Messaggio
di fine anno
del Presidente della Repubblica
Sergio Mattarella
Care
concittadine e cari concittadini,
questa
sera ci stiamo preparando a festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Nella consueta
speranza che si aprano giorni positivi e rassicuranti.
Naturalmente,
non possiamo distogliere il pensiero da quanto avviene intorno a noi. Nella
nostra Italia, nel mondo.
Sappiamo
di trovarci in una stagione che presenta tanti motivi di allarme. E, insieme,
nuove opportunità.
Avvertiamo
angoscia per la violenza cui, sovente, assistiamo: tra gli Stati, nella
società, nelle strade, nelle scene di vita quotidiana.
La
violenza.
Anzitutto,
la violenza delle guerre. Di quelle in corso; e di quelle evocate e minacciate.
Le
devastazioni che vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e
annetterla.
L’orribile
ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi
bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella
sua disumanità.
La
reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche
migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad
abbandonare le proprie case, respinti da tutti.
La
guerra – ogni guerra – genera odio.
E
l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti.
La
guerra è frutto del rifiuto di riconoscersi tra persone e popoli come uguali.
Dotati di pari dignità. Per affermare, invece, con il pretesto del proprio
interesse nazionale, un principio di diseguaglianza.
E
si pretende di asservire, di sfruttare. Si cerca di giustificare questi
comportamenti perché sempre avvenuti nella storia. Rifiutando il progresso della civiltà
umana.
Il
rischio, concreto, è di abituarsi a questo orrore. Alle morti di civili, donne,
bambini. Come - sempre più spesso – accade nelle guerre.
Alla
tragica contabilità dei soldati uccisi. Reciprocamente presentata; menandone
vanto.
Vite
spezzate, famiglie distrutte. Una generazione perduta.
E
tutto questo accade vicino a noi. Nel cuore dell’Europa. Sulle rive del
Mediterraneo.
Macerie,
non solo fisiche. Che pesano sul nostro presente. E graveranno sul futuro delle
nuove generazioni.
Di
fronte alle quali si presentano oggi, e nel loro possibile avvenire, brutalità
che pensavamo, ormai, scomparse; oltre che condannate dalla storia.
La
guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che
ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi
guadagni.
Nasce
da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli
atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano.
La pace
È
indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità della pace.
Parlare
di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e
concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una
crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità.
Sappiamo
che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace.
Occorre
che venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno
scatenato i conflitti.
Ma
impegnarsi per la pace significa considerare queste guerre una eccezione da
rimuovere; e non la regola per il prossimo futuro.
Volere
la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade:
sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole.
Perseguire
la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli
Stati. Che mette a rischio le sorti dei rispettivi popoli. E mina alle basi una
società fondata sul rispetto delle persone.
Per
conseguire pace non è sufficiente far tacere le armi.
Costruirla
significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel
sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel
linguaggio che si adopera.
Dipende,
anche, da ciascuno di noi.
Pace,
nel senso di vivere bene insieme. Rispettandosi, riconoscendo le ragioni
dell’altro. Consapevoli che la libertà degli altri completa la nostra libertà.
Vediamo,
e incontriamo, la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese.
Quando
prevale la ricerca, il culto della conflittualità. Piuttosto che il valore di
quanto vi è in comune; sviluppando confronto e dialogo.
La
violenza.
Penso
a quella più odiosa sulle donne.
Vorrei
rivolgermi ai più giovani. Cari
ragazzi, ve lo dico con parole semplici: l’amore non è egoismo, dominio,
malinteso orgoglio. L’amore – quello vero – è ben più che rispetto: è dono,
gratuità, sensibilità.
Penso
anche alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si
presentano, sovente, nella rete.
Penso
alla violenza che qualche gruppo di giovani sembra coltivare, talvolta come
espressione di rabbia.
Penso
al risentimento che cresce nelle periferie. Frutto, spesso, dell’indifferenza;
e del senso di abbandono.
Penso
alla pessima tendenza di identificare avversari o addirittura nemici. Verso i
quali praticare forme di aggressività. Anche attraverso le accuse più gravi e
infondate. Spesso, travolgendo il confine che separa il vero dal falso.
Queste
modalità aggravano la difficoltà di occuparsi efficacemente dei problemi e
delle emergenze che, cittadini e famiglie, devono affrontare, giorno per
giorno.
Il
lavoro che manca. Pur in presenza di un significativo aumento dell’occupazione.
Quello
sottopagato. Quello, sovente, non in linea con le proprie aspettative e con gli
studi seguiti.
Il
lavoro, a condizioni inique, e di scarsa sicurezza. Con tante, inammissibili,
vittime.
