martedì 5 marzo 2024

IL "DIRITTO" di ABORTIRE


 Francia: l’aborto nella Costituzione, 

messaggio di civiltà?


Pubblichiamo in anteprima, per gentile concessione dell’Ufficio per la Pastorale della cultura della diocesi di Palermo, il testo di Giuseppe Savagnone sulla approvazione della modifica alla Costituzione francese che recepisce il «diritto di aborto». Il testo sarà in seguito pubblicato nella rubrica «I chiaroscuri» che l’autore firma per il sito della Pastorale della cultura.

 -di Giuseppe Savagnone

Con l’approvazione definitiva della modifica alla Costituzione da parte del Parlamento francese, a camere riunite, lunedì 4 marzo, la Francia è ora il primo paese non solo in Europa, ma anche nel mondo, a includere il diritto di aborto nella sua Carta fondamentale.

In realtà in Francia l’interruzione volontaria della gravidanza è già stata legalizzata da decenni, e il numero di aborti è in continua crescita: 234mila solo nel 2022, record assoluto, 17mila in più dell’anno precedente. I pochissimi oppositori (nella votazione finale i voti favorevoli sono stati 780, i contrari 72) avevano sottolineato questo dato di fatto per evidenziare l’inutilità pratica di un’ulteriore conferma a livello costituzionale.

Ma non è valso a nulla, perché la solenne proclamazione del diritto di abortire è stata voluta per il suo valore simbolico, come un messaggio di civiltà. E come tale è stato salutato, con entusiasmo, in Francia e nel resto del mondo. Anche come risposta all’annullamento, un anno e mezzo fa, della Roe vs Wade da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti.

Qualche domanda

Davanti a tanto entusiasmo, può tuttavia essere lecita qualche perplessità. La prima riguarda il profondo mutamento di prospettiva che questo clima comporta. L’aborto da sempre è stato per molte donne una dolorosa necessità, di cui sono state loro stesse le prime vittime. Uccidere il bambino che si porta nel seno è sempre stato ed è, normalmente, per una madre, un dramma, reso più tremendo dal fatto che una società maschilista, ancora oggi, non fa il possibile per evitarlo, lasciandola spesso sola a vivere sulla propria pelle i tanti problemi che rendono problematica la maternità.

Il voto del Parlamento francese e i toni trionfalistici dei commenti che lo hanno esaltato, sia in Francia che sulla stampa internazionale, sembrano trasformare una tragedia per cui indignarsi e contro cui lottare in una suprema affermazione della dignità e della libertà delle donne. L’aborto diventa simbolo di emancipazione, profezia di nuovo modo intender la femminilità. Mettendo ancora una volta in secondo piano l’urgenza di investire maggiori risorse per dare alle donne, piuttosto che la licenza di eliminare i propri figli, la possibilità di non farlo.

Senza dire che l’inserimento del «diritto di aborto» nella Costituzione pone seri problemi a quei francesi che non si riconoscono in questa decisione per motivi di coscienza. Da sempre alcune grandi religioni – come il cattolicesimo –, ben lungi da ritenere l’interruzione volontaria della gravidanza un diritto, l’hanno considerata una violenza contro la vita umana e altre – come l’islam – le hanno posto limiti rigorosi. Che cosa significherà per i credenti di queste fedi religiose essere cittadini di un paese che la esalta come un valore fondamentale della comunità civile? Queste persone resteranno in Francia come stranieri morali? Come sarà possibile l’obiezione di coscienza di medici e infermieri nei confronti di un diritto costituzionalmente riconosciuto?

Si potrà dire che la laicità dello Stato non può accettare interferenze di ordine confessionale. Ma – a parte il fatto che, in un paese che proclama la tolleranza religiosa, la fede non dovrebbe costituire un motivo di spaccatura tra i cittadini – non sono pochi i laici che si sono pronunziati contro la legalizzazione dell’aborto. Valga per tutti, l’autorevole esempio di Norberto Bobbio, che in Italia rifiutò di sostenere il referendum per motivi di coscienza e di ragione.

Il parallelo polemico con la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti non funziona, anzi evidenzia la differenza: in quella non si dichiarava anticostituzionale l’aborto, anzi neppure lo si proibiva, solo ci si limitava a rimandare la questione ai singoli Stati, lasciando impregiudicata la questione a livello federale. Nessun americano era messo in condizione di scegliere tra il suo essere cittadino e la sua coscienza. In questo caso sì.

Diritto di aborto e libertà delle donne

Si potrà dire che il diritto di aborto è solo una implicazione e una conseguenza logica del riconoscimento della libertà della donna. Ed è in nome di quest’ultima, come abbiamo appena visto, che esso è stato inserito nella Costituzione francese. Ma è veramente così?

