giovedì 30 gennaio 2025

LA PACE IN UN MONDO IN FRANTUMI


La pace possibile

 in un mondo in frantumi


Nel volume "Cercando un Paese innocente”, Pasquale Ferrara, direttore generale per gli affari politici al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, spiega come la guerra tenda a far salire alla ribalta due atteggiamenti polarizzanti: realismo e pacifismo. Ferrara suggerisce che non siamo costretti a scegliere: il realismo utopico può essere il punto di convergenza tra i due atteggiamenti, e quindi il punto di partenza per un nuovo modo di costruire la pace - in Yemen, in Ucraina, in Sudan, in Palestina

 -         di Maria Barletta

 “È più pazzo il pazzo, o il pazzo che lo segue?” (Obi-Wan Kenobi, Guerre Stellari – Episodio VI – Una nuova speranza). La domanda retorica di un Maestro Jedi in esilio ha più a che fare con il nostro mondo di quanto potrebbe sembrare, così come una citazione pop ha più a che fare con un libro di geopolitica di quanto avvenga di solito.

 È quel che rende diverso il libro “Cercando un Paese innocente” (edito da Città Nuova) di Pasquale Ferrara, direttore generale per gli affari politici al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, con il sottotitolo “La pace possibile in un mondo in frantumi”: l’abilità di trattare tutti i temi geopolitici scottanti e controversi che dominano il nostro presente non solo con la profondità e l’acutezza derivanti dalla lunga esperienza in diplomazia, ma anche con una curiosità intellettuale contagiosa ed una sensibilità umana che non teme di rifarsi alla delicatezza di una poesia di Montale, all’universalità di Shakespeare, alla saggezza di Yoda. Anche il titolo tratto da Ungaretti e l’epigrafe da Charlie Brown non sono velleità letterarie o strizzatine d’occhio, ma i primi segnali dello spirito audace e a volte controcorrente delle riflessioni e delle proposte avanzate.

 Oltre a muoversi tra le tante questioni (la crescente tensione tra le potenze mondiali, le responsabilità della globalizzazione, le crepe dell’ordine internazionale…) che compongono lo stato di policrisi in cui siamo immersi, quasi come in un quadro di Escher senza vie di fuga, Ferrara si preoccupa in particolare di affrontare il modo in cui noi stessi, come società e come individui, pensiamo a tali questioni e a come immaginiamo – o non riusciamo a immaginare – di venirne a capo. Un tema su tutti: la guerra, che tende a far salire alla ribalta due atteggiamenti polarizzanti: realismo (lettura del mondo in termini di puri rapporti di forza) e pacifismo (rifiuto della violenza e ricerca, a tutti i costi o quasi, di soluzioni che vi mettano fine il prima possibile).

 Il realismo è spesso considerato l’atteggiamento più maturo e razionale, mentre il pacifismo un’illusione, una presa in giro, nel migliore dei casi un’utopia. Tuttavia, prima o poi vale la pena chiedersi: se si corre a rotta di collo verso un precipizio, è più realista chi cerca di frenare o chi tira dritto, magari pensando che la caduta non farà così male o che tanto qualcun altro ne uscirà anche peggio? Allo stesso tempo, se la cautela nel valutare soluzioni di pace è giusta, non c’è niente di più realista del constatare che la pace si fa sempre con i nemici – quel che viene fatto passare per impensabile prima o poi dovrà avvenire.

 Ma Ferrara fa ben più che parteggiare per l’uno o per l’altro: suggerisce invece che non siamo costretti a scegliere, riallacciandosi al realismo utopico di Morten Tønnesen. Un cambiamento radicale dello status quo risulta spesso molto più arduo da concepire rispetto alla sua continuazione, ma a ben vedere quel che è davvero irrealistico è pensare che qualunque data situazione sia perpetua, indefinitamente sostenibile: “un realista utopico è colui che […] ha il coraggio di lottare per idee e stati desiderabili (non importa come siano le prospettive a breve termine) e che ha la consapevolezza che lo status quo è solo un fenomeno passeggero”. Questo è tanto più vero per le situazioni di conflitto, per cui sarebbe nel migliore interesse anche della parte (più) offesa pensare alla pace, cioè al futuro. Il realismo utopico può essere il punto di convergenza tra i due atteggiamenti/schieramenti, e quindi il punto di partenza per un nuovo modo di costruire la pace – in Yemen, in Ucraina, in Sudan, in Palestina.

 Una delle suggestioni più affascinanti del libro è il suggerimento che la distanza tra la realpolitik e Gabriel García Márquez è tanto breve o ampia quanto vogliamo, o lasciamo, che sia. Che il realismo di una certa concezione delle relazioni internazionali e il realismo magico di un Nobel per la letteratura possano esistere nella stessa dimensione può apparire ingenuo solo a chi non segue attentamente le argomentazioni di Ferrara, che non sorvola affatto su errori e mancanze dell’ordine internazionale, ma nemmeno lascia che schemi di pensiero ottusi o tarlati da cinismo inibiscano la volontà di continuare a immaginare soluzioni etiche ed efficaci.

