L’arcivescovo e teologo
Bruno Forte, nei 750 anni dalla morte del frate domenicano, ripercorre la vita
e il lascito teologico del pensatore che dal 1567 è dottore della Chiesa
Di seguito il testo
dell’arcivescovo Forte.
Come Tommaso d’Aquino ha
unito teologia, vita spirituale e ministero apostolico? Per rispondere a questa
domanda occorre anzitutto riflettere sull’uomo Tommaso, in particolare su
alcune delle scelte che hanno qualificato la sua esistenza e il suo servizio
alla Chiesa. La prima - decisiva per le sue conseguenze - è stata la scelta
mendicante, vissuta tanto nell’aspetto della povertà, quanto in quello della
piena disponibilità al cambiamento, a seconda dei compiti da assolvere. L’altra
- non meno importante - è la scelta culturale, in forza della quale Tommaso si
è consacrato a servire la causa del Vangelo con gli strumenti dell’intelligenza
e della parola, scritta e parlata. Entrambe sono l’espressione della sua scelta
fondamentale per Dio, vissuta nella sequela umile e convinta del Signore Gesù
Cristo. La povertà appare agli occhi di Tommaso come la forma concreta del dono
di sé al Signore fino alla fine: «Il Cristo è stato privato di ogni bene
esteriore, fino alla nudità corporale… È questa povertà della croce che
vogliono seguire coloro che abbracciano la povertà volontaria, specialmente
coloro che rinunciano a ogni tornaconto…». Dietro queste parole si avverte
l’amore profondo di Tommaso per il Signore Gesù, alimento del desiderio di
unirsi a Lui e di imitarlo il più possibile: è la fede innamorata, sorgente di
vita e di speranza, che motiva tutto l’essere e l’agire del Domenicano. L’altro
aspetto della scelta mendicante è la piena disponibilità alla mobilità e al
cambiamento: questa condizione di frequente itineranza porta Tommaso a
conoscere i rivolgimenti culturali del suo tempo in maniera diretta, da Napoli
a Parigi, a Orvieto, a Roma, e poi nuovamente a Parigi e a Napoli. La sua
elaborazione teologica risente fortemente dell’influenza degli eventi storici,
politici e culturali che andavano svolgendosi intorno a lui.
Col secolo XIII l’uomo
nuovo della borghesia comunale, di ampi contatti e di orizzonti vasti, è ormai
adulto: la nascita della città in senso moderno, vero crocevia di traffici e di
scambi d’ogni genere, stimola lo sviluppo della dialettica come forma di
ragionamento e di argomentazione. Essa riflette un mondo attraversato da
relazioni molteplici, in cui la molteplicità degli stimoli induce gli spiriti
all’impiego sempre più sistematico e sviluppato della quaestio. Essa vive della
tensione del “sic et non”, e cioè di un’attenzione profonda e sincera agli
interlocutori più diversi, anche a volte su posizioni opposte a quelle del
Maestro. Tommaso recepisce in pieno la sfida di questo nuovo pensiero, ne fa
anzi una scelta di vita: quella che si potrebbe chiamare la scelta per il
dialogo con la cultura del tempo. Consapevole che in un mondo in profonda
trasformazione non sarebbe più bastato indurre gli uomini a credere mediante
argomenti di sola autorità, l’Aquinate mette la sua intelligenza e la sua fede
al servizio dell’incontro fra il Vangelo e i nuovi orizzonti culturali.
Giovanissimo lascia Montecassino, dove avrebbe potuto esercitare i metodi
tradizionali di conoscenza della teologia monastica, basati sulla “lectio” e
sulla “meditatio” orante delle Sacre Scritture e delle “auctoritates”
riconosciute, per andare a formarsi nei nuovi luoghi del sapere, dove anche la
fede andrà ormai pensata nel conflitto delle interpretazioni, e cioè nelle
“scholae” legate alla vita urbana, di tipo universitario, dove la “sacra
doctrina” è insegnata accanto ad altre scienze o arti, che la provocano e la
inducono ad usare procedimenti simili ai loro.
