Ecco, viene:
è con noi
l’Emmanuele
Is 7,10-14; Sal 23/24; Rm
1,1-7; Mt 1,18-24
-di don Massimo Naro
Il Natale si approssima
sempre più e la liturgia della Parola mette a fuoco la figura di Giuseppe,
l’artigiano di Nazareth chiamato a fare da padre del Bambino che dovrà nascere:
quel Gesù che, come dichiara il suo stesso nome pronunciato in ebraico, «salverà
il suo popolo». Così si legge nella pagina evangelica, che costituisce la
versione matteana di quella che – nel vangelo secondo Luca – è l’annunciazione
dell’angelo a Maria.
In Matteo l’angelo
appare, invece, proprio a Giuseppe. Gli appare «in sogno» (kat’ónar).
Espressione, questa, che non vuol dire “mentre dormiva”, sprofondato nel sonno
(in tal caso, il termine greco, nel testo evangelico, qualche versetto dopo,
è hýpnos). Giacché, anzi, la sua coscienza era vigile, impegnata
nel discernimento della situazione in cui s’era venuto a trovare: la donna a
lui promessa in sposa è già incinta, ma l’onesto falegname non c’entra nulla.
Il «sogno» di Giuseppe è un momento di lucida riflessione sui fatti così come
stanno, tesa nondimeno a oltrepassarne le evidenze, per chiarirne la verità più
profonda, meno ovvia, meno scontata. La parola greca che l’evangelista adopera
per descrivere questa riflessione è enthymēthéntos: letteralmente
significa “mentre era concentrato in se stesso”, ritirato nel proprio intimo, a
vagliare innanzitutto i propri sentimenti, a esaminare i suoi desideri, a
verificare la giustezza del suo personale modo di “sentire” ciò che avveniva.
In latino la Vulgata traduce impiegando la voce verbale cogitare («haec
autem eo cogitante»), la medesima che – con Cartesio, ormai in piena epoca
moderna – avrebbe dato abbrivo alla svolta filosofica dalla metafisica
all’esistenzialismo. Giuseppe stava cogitando, stava pensando intensamente, si
stava seriamente interrogando, avvertendo certamente d’essere coinvolto in
fatti strani, ma non ancora del tutto consapevole della loro straordinarietà.
Nel sogno Giuseppe
traspare quale icona dell’essere umano che, come tale, non si esime
dall’esercizio di ragione. Egli, tuttavia, è disposto ad andare oltre la logica
umana, per non restare imprigionato nelle comuni convenzioni, senza puntare
alle proprie convenienze e intuendo che le proprie convinzioni possono pur
risultare arbitrarie. Quindi rientra in sé, ma per aprirsi all’interiore
interlocuzione con qualcun altro. Con Maria, il cui ricordo non vuole lasciarlo
e il cui destino lo impensierisce. E col sussurro divino che gli soffia dentro
l’animo, nel «sacrario del cuore» in cui ogni essere umano si ritrova «solo con
Dio» (lo insegna, ai nostri giorni, il concilio Vaticano II nel n. 16 di Gaudium
et spes). Lì gli appare l’angelo. Lì, cioè, emerge la presenza dell’Altro,
la cui voce – avrebbe detto Clemente Rebora – zittisce le chiacchiere di tutti
gli altri.
L’esercizio di ragione,
difatti, ogni volta che si smarca dall’autoreferenzialità si rivela autentica
relazione: incontro, confronto, dialogo, rapporto, legame, partecipazione
all’altrui vicenda, condivisione dell’altrui disagio, adesione a una più alta e
completa visione della realtà. Ciò che rimane irrelato – fuori dalla relazione
– è irreale e, per ciò stesso, irrazionale: non è pensabile e di conseguenza si
relega ai margini della realtà, resta improbabile e persino impossibile.
Giuseppe, il cogitante, se ne rende conto. Non per niente Giotto e
tanti altri grandi pittori lo hanno sempre raffigurato nella posa del
pensatore, accovacciato in disparte per dire la sua concentrazione, a reggersi
il mento con la mano o a massaggiarsi la fronte.
Ne deriva il suo
realismo. Giuseppe si desta dal sonno (apò toû hýpnou, potremmo
intendere: dall’ipnosi). Vale a dire che si libera dalle pastoie del senso
comune – dal conformismo e dal moralismo diremmo oggi – che avrebbe voluto
probabilmente il ripudio infamante o persino la lapidazione di Maria. Poi
esegue il compito affidatogli dall’angelo, facendo di Maria la sua sposa.
Insomma, il sogno lo libera dal sonno. Il suo sogno non è incanto, è
disincanto. È la via di fuga dal sonno della ragione autosufficiente. Il quale
– piuttosto – genera mostri. In virtù del sogno Giuseppe va oltre la ristretta
misura del “si è sempre saputo che” e del “si è sempre fatto così”. Conosce e
rispetta la legge mosaica, ma non la interpreta legalisticamente. Va alla
ricerca di una “giustizia superiore”, come l’avrebbe predicata Gesù nel suo discorso
della montagna, riportato in seguito dallo stesso evangelista Matteo: una
giustizia liberante, terapeutica e riparativa, non costringente, lesiva o
punitiva.
È la logica di Dio, che
si pone in relazione con noi, non ci lascia soli e compie la promessa fatta
tramite il profeta Isaia nella prima lettura: entra nei nostri pensieri,
stimola azioni nuove, stando assieme a noi, «Emmanuele» nel Bimbo che è nato a
Betlemme e che torna a nascere nei nostri cuori.
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