 Si scopre così che le linee di frattura che ci separano e rendono tanto fragili possono essere attraversate – quando non colmate – da persone (in politica, diplomazia, nella società civile) animate da partecipazione, sollecitudine, buona volontà, disposte ad esporsi per permettere che si crei fiducia reciproca – da cui il dialogo, da cui la pace, da cui la salvezza.

Vita


RELIGIONE e POLITICA



Nel tempo di massima incertezza e paura, il potere tende a configurarsi come quello di un Dio al quale sottomettere la propria volontà in cambio di sicurezza e protezione.


- di Massimo Recalcati 

Lo Stato laico separa la vita politica dalla fede religiosa. Si tratta di una separazione che ispira sin dalle sue origini la vita della democrazia. Uno dei fondamenti della democrazia consiste, infatti, nel non confondere il piano della dialettica politica e dei suoi inevitabili conflitti con quello della lotta tra religioni.

Fare, al contrario, della lotta politica una guerra tra religioni è lo spirito che anima ogni forma di fanatismo che si colloca in netta alternativa allo spirito laico della democrazia. Freud faceva notare come l’esperienza della psicoanalisi fosse intimamente laica in quanto fondata sul rifiuto dell’esistenza di verità ultime. Quello che conta non è il possesso indubitabile della Verità ma la sua ricerca continua. 

Invocare Dio nella lotta politica significa invece sottrarre la politica al dubbio e, dunque, alla sua dialettica più vitale. È quello che sta accadendo nel conflitto israeliano-palestinese ma è anche uno dei tratti più inquietanti che ai miei occhi unisce la figura di Putin a quella di Trump. 

Nel suo recente discorso di insediamento alla Casa Bianca il neo presidente degli Stati Uniti si presenta come un unto del Signore, salvato miracolosamente dall’attentato che durante la campagna elettorale avrebbe potuto ucciderlo. Non si è trattato dunque di un episodio drammatico che si è risolto fortunatamente bene, ma di un vero e proprio segno che identifica Trump come l’uomo della provvidenza in grado di liberare gli Stati Uniti dalla corruzione dei costumi, dalle pastoie di un sistema politico votato all’impotenza, dal decadimento attuale del suo prestigio mondiale. 

È questo un nesso piscologico che troviamo storicamente alla base di ogni tendenza anti-democratica: se Dio mi ha nominato, il mio insediamento non dipende dalla meschinità invidiosa degli umani, ma da una consacrazione che si situa al di là di ogni Legge. 

L’evidente tratto narcisistico di personalità di Trump si fonde così con l’altrettanta evidente spinta megalomanica a porsi come il salvatore dell’America e il redentore dei suoi irrinunciabili valori morali. 

Con l’aggiunta che questa narrazione non ha più i toni del fanatismo ideologico che troviamo nel Novecento, ma quelli di un cinismo disincantato. Per questa ragione non deve stupire più di tanto che i panni del restauratore della moralità e dei valori della tradizione vengano indossati da chi personalmente questi panni li ha sempre di fatto ritenuti zavorre insignificanti. 

È qualcosa che conosciamo bene: la vita privata di un leader può presentarsi come discutibile dal punto di vista valoriale, ma questo non gli impedisce di proporsi come guida morale del proprio paese e del suo popolo. Si tratta però di una evidente scissione. La stessa che Trump applica politicamente nella lotta contro la parte più marginale della società della quale i migranti rappresentano il simbolo più rilevante. 

Se la religione universalista nel suo afflato solidale si manifesta per la sua inclusività — è il continuo appello alla fratellanza di papa Francesco — la religione nazionalista che sostiene la spinta antidemocratica trumpiana non è affatto inclusiva, ma tende a generare, appunto, scissione, discriminazione e esclusione. 

Non a caso la vescova Marianne Budde ricorda a Trump questa contraddizione nel suo appello alla pietas come forma di inclusione politica. Ma il punto è che Trump, come Putin, utilizza il discorso religioso non per salvare gli ultimi o per dare a loro speranza, ma per giustificare il carattere tendenzialmente assoluto del proprio potere. Essi fanno, seppure in modi e in contesti culturali diversi, della lotta politica una lotta tra religioni contraddicendo il principio cardine della democrazia. 

La distruzione sistematica (Putin) o la profonda allergia (Trump) nei confronti di ogni forma di dissenso riflette questa logica religiosa. Il dittatore russo non intende rappresentare la Legge perché è la Legge. Non a caso uno dei suoi più potenti alleati è la Chiesa ortodossa di Mosca. Il rifiuto della democrazia coincide con il rifiuto tout court dell’Occidente che viene interpretato come degenerazione morale e nichilismo valoriale. 

Sia in Putin che in Trump la riaffermazione nazionalista e sovranista si combina così con la restaurazione dei valori della tradizione che vengono sostenuti come delle verità religiose assolute. Ma se la posizione di Putin è chiara nella sua franca opposizione al cancro dell’Occidente, Trump appare invece come una sorta di corpo paradossale che per un verso è del tutto estraneo alla cultura della democrazia ma, per un altro verso, è il suo prodotto mostruoso. 

È, infatti, la maggioranza degli americani che lo ha scelto come proprio leader. È il rischio che abita ogni democrazia in quanto forma necessariamente incompiuta e fallibile di governo, ovvero quello, in tempi di crisi, di volgere il proprio sguardo verso le forme più autoritarie del potere. 

