magari cambiano anche le dinamiche della memoria, l’approccio allo studio, l’interesse, la motivazione. Devi sempre stare al passo, perché altrimenti rischi di adattarti a un certo tipo di difficoltà nel seguire la lezione, nello studio, nelle verifiche, per poi scoprire che l’alunno l’ha già superata». Luisa è una professoressa di una scuola secondaria di primo grado della provincia di Trieste. Il nome è inventato, perché preferisce rimanere anonima, ma le difficoltà che riporta sono reali. Parla fuori dal cortile dell’istituto, con gli occhi chiari che si infiammano mentre racconta del suo lavoro; insegna in una classe in cui c’è un alunno certificato ai sensi della legge 104 – e che quindi ha diritto a un Piano educativo individualizzato e alla presenza di un insegnante di sostegno – ma anche diversi ragazzi con Bisogni educativi speciali, che richiedono personalizzazioni della didattica.

Ritorna l’idea delle scuole e classi speciali

Che i docenti facciano fatica è un dato di fatto, testimoniato anche dall’indagine Le voci dell’inclusione del Centro Studi Erickson di Trento, che ha preso in esame un campione di 833 insegnanti provenienti da tutte le regioni d’Italia. Il 45% dei partecipanti ha dichiarato di aver pensato, a un certo punto della propria carriera, che la vera inclusione fosse impossibile; il 27,1% invece – e questo è il dato più eclatante – si è detto favorevole a un modello a tre vie, quindi alle classi e alle scuole speciali per gli alunni con maggiori difficoltà.

«Ritengo che per alcuni casi, quelli che necessitano di personale specializzato sulla problematica specifica e non solo sul sostegno con un corso universitario, le classi speciali potrebbero essere una soluzione», afferma Giulia (è un altro nome di fantasia), che insegna inglese in una scuola in montagna. «La “scuola normale”, chiamiamola così, non ha gli strumenti e le competenze a livello di personale per andare incontro ai bisogni dell’alunno e potrebbe non essergli veramente d’aiuto». Negli ultimi anni, la sensazione di inadeguatezza degli insegnanti negli istituti pubblici è andata crescendo: quando è stata redatta la precedente ricerca della Erickson, nel 2023, era favorevole al modello a tre vie “solo” il 17% del personale docente. Ma cos’è che negli ultimi anni sta minando alle fondamenta il modello di inclusione dell’Italia, prima nazione al mondo ad abbandonare le classi differenziali e speciali, con la legge 517 dell’agosto 1977?

Classi sempre più eterogenee, bisogni sempre più complessi

«C’è una sempre maggiore eterogeneità delle classi, i bambini sono sempre più sregolati e problematici», afferma Dario Ianes, ordinario di Pedagogia dell’inclusione alla facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano-Bozen e co-fondatore del Centro Studi Erickson. «C’è un aumento pazzesco delle certificazioni. Le ore di sostegno crescono, certo, ma non abbastanza per stare al passo con questi numeri». La crescita delle difficoltà e dei bisogni educativi è un dato oggettivo, se pensiamo che, per esempio, secondo i dati forniti dal ministero della Salute, c’è stato un aumento del 157% delle diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività – Adhd dal 2004 al 2024 (con un picco di 6mila solo nell’ultimo anno) e i bambini certificati nello spettro autistico sono passati da uno su 10mila negli anni ‘80 a uno su 77 oggi (negli Stati Uniti è uno su 36). Questo elemento, che pure pone delle domande sulla salute delle nuove generazioni e sull’ambiente che abbiamo costruito per loro, non basta da solo a giustificare le difficoltà della scuola italiana in tema di inclusione.