A metterlo in dubbio è proprio uno studioso che da anni è in prima fila nel sostenere la legittimità etica e giuridica dell’aborto, Peter Singer, il quale in un suo libro fa notare che appellarsi alla libertà della donna per dimostrare questa legittimità «può essere una buona politica, ma certo è cattiva filosofia. Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (…) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla. Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta, più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti».

E lo slogan, coralmente ripetuto, secondo cui il diritto di aborto esprime la libertà della donna di fare del suo corpo quello che vuole? Le parole di Singer − autore non certo sospetto di bigotto moralismo – ci ricordano quello che qualunque biologo sa benissimo, e cioè che quello slogan è falso. Secondo la scienza, l’embrione e il feto non fanno affatto parte del corpo della donna, perché sono individui a sé stanti.

Si può ignorare questo dato scientifico, come si può essere terrapiattisti, ma la realtà non cambia. Perciò non si può equiparare la libertà della donna di abortire a quella di studiare, di viaggiare, di esercitare una professione, perché in questo caso è in gioco la vita di un altro essere vivente.

Esseri umani e persone

Se, dunque, si vuole affrontare seriamente il problema, è sul valore o meno di questa vita che bisogna concentrare l’argomentazione. Ora, come riconosce il pensatore australiano, non si può negare che, anche in questa fase, si tratti di una vita umana. Ormai, egli osserva, la biologia ha dimostrato che non ci sono “salti” tra la vita pre-natale e quella successiva al parto e una cesura tra l’una e l’altra sarebbe arbitraria.

Ma questo, secondo Singer, non significa che embrioni e feti siano persone. Ed è la vita della persona, non la vita umana come tale, che bisogna tutelare. «Perché è moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita umana? (…). Che cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?». Per lui l’appartenenza alla specie umana è un dato di fatto meramente biologico, privo di implicazioni valoriali ed etiche.

Su questo punto, peraltro, convergono tutti i grandi bioeticisti anglosassoni. A essere importanti, secondo loro, non sono gli esseri umani come tali, ma le persone. Qual è la differenza? Se lo chiede un altro autorevole studioso, Michael Tooley: «Quali proprietà si devono avere per essere una persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?». La sua risposta esprime la convinzione largamente condivisa, pur delle varianti, dalla maggioranza dei bioeticisti anglosassoni: «Un organismo possiede un serio diritto alla vita solo se possiede il concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati mentali, e crede di essere una tale entità continua nel tempo».

Per essere persone, insomma, è necessaria l’autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente un altro notissimo studioso, Tristam Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane». Costoro sono esseri umani ma, poiché non sono in atto coscienti di sé, la loro vita può essere sacrificata al pari di quella degli individui di tutte le altre specie.

L’argomento non vale peraltro solo per embrioni e feti, ma anche per gli infanti, i bambini nelle prime fasi successive al parto i quali, secondo tutti questi autori, non essendo autocoscienti non sono persone. Per Engelhardt «le persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo − probabilmente qualche anno − dopo la nascita». È questione di logica. Sulla stessa linea, infatti, è Singer: «Sembrano esserci solo due possibilità: opporsi all’aborto o consentire l’infanticidio».

Davanti alle probabili perplessità che una simile implicazione del diritto di aborto può suscitare, entrambi gli studiosi fanno notare che civiltà molto evolute, come quella greca, hanno ritenuto normale l’infanticidio e che, come ha scritto Singer, il tabù relativo ad esso si deve solo a «due millenni di ossequio puramente formale all’etica cristiana», ora finalmente alle nostre spalle.

Una pericolosa discriminazione

Questo è ciò che, in nome della ragione, si è riusciti a dire finora per giustificare la legittimità etica e giuridica dell’aborto. Dove è chiaro che l’appello alla libertà della donna lo può giustificare solo se è valida la distinzione tra esseri umani e persone, che a sua volta è basata su una filosofia, non sulla scienza, per la quale i non nati sono individui biologicamente umani, come i nati.

Solo che questa distinzione non vale solo per la questione dell’interruzione della gravidanza e, più in generale, implica la divisione in uomini e donne di serie A e uomini e donne di serie B, escludendo i secondi da ogni tutela e consegnandoli all’arbitrio dei primi.

Non possono non ritornare alla mente le società del passato che in base a questa distinzione hanno considerato non-persone gli schiavi, le donne, gli indios, i poveri. O, più recentemente, gli ebrei. E non è un caso che oggi le dichiarazioni dei diritti parlino di esseri umani, senza altro requisito che la loro umanità.

Ora, in nome della libertà delle donne, la Costituzione francese introduce solennemente una nuova discriminazione, l’esercizio in atto dell’autocoscienza. Così il diritto di abortire apre la porta a quello di eliminare chiunque sia sfornito di quel requisito (neonati, malati di mente, individui in coma). È questo il messaggio di civiltà che la Francia vuole lanciare al mondo?

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