Ritroviamo qui in primo piano una considerazione hobbesiana di Freud di fronte all’affermazione dei totalitarismi nel Novecento: nel tempo di massima incertezza e paura, il potere tende a configurarsi come quello di un Dio al quale sottomettere la propria volontà in cambio di sicurezza e protezione.

Alzogliocchiversoilcielo

La Repubblica

 

 


mercoledì 29 gennaio 2025

ALLA RICERCA DELLA FELICITA'


 A Bucarest 

con il Mago di Oz

 e oltre: 

studiare

 è capire

 come si fa 

ad essere felici



Alla scuola Aldo Moro di Bucarest (Romania) studiare 

è un 'esperienza, un viaggio affascinante

per scoprire il senso delle cose


-         di Giulia Sponza

 Per che cosa vale la pena intraprendere un viaggio? Questa la provocazione – stimolata dalla storia di Frank Baum, Il Mago di Oz – con cui la scuola italiana “Aldo Moro” di Bucarest ha scelto, a settembre, di cominciare il nuovo anno scolastico. Mai dare per scontato l’inizio, perché dentro ogni inizio si cela misteriosamente lo sviluppo di un intero percorso, insieme alla possibilità di verificare come verrà mantenuto vivo il germe della promessa che ha consentito a ciascuno di intraprendere il viaggio.

La storia della piccola Dorothy e di Toto, sollevati in volo con tutta la loro casa da un violentissimo tornado, ha offerto lo spunto e sollecitato le domande che hanno animato lavoro e progetti nelle singole classi, dalla scuola primaria a quella superiore.

L’incontro con quattro Streghe, due buone e due cattive, che abitano il paese di Oz dove i due bambini sono atterrati, si rivela decisivo: occorre trovare, suggerisce una delle Streghe buone, il misterioso mago di Oz, l’unico in grado di aiutare la piccola Dorothy a ritornare a casa.

 Mentre i due giovani protagonisti si impegnano nella ricerca, cresce il numero dei compagni che si unisce alla loro avventura. Emergono, lungo il cammino, le domande cruciali da rivolgere al Mago pronto ad esaudire ogni desiderio: qualcuno vorrebbe chiedere un cervello, qualcuno un cuore, altri il coraggio.

Così anche nelle singole classi si accendono e si intrecciano con fantasia molteplici attività e, come spesso capita, ciò che ti aveva mosso e che presumevi di scoprire, ti viene restituito nuovo con una sovrabbondanza del tutto imprevista. Aiutarsi a riconoscerla e a farla fruttare diventa parte imprescindibile di un affascinante percorso.

La provocazione iniziale, perciò, non si arresta, anzi si alimenta, donando a giovani e non più giovani un cuore stupito e un’insolita curiosità: le tappe del cammino hanno rilanciato le domande ed è l’esperienza a rivelarsi la vera protagonista di questa avventura, almeno per quanti hanno accettato di lasciarsi “ferire”: un ragazzetto confessa con semplicità disarmante che, se all’inizio dell’anno desiderava innanzitutto essere promosso, ora invece desidera scoprire come si possa essere felici; un altro mette a tema la segreta speranza che i suoi genitori comincino a volersi bene; chi è più battagliero chiede superpoteri per sconfiggere le guerre, e chi si affligge del dolore altrui implora che i bambini del mondo non soffrano più.

Si conferma così ciò che tante volte ci è stato ripetuto: non aspettatevi un miracolo, ma un cammino. Per tornare a casa, cara Dorothy, non serve la bacchetta magica, ma la pazienza di compiere tutti i passi che il tempo, richiesto a ciascuno, esige.

C’è un’altra novità, quest’anno, all’Aldo Moro: ha preso l’avvio il liceo di Scienze applicate. È commovente accorgersi di quanto spesso le famiglie decidano di iscrivere alla nostra scuola i loro figli: forse per la stima che, più o meno consapevolmente, nutrono verso la proposta educativa che hanno intravisto. Nonostante a Bucarest esistano parecchi istituti in grado di curare con successo soprattutto le discipline scientifiche e la tecnologia, la scelta cade di frequente sulla scuola italiana.

Difficilmente sfugge, specie allo sguardo di certi genitori, la passione educativa che, al di là di limiti e incoerenze, anima certi professori: uscite, incontri, gite, dialoghi, confronti a cuore aperto finiscono per lasciare una traccia indelebile anche nei più coriacei adolescenti di “ultima generazione”.

Un primo aspetto particolarmente seguito è quello culturale. Diversamente da quanto accade in quella romena, la scuola italiana a Bucarest promuove frequentemente eventi connessi agli ambiti più stimolanti del ricco e variegato patrimonio dell’intellighenzia locale. Personalità di spicco che hanno influenzato e influenzano il panorama letterario, storico, della tradizione teatrale, cinematografica e musicale romene, trovano all’”Aldo Moro” uno spazio di intervento o di confronto finalizzato a educare i ragazzi a quel senso civico e a quella responsabilità cui ogni singolo cittadino è chiamato a fornire il proprio contributo. Difficile non riconoscere come un Paese martoriato al pari della Romania stia ancora metabolizzando i lunghi anni di “sovranità” comunista e di duro regime.