Più formazione per insegnanti e dirigenti

Secondo gli esperti – ma anche secondo gli stessi docenti – la formazione degli insegnanti gioca un ruolo fondamentale. «In molti vengono da me a lamentarsi perché sono in difficoltà a includere nelle loro classi», testimonia Maria Piani, pedagogista, dirigente scolastica in pensione e cofondatrice di ScuolainComune, associazione di secondo livello che si occupa di istruzione e di educazione in provincia di Udine. «Manca una cassetta degli attrezzi, una formazione specifica che permetta loro di affrontare gruppi di alunni obiettivamente complessi, in cui ci sono diversi bisogni educativi». Prima della pandemia Patrizio Bianchi, già rettore dell’Università di Ferrara e ministro dell’Istruzione del Governo Draghi, aveva provato a introdurre 20 ore di formazione obbligatoria sulle tematiche inclusive per tutti coloro che avevano in classe un alunno con disabilità. «Era una sperimentazione che meritava di essere perseguita», afferma Luigi D’Alonzo, professore ordinario di Pedagogia speciale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e delegato del rettore per l’integrazione degli studenti disabili del medesimo ateneo, «ma è stata abbandonata dopo un anno. Ci sono due cose che non vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola scuola su questo tema». Quest’ultima dipende in modo decisivo dai dirigenti scolastici. Dove c’è un dirigente che conosce l’inclusione, che chiede conto del lavoro, che costruisce una comunità educativa, le cose funzionano. Dove manca, tutto si inceppa. Le buone – anzi, buonissime – norme ci sono, bisogna saperle applicare. «Qualche tempo fa ero a Bruxelles per un progetto di ricerca sui ragazzi con autismo», continua il professore, «e una collega tedesca si è alzata e ha detto: “Voi italiani avete una grande responsabilità, siete il faro del mondo dell’inclusione!”. Da noi c’è una visione negativa, probabilmente perché non abbiamo messo in piedi una stabilità inclusiva: tutto dipende dalle competenze dei docenti e dei dirigenti».

Ci sono due cose che non vanno nell’inclusione: la preparazione dei docenti e una visione della singola scuola su questo tema

L’insegnante di sostegno, figura da valorizzare

Prendersi cura delle particolarità del gruppo-classe, comprese quelle degli studenti con disabilità, è compito di tutto il Consiglio di classe, non solo dell’insegnante di sostegno. Eppure, non si può negare che quest’ultimo possa costituire un coordinamento e una guida nell’inclusione degli studenti. Nonostante questo ruolo centrale, tuttavia, non sempre sono persone formate ad aggiudicarsi i posti scoperti. Basti pensare che, attualmente, gli insegnanti di sostegno di ruolo sono solo il 36%Tra i precari, c’è molta eterogeneità: qualcuno ha esperienza, altri sono alle prime armi e si trovano gettati allo sbaraglio a seguire classi con alunni con disabilità che non conoscono affatto. «Il numero di chi non è specializzato è tendenzialmente in calo, secondo gli ultimi dati era il 33%», spiega Ianes, «però se proiettiamo i dati in prospettiva, tra i pensionamenti e coloro che si spostano su una cattedra per insegnare la propria materia, ci vorranno 50 anni a coprire tutti i posti con personale competente».

Il modello tradizionale di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista

Ammettere la necessità di un maggior numero di docenti di sostegno formati, non significa però semplificare – e banalizzare – una formazione necessaria. La tendenza del sistema, tuttavia, pare essere questa: prima del 2010, servivano due anni di corso per specializzarsi, poi si è passati ai Tfa annuali e ora, coi nuovi corsi Indire, per chi ha tre anni di esperienza lo studio si riduce ad alcuni mesi. Tra l’altro, in modalità online. Questa possibilità doveva essere un’eccezione che durava un anno e invece è già stata prorogata. «È una scorciatoia, per poter dire di assumere docenti specializzati», commenta Ianes, «ma col rischio di non fornire una preparazione adeguata».