Nasce in quest’epoca lo
spirito laico, che tanto fortemente caratterizzerà l’evo moderno. Si dà per
scontato il valore e la legittimità del conoscere per conoscere. Tommaso lo
ammetterà nella linea del suo maestro, Alberto Magno, al punto da aprire la Summa
Theologiae con la domanda, in altri tempi impensabile: «Utrum sit necessarium,
praeter philosophicas disciplinas, aliam doctrinam haberi» (Summa Theologiae I
q. 1 a. 1.). Quello che è messo in discussione non è la consistenza del pensare
umano, espresso dalle discipline filosofiche: quello che deve essere
giustificato e fondato è il processo di un altro pensiero, che sia dottrina
dell’avvento divino. E non meno significativo è il fatto che Tommaso argomenti
dialetticamente in rapporto da una parte ai tradizionalisti, che invocavano il
principio “altiora ne quaesieris”; dall’altra, in rapporto agli innovatori, che
tutto riconducevano all’orizzonte di quanto è afferrabile da parte della
ricerca umana. La sfida che Tommaso raccoglie è quella di fondare il pensiero
della fede in modo che siano rispettate contemporaneamente la dignità
dell’umano, inquieto e problematico, e il primato di Dio: come sviluppare una
teologia che, senza tradire l’obbedienza alla rivelazione, risponda alle
esigenze dell’epistemologia aristotelica e possa perciò dirsi scienza?
L’interrogativo riflette l’impatto della sensibilità spirituale e culturale dei
tempi nuovi con la tradizione viva della fede. Tommaso non si rifugia in
sterili chiusure: alimentandosi incessantemente alla Scrittura e ai Padri, la
cui “lectio” è stata per lui assidua, egli assume la dialettica e la filosofia
aristotelica senza tradire il dogma cristiano. Lo fa attraverso la teoria della
“subalternanza”, in base alla quale alcune scienze sono riconosciute come subalternanti,
tali cioè che dai loro principi dipendono altre scienze, dette appunto
subalternate. Entrambe sono scienze a pieno titolo, regolate dal rigore della
concatenazione e della deduzione, lo “scire per causas” dell’epistemologia
aristotelica.
In questo quadro, la
teologia è vista da Tommaso come scienza subalternata rispetto alla scienza di
Dio e dei beati, comunicata agli uomini nella rivelazione: essa è perciò
scientifica proprio nella misura in cui è totalmente in ascolto della Parola di
Dio. In tal modo, il primato dell’avvento divino è affermato senza riserve,
mentre senza riserve è operata anche l’assunzione dello statuto scientifico
aristotelico. Sta qui la genialità di Tommaso: pienamente contemporaneo al suo
tempo, egli è rimasto non di meno pienamente fedele al Mistero rivelato. La sua
teologia è vera scienza agli occhi del nuovo pensiero di matrice aristotelica:
scienza dell’avvento divino, costruita rilevando i rapporti di causalità, di
prossimità e di differenza, fra il mondo del Dio veniente e il mondo degli
uomini, in cui l’Eterno si rende presente. La soluzione è stupefacente, proprio
perché logicamente impostata in quel sistema intellettuale aristotelico, che
ben veniva a esprimere lo spirito del tempo, segnato ormai dalla rivoluzione
culturale del XII secolo, che sembrava escludere la possibilità di ogni “sacra
doctrina”. È un’età nuova quella che si affaccia, in cui coesistono
inizialmente teologia sapienziale monastica e teologia scolastica, per lasciare
poi il campo al trionfo di questa seconda, caratterizzata dalla ricerca delle
cause e delle ragioni. È anzitutto in questa forte contemporaneità al suo
tempo, vissuta senza compromettere la fedeltà all’avvento, che Tommaso resta
maestro di pensiero per ogni stagione della fede. Alla sua scuola la teologia
nasce nella storia aprendosi all’avvento del Dio vivo, che solo strappa la
storia alla sua solitudine e all’imminenza finale nel nulla. Oggi come ieri, la
teologia o è appesa alle parole e agli eventi dell’auto-comunicazione divina o,
semplicemente, non è. Viverla così fra fedeltà alla storia e fedeltà
all’Eterna, è seguire Tommaso come maestro attualissimo e fecondo.
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