Un esempio per tutti può dirsi rappresentato dalle recenti vicende elettorali che vedono proprio la Romania al centro di un dibattito dai toni accesi, dove i giudizi sono ancora confusi, i pareri restano contrastanti, posizioni opposte mancano di riferimenti chiari e di criteri adeguati in grado di spazzar via ambiguità ed equivoci. Nulla pertanto si sottrae a un giudizio comune, niente viene liquidato con l’indifferenza superficiale di chi potrebbe dire: “questo non mi riguarda!”

Mi focalizzo, allora, sul secondo aspetto: quello che definirei più “esistenziale”. Senza maschere né timori, gli adulti affrontano nelle classi le problematiche più disparate: si chiede conto ai ragazzi del perché di certi comportamenti, non vengono ignorati atti di bullismo, si lascia spazio alla narrazione di singole esperienze provando insieme a reperirne il senso e la positività. Non si tratta mai, evidentemente, di “processi sommari” intentati dal tribunale dei professori per reprimere o punire. Si è orientati piuttosto a individuare il disagio, a identificarne le ragioni, a evidenziare il vuoto che alberga nel cuore di tanti e che spesso si traduce in violenza, in isolamento, in chiusura. È così che si tenta di tutelare i soggetti più fragili che non sempre dispongono di figure istituzionali di sostegno.

A documentare la positività e l’efficacia di questi sforzi contribuiscono non poco gli ex alunni che, iniziato da poco il percorso universitario, di frequente tornano a scuola anche solo per salutare quanti hanno partecipato alla loro crescita e maturazione.

C’è forse qualcosa di più gratificante? Uno studente che, essendosi accorto di come gli sei stato padre e maestro, desidera raccontartelo e ringraziarti per avergli consentito di intravedere, sia pure per un breve tratto di strada, quanto la sua vita abbia un valore, innanzitutto ai tuoi occhi prima ancora che ai suoi.

 Il Sussidiario

Scuola A Moro - Bucarest

Immagine


 

 

 

AIMC - ADESIONI 2025

 

Campagna Adesione 2025

Un Nuovo Anno, nuove sfide


Ambizione, Ispirazione, Motivazione e C
rescita”

Ogni Docente, ogni Educatore, è un faro che illumina il cammino delle nuove

generazioni.

La Campagna Adesioni AIMC 2025 è un invito a coltivare sogni più grandi, ad educare

con passione e a costruire insieme una SCUOLA radicata nei valori della FEDE e

dell’umanità.

Quattro valori, una missione:

Ambizione:

Mirare all’eccellenza, trasformando ogni giorno in un’opportunità per migliorare.

Ispirazione:

Lasciarsi guidare dai valori cristiani e diventare una guida autentica per i nostri alunni.

Motivazione:

Affrontare le sfide con entusiasmo, creando un legame indissolubile tra educatori e

studenti.

Crescita:

Investire nella formazione continua, nell’innovazione didattica e in una Scuola che

guarda al domani.

Campagna Adesione 2025

Un Nuovo Anno, nuove sfide

AIMC non è solo un’Associazione: è una Comunità di “Maestri” (Ispettori tecnici,

Dirigenti scolastici, Docenti di ogni ordine e grado di Scuola) che condividono esperienze,

conoscenze e valori. Aderire significa accedere a formazione continua, dialogare con le

Istituzioni e contribuire ad una Scuola che educa la mente e nutre il cuore.

Perché scegliere AIMC?

Perché l’Educazione è il motore del cambiamento, ed ogni docente è un costruttore di

speranza. Insieme possiamo trasformare le sfide in opportunità e donare alle nuove

generazioni il dono più prezioso: un futuro ricco di valori.

Ambizione. Ispirazione. Motivazione. Crescita.

Non lasciare che siano solo parole. Falli tuoi.

Educare è un atto d’amore.

Buon Anno Associativo a tutte/i Soci e a ciascuno di Voi.

 

La Presidente

Esther Flocco

martedì 28 gennaio 2025

L'ARTE DELLA COLLABORAZIONE


 È necessario unirsi, non per essere uniti,

 ma per fare qualcosa insieme, 

valorizzando tutte le risorse

– Goethe –

 

-         di Silvano Brunelli*

 La collaborazione è un’arte complessa e raffinata di cui tutti abbiamo bisogno, non ne possiamo fare a meno. La mancanza di questa abilità, la mancanza degli effetti benefici, che essa produce, va oltre il successo mancato. La personalità è povera, circoscritta, predisposta alla solitudine. Che cos’è la collaborazione dal punto di vista evolutivo della nostra specie? La collaborazione è un’espressione, che ha origine nell’affinità spontanea, di cui biologicamente tutti siamo dotati. Abbiamo sviluppato individualità consapevoli della loro singolarità, siamo anche profondamente esseri sociali. 

 L’abilità di prendere e di mantenere accordi è una proprietà umana. In molti casi collaborare è facile e naturale. Questa naturale propensione alla collaborazione è disturbata, colpita da una infinità di fattori. Informazioni nascoste la minano, la inquinano, la deformano. La natura umana è collaborativa, ma è anche incline alla competizione, all’inganno, alla menzogna, al tradimento, al guadagno egoistico e nascosto. Siamo alterati dal successo degli altri, gelosi di ciò che riteniamo solo nostro e invidiosi ci ciò che appartiene solo all’altro.    