Perché la macchina dell’inclusione funzioni, c’è bisogno del coinvolgimento di tutto il sistema scuola. «Le classi sono sempre più eterogenee e i bisogni educativi coinvolgono tutti gli studenti, non solo quelli con disabilità», dice Carlo Scataglini, insegnante di sostegno, esperto di didattica inclusiva e autore di libri e testi facilitati. «Il modello tradizionale di didattica trasmissiva non funziona più per nessuno: né per chi ha difficoltà, né per chi è plusdotato. Serve un cambio di paradigma verso una didattica laboratoriale, cooperativa e costruttivista, capace di valorizzare le competenze e le inclinazioni di ciascuno».

La scuola non è un’isola, ma un tassello di una comunità educante

Come fare, però, a realizzare questa rivoluzione copernicana nel modo di concepire l’insegnamento? Si può demandare tutto alla buona volontà dei singoli docenti – o dei singoli dirigenti – e al loro sforzo nel gestire da soli tutta questa complessità? La ricerca di Erickson racconta di una grande solitudine degli insegnanti, evidenziando come l’aiuto più grande in termini di inclusività – ma anche, dall’altro lato, lo stress più importante – siano i rapporti con i colleghi. Nella scuola italiana non c’è supervisione, non c’è una figura di riferimento. Non c’è ancora un “educatore di plesso” strutturale, che pure è oggetto di alcune sperimentazioni, che possa dare una mano nelle situazioni più difficili.

Può tutta l’inclusione dipendere da una scuola che diventa un’isola scollegata dal territorio, in cui gli esperti esterni entrano solo per interventi una tantum? La risposta, ovviamente, è no. E allora, come fare?

Una delle possibili risposte arriva, in maniera quasi simbolica, da Trieste, patria d’adozione di Franco Basaglia, dove, più di cinquant’anni fa, l’impossibile è diventato possibile e la diversità ha smesso di essere qualcosa da tenere rinchiuso, separato, emarginato. Una delle lezioni della deistituzionalizzazione è che le rivoluzioni non si fanno da soli: serve un’alleanza con la società civile, con il mondo dell’arte, con le associazioni e le cooperative.

L’associazione “Oltre quella sedia”, che da più di vent’anni nel capoluogo giuliano si occupa di sostenere le persone con disabilità, all’inizio con percorsi di teatro, poi con progetti più estesi di autonomia, mette in pratica questa idea. «Entriamo nelle scuole, non con interventi singoli, ma attraverso una collaborazione con gli insegnanti curriculari e di sostegno», dice Marco Tortul, presidente e fondatore dell’associazione. «Forniamo formazione, ma creiamo anche dei percorsi per gli studenti con disabilità, che vengono inseriti nel Pei. Per esempio, c’era una ragazzina che aveva spesso delle crisi, faceva confusione in classe. Ma abbiamo scoperto che le piaceva cucinare. Così, l’abbiamo portata nei nostri appartamenti, in cui vivono persone adulte con disabilità, a fare attività ai fornelli. Con lei, poi, è venuta tutta la classe e, insieme, abbiamo fatto i biscotti. La visione della ragazzina è cambiata, perché non era più la persona che faceva confusione, ma quella più brava di tutti a preparare i dolci».

La scuola non deve essere un luogo chiuso, ma aperto al territorio, grazie a un’alleanza con il Terzo settore. «Alcuni obiettano “Ma chi le paga queste ore?”», racconta Tortul, «ma non si tratta di aggiungere tempo in più, solo di organizzare in maniera diversa il tempo già erogato. Per esempio, se un educatore lavora in un centro diurno per una cooperativa, può accogliere gli studenti durante il suo turno». Questo perché unire è aggiungere ricchezza per tutti, non toglierne.

E così, una scuola che esce nel suo territorio e lo vive insieme a una comunità educante può mostrare con l’esempio, oltre che con le parole, che l’inclusione è il solo modo per crescere, fuori o dentro le mura degli istituti. Le classi sono sempre più complesse, composite, variegate perché il mondo lo è. E non si può chiudere il mondo in una classe o in una scuola speciale: bisogna abbracciarlo e affrontarlo, insieme.

VITA



 

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