 Il modo in cui si entra in contatto, il modo in cui ci si collega, il modo in cui si opera lo scambio, determina l’esito e il successo della collaborazione. 

 La collaborazione ha gli stessi fondamenti della relazione. Lo scambio di informazioni non è in grado di mantenere la collaborazione stabile fino al risultato. Per una collaborazione sana e buona è necessario il contatto tra un individuo consapevole e un altro individuo consapevole. Solo dopo, solo su questo fondamento può avvenire uno scambio vero, utile, leale. Lo scopo evolutivo della crescita, prima ancora di ottenere risultati, è entrare in contatto. Entrare in contatto promuove lo scambio vero. Lo scambio produce il risultato utile. La crescita della persona ha l’esigenza di stabilire una relazione profonda, intima, duratura e stabile. Le persone coinvolte sono disponibili a credere, a seguire le indicazioni e i suggerimenti reciproci. 

 Veicolare un’informazione che non ci rappresenta veramente, un’informazione non coerente, mancherà lo scopo intrinseco della crescita. Veicolando solo informazioni, sostituendo il contatto con surrogati, si possono raggiungere risultati, però a lungo termine il risultato non tiene. Privo di una parte fondamentale della relazione, il risultato mancherà di completezza esistenziale. Il ricercatore senza contatto autentico, convinto di poter ingannare, adotta un comportamento nevrotico, cerca risultati sempre più grandi, crede che solo questi possano dargli completezza. 

 Un punto di partenza è porsi le domande: “Come e perché ci colleghiamo agli altri? Perché e come gli altri si collegano a noi?” Scopriremo il primo passo di una complessità di relazione da affrontare e da gestire per liberarne tutto il potenziale. Le età evolutive richiedono chiavi diverse di accesso alla relazione. I bambini, gli adolescenti e gli adulti hanno bisogno di approcci diversi per aprire, sviluppare relazioni di alta qualità. Con gli adulti il percorso si complica, perché in ogni esperienza possono cambiare il modo e le ragioni di collegamento con gli altri.

Vanno sempre verificate la profondità del contatto e la qualità dello scambio. Il contatto è il processo, che collega all’altro in modo forte e profondo. Grazie al contatto possiamo attraversare le esperienze, possiamo sostenere lo scambio di contenuti anche moto diversi, divergenti o difficili. Il contatto deve collegare, non legare. L’individualità consapevole crea il ponte, che raggiunge l’individualità consapevole dell’altro, collega due individui che trovano intimità nella comprensione e nell’affinità indifferenziata (senso di unione). Questo contatto lascia sempre l’altro libero di essere, libero di esprimere la sua unicità e la sua diversità. Il contatto sul piano della consapevolezza è fondamentale nella relazione di coppia e nell’educazione. Il contatto permette di assumere, di maturare la stima e l’autorevolezza necessarie, stima e autorevolezza grazie alle quali lo studente è sostenuto e accompagnato nel suo progresso, la relazione può sostenere il processo di emancipazione, liberare lo studente dalla figura di riferimento, renderlo autonomo e libero. 

 Il fulcro che tiene la bilancia della collaborazione è il contatto. Lo scambio muove la bilancia, che si sposta in modo imprevedibile. La collaborazione è sempre in movimento ed è impegnativo tenerla in equilibrio. Lo scambio è e deve essere un flusso ricco di variabili. Il fulcro ordina il movimento. Questo è il contatto nella relazione. Lo scambio muove la relazione in un verso e nell’altro, mantiene coerente la connessione. Il fulcro della relazione è l’elemento statico, lo scambio è dinamico. Statica e dinamica rendono la relazione stabile e fluida. Una relazione salda nel contatto e fluida nello scambio è una relazione in evoluzione.  

 Trovare perché collaboriamo con l’altro, indagare e scoprire perché l’altro collabora con noi è il processo profondo per il contatto, per il punto fermo. Verifichiamo se il contatto è unione o legame. L’unione consente la libertà di scelta propria e altrui. Il legame no. L’unione rende stabile la relazione, lo scambio attiva l’evoluzione. Il legame privo di unione teme lo scambio. Ogni elemento dello scambio può rompere il legame, ogni elemento può svelare l’inclinazione della persona a contenere l’altro, a impedirgli altri contatti e altri scambi. Il legame come sostituto del contatto è la ragione del turnover nelle relazioni. La relazione sostenuta solo dallo scambio, priva di contatto, guidata da un legame esclusivo, si esaurisce, diventa relazione disturbata o malata. Un esempio è la relazione disturbata che porta al femminicidio. Il legame è incapace di concepire e di sostenere la libertà di scelta dell’altro. Il legame fatto di bisogni, guadagni, desideri e sentimenti deve maturare in relazione di qualità diversa, in elemento di importanza cruciale, nel frutto più importante della consapevolezza. La consapevolezza è autobastante, totalizzante, non ha bisogno di altro. Il contatto consapevole e lo scambio producono la capacità di originare, di generare un’intenzione autentica. Le intenzioni guidano la relazione.

 L’intenzione è la stella polare per la rotta, che porta alla collaborazione. Originare e riconoscere le intenzioni è il punto di partenza di ogni relazione di alta qualità. Il passo successivo è comunicare le proprie intenzioni e renderne partecipe l’altro. 

È fondamentale conoscere le intenzioni dell’altro, invitarlo a condividerle. Gli esseri umani hanno il potenziale di originare e di condividere le intenzioni. Non tutti sono in grado di sviluppare l’abilità del contatto vero e profondo, non tutti sono in grado di originare intenzioni. Anche quando sono presenti e consapevoli, le intenzioni sono oggetti difficili da condividere.  

 Una personalità incapace di originare intenzioni nella relazione è cieca alle intenzioni dell’altro, sviluppa la relazione su basi diverse dal seme etico della consapevolezza. La sua relazione si struttura su stimoli, desideri, guadagni, meccanismi reattivi. 

Come si maturano le intenzioni? Conoscendo se stessi, entrando in contatto diretto con se stessi. Come si scoprono le intenzioni di un altro? Conoscendo direttamente l’altro. Se non si originano o, pur avendo originato intenzioni, non si condividono, non si è in grado di concepire-vedere il fine comune. Se le intenzioni non coincidono, non si avviano collaborazioni.

 Se le intenzioni coincidono, nasce l’affinità, è probabile che si veda un fine comune. Se le abilità sono sufficienti a sostenere il fine, nasce la collaborazione. Il meccanismo funzionale può essere descritto da due formule. 

 Formula 1

Attenzione + intenzioni condivise + affinità + fine comune + abilità =  Risultato

Questa è la formula della relazione, questa è la magia della relazione.

Le intenzioni condivise sono la via maestra della collaborazione, la collaborazione porta i risultati. La nuova relazione inserisce nella formula proprietà di grande valore come l’appartenenza, la lealtà, la visione di un futuro comune migliore. 

 Formula 2

Attenzione + intenzioni condivise + affinità + fine comune + abilità + risultato + appartenenza + lealtà = Visione di un futuro condiviso migliore.

Il tentativo di collaborare può sollecitare i difetti e le fragilità della relazione. Il sintomo di collaborazione immatura o incompleta è la resistenza. La resistenza è invisibile, nascosta, ma gli effetti sono lamentarsi e criticare. La resistenza indica la presenza di un un’intenzione o di un fine diverso dal fine condiviso. Spesso questa divergenza non è consapevole nella persona che la origina. A volte è consapevole, ma non condivisa. A volte la ragione della resistenza alla collaborazione non ha origine in un’intenzione o in un fine divergente, ma si colloca nel timore di non possedere le abilità per realizzare lo scopo e ottenere il risultato. 

 Le critiche e le lamentele rivelano in tempi non sospetti le intenzioni nascoste; non c’è un fine comune per cui collaborare e convergere.  Oppure il fine è diverso, non è lo stesso per chi critica e si lamenta. Si sente di non essere all’altezza del compito e la resistenza ha la funzione di mascherarlo. Il sintomo principale della collaborazione funzionale è l’entusiasmo. Un’energia alta, intensa e coinvolgente, la creatività e l’affinità sono fluide e spontanee.  

 Capita che l’affinità si condensi da sola, naturalmente e spontaneamente. Ne siamo dotati potenzialmente, come il neonato che emette una vocale o una consonante. Ma per apprendere la lingua madre si attraversa un processo più complesso. 

Il modello di collaborazione tra conduttori richiede l’apprendimento, l’esercizio, l’applicazione con gli educatori, con noi formatori, con i colleghi conduttori, docenti e maestri e con la Scuola per poi portarlo nella conduzione. 

 Una forma immatura di collaborazione non porta alla realizzazione dei fini comuni, a un futuro insieme; la forma immatura sviluppa un legame insano, per emergere dal quale si dovranno spezzare delle relazioni. Una collaborazione immatura crea legami su basi e su ragioni personali, manca e fallisce nella parte più importante del nostro lavoro di relazione, emancipare, rendere liberi e autonomi gli altri. Una forma immatura di relazione non è capace di creare un legame su base impersonale, su base di unione incondizionata tra individualità consapevoli.  

 * Direttore per la ricerca del Centro Studi Podresca, ricercatore, docente e formatore nei master per l’abilitazione alla docenza.

Cofondatore di Scienze delle abilità umane, innovazione per la persona e la società, un sistema inedito di ricerca e formazione.

Autore dei percorsi di studio Abilità nella vita, Abilità della persona, Mente funzionale e Scuola delle abilità. Coautore dei percorsi formativi Business Synergy, Abilità di relazione e della materia di studio Abilità personali per bambini e ragazzi.

Relatore al Meeting Europeo Development of Human Abilities in Education.

Ha portato il suo contributo in occasione dell’Expert Group Meeting (Bruxelles 2012) e dei convegni presso le Nazioni Unite The role of families in social development (New York 2014) e The role of families in the future we want (New York 2015).

Vice presidente di Vitae ONLUS, Associazione di Volontariato per la Qualità dell’Educazione.

 Autore dei libri: La mia vita, La vita è mia, Scoprire chi sono io, Nel labirinto della mente, La teoria dell’essere vol. I-II, Le abilità personali nell’educazione, Il paradigma della comprensione, Intensivo sull’Essere Consapevole. 

Coautore dei libri: Scienze delle abilità umane, Volontà creativa, L’arte di educare e del testo didattico Le abilità per imparare.


 

 

lunedì 27 gennaio 2025

DIO DOV'ERA ?


 La storia di Miklós Radnoti 

e di Fanni Gyarmati, ungheresi: 

lui, ebreo, venne spedito 

in un campo 

di concentramento. 

Da cui emersero le sue poesie.


- di Alessandro D’Avenia

Gli innamorati si danno sempre soprannomi, perché vedono ciò che il mondo non vede. Loro scelsero i fanciulleschi Mik e Fifi, perché amare è custodire il bambino che c'è nell'altro o curare il bambino che l'altro non è potuto essere. 

 Lui è Miklós Radnoti, ebreo, promessa della poesia ungherese, occhi malinconici per nostalgia della madre morta dandolo alla luce; lei Fanni Gyarmati, insegnante, occhi azzurri quanto il suo amore per la letteratura. Quando la gente li vede passeggiare nella capitale ungherese desidera entrare nel loro cono di luce, che le loro foto insieme mostrano. 

 Si erano riconosciuti a una lezione di matematica, lui 17, lei 14, nel 1926, e sposati nove anni dopo. Altri nove ne sono passati, con le luci e le ombre di ogni capolavoro, quando nel 1944 i nazisti occupano l'Ungheria e mandano Mik in un campo di lavoro da dove riesce a scrivere a Fifi parole essenziali, come i suoi versi: «Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per te». 

 Eppure la guerra finisce e trascorrono i mesi, 18, senza notizie. E lei che legge e rilegge quella promessa capisce: ha scritto «resterò in vita», e non «tornerò». E così lo va a cercare nel campo in cui era stato deportato. Vuoto. Chi ama non si dà per vinto, ma per vivo. E continua a cercare. Dove? 

 Scopre che i prigionieri erano stati portati dai tedeschi in un'altra località vicina, Bor, in Serbia, in una notte di novembre, di ghiaccio e di sangue. Anche lì dopo un anno e mezzo domina un apparente silenzio, nel quale lei, mentre passeggia tra le baracche vuote, ricorda (che cosa è la memoria se non vita che non può più morire?) un verso di Mik: «ero fiore, sono diventato radice», che solo ora può capire, fissando un cespuglio di fiori bianchi sopra il terreno smosso. «Ubi amor ibi oculus», dicevano i mistici medievali: chi ama, vede, perché l'amore non acceca ma ci vede benissimo... 

 E così chiede ai soldati di presidio di scavare, lì sotto. Loro non resistono al dolore che ha reso quella donna folle e, per pietà, l'assecondano, in realtà è lei l'unica lucida, l'unica ad amare e quindi a vederci bene. Infatti le radici di quei fiori sono i corpi di una fossa comune dove, un anno e mezzo prima, erano stati gettati i prigionieri. Ora restano solo vestiti laceri su ossa irriconoscibili, ma Fanni scorge un cappotto familiare su cui è incollato il numero 12, fruga nelle tasche e trova un taccuino dalla grafia inconfondibile, che parla proprio a lei in forma di poesia: 

 «Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano./ ...Io solo/ sono sveglio, assaporo un mozzicone invece di un tuo bacio/ e il sonno tarda a darmi conforto, perché/ ormai non posso più morire né vivere senza di te». 

 Lo psichiatra ebreo Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di sterminio, avrebbe avuto ulteriore conferma di ciò che sosteneva: hanno resistito soprattutto quelli che, oltre il filo spinato, avevano qualcosa da portare a compimento, un pezzo di mondo per cui erano insostituibili, per Mik era Fifi. Con lei, durante i giorni di prigionia, aveva infatti intrattenuto un dialogo in versi nell'unico tempo verbale che conosce la poesia: l'eterno presente. 

 E in versi intitolati Lettera alla sposa le scrive: «Non so più quando potrò vederti di nuovo,/ bella come la luce, bella come l’ombra,/ colei che ritroverei anche da cieco e muto./ Sposa e amica./ So che ti ritroverò,/ ho percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima,/ e strade di paesi; se serve con una magia attraverserò/ braci di porpora, fiamme che precipitano, ma tornerò». 

 «Percorrere la lunghezza interminabile dell'anima per tornare» è una delle più accurate definizioni d'amore che io conosca. 

 Mik si era trascinato per trenta chilometri nella notte gelata, mentre lo picchiavano ripetendogli «ecco lo scribacchino!». e poi un giorno gli avevano sparato. Ma proprio la sua scrittura aveva tracciato la via del ritorno, infatti il taccuino che Fanni aveva in mano, il Taccuino di Bor, è l'unica raccolta di poesie sopravvissuta a un campo di concentramento. 

 Mik, morto a 35 anni, aveva mantenuto la promessa, «resterò in vita per te», ma il «per» significava anche «grazie a»; e Dio aveva ascoltato la preghiera che Fanni ripeteva da quando avevano catturato Mik: «prendi me al suo posto». Dio esaudisce a modo suo, perché le preghiere non servono a cambiare la realtà ma a cambiare chi le fa, e così Fanni visse fino al 2014, 102 anni, facendo memoria di Mik: gli anni sottratti a lui furono dati a lei che non smise di ripetere il suo nome al mondo e l'orrore del nazismo. 

 Ho inserito questa storia tra quelle dedicate alle donne di Ogni storia è una storia d'amore, e raccontarla una volta ancora è il mio modo di vivere l'odierna Giornata della Memoria, di cui Fanni e Miklós sono l'incarnazione. 

 Lei frugò anche nell'altra tasca del cappotto di lui, a sinistra, e vi trovò due fotografie. Una era di lei bambina, l'altra di lei donna. Mik le teneva vicine al cuore per ricordarsi che amare è custodire il destino dell'altro, il bambino nell'altro. Era davvero rimasto vivo per lei, e lei rimase viva per lui, perché fare memoria non è suscitare sensi di colpa ma dare vita. 

 Fanni si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne l'inesistenza, perché conosceva la risposta:

«Ero dove era l'amore, ero dove era il dolore.

 Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. 

Sono dove siete voi. E lì sarò sempre».  


Corriere della Sera

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DIAMO SENSO ALLA VITA

 


Sui social basta 

col “qui e ora”, 

diamo senso alla vita


Il Giubileo della speranza ci invita a ripensare il modo in cui usiamo gli strumenti digitali. La rete può diventare uno spazio di costruzione e non più solo di consumo. Proviamoci sul serio.

 - di Roberto Ravagnani*

Viviamo in un’epoca in cui la comunicazione è dominata dalla velocità e dall’immediatezza. I social network, in particolare, sono diventati il luogo in cui si consuma gran parte dell’informazione quotidiana, con contenuti che spesso si esauriscono nell’istante, senza offrire prospettive a lungo termine. In questo contesto, il Giubileo della Speranza si presenta come una sfida e un’opportunità: ci invita a guardare oltre l’attimo presente e a comunicare in modo più autentico, capace di ispirare e aprire orizzonti di futuro.

Tanti contenuti online sono superficiali e fini a se stessi. Intrattengono, ma non provocano, informano, ma non interrogano. Scorriamo immagini e parole che catturano l’attenzione per pochi secondi, lasciandoci però con un senso di vuoto.

Il rischio è rimanere schiacciati sul presente, incapaci di pensare a ciò che verrà.

La speranza, invece, è una forza che spinge avanti, che invita a costruire un domani migliore. Comunicare speranza significa uscire dalla logica del “qui e ora” e promuovere una narrazione capace di dare senso e direzione alla vita.

Il Giubileo della Speranza è un’occasione per ripensare il modo in cui usiamo gli strumenti digitali.

La rete può diventare uno spazio di costruzione e non solo di consumo, un luogo in cui condividere non solo emozioni passeggere, ma valori che resistano nel tempo.

La speranza cristiana, infatti, non è un’illusione o un semplice ottimismo, ma una certezza che spinge ad agire, a mettersi in gioco per il bene comune.

È una sfida che riguarda tutti: influencer, comunicatori, giornalisti, educatori, preti e semplici utenti.

Papa Francesco ci ricorda che “non si può vivere senza speranza” e che questa va alimentata anche nella comunicazione.

Oggi più che mai c’è bisogno di parole che incoraggiano, di racconti che ispirano, di messaggi che aprono strade nuove.

E allora diamoci da fare, anche virtualmente, anche se i social a volte ci sembrano circostanze - come direbbe San Paolo - “inopportune”, anche se ci costa scomodarci e andare al di là di quello che abbiamo sempre fatto. Possiamo riuscirci, perché la speranze ce ne dà la forza.

Dobbiamo provarci, perché il mondo ne ha bisogno .I giovani, in particolare. Per loro i social rappresentano non solo un mezzo di svago, ma un vero e proprio strumento di costruzione dell’identità.

Ecco perché la Chiesa proprio sui social è chiamata a offrire narrazioni che vadano oltre l’apparenza e il successo immediato, aiutando le nuove generazioni a scoprire il valore della progettualità e della fiducia nel futuro.

Non si tratta di riempire le piattaforme digitali di contenuti religiosi in senso stretto, ma di portare nel mondo della comunicazione la visione cristiana della vita, capace di suscitare domande, di aprire alla ricerca, di ispirare cambiamento.

In un mondo segnato da incertezze, la speranza può diventare il filo conduttore di una comunicazione che non si limiti a descrivere il presente, ma che aiuti a costruire il futuro.

E la Chiesa, noi cristiani, giochiamo un ruolo chiave in questo. Speriamo di credere davvero nella speranza che professiamo perché, se quest'anno la prendiamo sul serio, allora ne vedremo delle belle!

 www.avvenire.it

*Top executive con estesa esperienza internazionale, è Partner di key2people dal 2020, dove, nell’ambito della Practice Advisory sta sviluppando progetti di riorganizzazione, change management, ridisegno dei processi HR e new ways of working. Inoltre è Board Member per IIC Partners, uno dei maggiori network di Executive Search a livello globale.

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