Le
immani differenze di retribuzione tra pochi superprivilegiati e tanti che
vivono nel disagio.
Le
difficoltà che si incontrano nel diritto alle cure sanitarie per tutti. Con
liste d’attesa per visite ed esami, in tempi inaccettabilmente lunghi.
La sicurezza
La
sicurezza della convivenza. Che lo Stato deve garantire. Anche contro il
rischio di diffusione delle armi.
Rispetto
allo scenario in cui ci muoviamo, i giovani si sentono fuori posto.
Disorientati, se non estranei a un mondo che non possono comprendere; e di cui
non condividono andamento e comportamenti.
Un
disorientamento che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese.
Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa. Incapace di
unirsi nel nome di uno sviluppo globale.
In
una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei
giovani. Delle speranze che coltivano. Della loro capacità di cogliere il
nuovo.
Dipende
da tutti noi far prevalere, sui motivi di allarme, le opportunità di progresso
scientifico, di conoscenza, di dimensione umana.
I diritti
Quando
la nostra Costituzione parla di diritti, usa il verbo “riconoscere”.
Significa
che i diritti umani sono nati prima dello Stato. Ma, anche, che una democrazia
si nutre, prima di tutto, della capacità di ascoltare.
Occorre
coraggio per ascoltare. E vedere - senza filtri – situazioni spesso ignorate;
che ci pongono di fronte a una realtà a volte difficile da accettare e
affrontare.
Come
quella di tante persone che vivono una condizione di estrema vulnerabilità e
fragilità; rimasti isolati. In una società pervasa da quella “cultura dello
scarto”, così efficacemente definita da Papa Francesco.
Cui
rivolgo un saluto e gli auguri più grandi. E che ringrazio per il suo
instancabile Magistero.
Affermare
i diritti significa ascoltare gli anziani, preoccupati di pesare sulle loro
famiglie, mentre il sistema assistenziale fatica a dar loro aiuto.
Si
ha sempre bisogno della saggezza e dell’esperienza. E di manifestare rispetto e
riconoscenza per le generazioni precedenti. Che, con il lavoro e l’impegno,
hanno contribuito alla crescita dell’Italia.
Affermare
i diritti significa prestare attenzione alle esigenze degli studenti, che vanno
aiutati a realizzarsi. Il cui diritto allo studio incontra, nei fatti,
ostacoli. A cominciare dai costi di alloggio nelle grandi città universitarie;
improponibili per la maggior parte delle famiglie.
Significa
rendere effettiva la parità tra donne e uomini: nella società, nel lavoro, nel
carico delle responsabilità familiari.
Significa
non volgere lo sguardo altrove di fronte ai migranti.
Ma
ascoltare significa, anche, saper leggere la direzione e la rapidità dei
mutamenti che stiamo vivendo. Mutamenti che possono recare effetti positivi
sulle nostre vite.
La tecnologia
La
tecnologia ha sempre cambiato gli assetti economici e sociali.
Adesso
con l’intelligenza artificiale che si autoalimenta, sta generando un progresso
inarrestabile. Destinato a modificare profondamente le nostre abitudini
professionali, sociali, relazionali.
Ci
troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico
dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che
stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà
che vede, nella persona - e nella sua dignità - il pilastro irrinunziabile.
Viviamo,
quindi, un passaggio epocale. Possiamo dare tutti qualcosa alla nostra Italia.
Qualcosa di importante. Con i nostri valori. Con la solidarietà di cui siamo
capaci.
La democrazia
Con
la partecipazione attiva alla vita civile. A
partire dall’esercizio del diritto di voto.
Per
definire la strada da percorrere, è il
voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social. Perché
la democrazia è fatta di esercizio di libertà.
Libertà
che, quanti esercitano pubbliche funzioni - a tutti i livelli -, sono chiamati a garantire.
Libertà
indipendente da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o
di potere, possa pretendere di
orientare il pubblico sentimento.
Non
dobbiamo farci vincere dalla rassegnazione. O dall’indifferenza. Non dobbiamo
chiuderci in noi stessi per timore che le impetuose novità che abbiamo davanti
portino soltanto pericoli.
Prima
che un dovere, partecipare alla vita e alle scelte della comunità è un diritto di libertà. Anche un diritto al
futuro. Alla costruzione del futuro.
Partecipare
significa farsi carico della propria comunità. Ciascuno per la sua parte.
Significa
contribuire, anche fiscalmente. L’evasione riduce, in grande misura, le risorse
per la comune sicurezza sociale. E ritarda la rimozione del debito pubblico;
che ostacola il nostro sviluppo.
Contribuire
alla vita e al progresso della Repubblica, della Patria, non può che suscitare
orgoglio negli italiani.
Ascoltare,
quindi; partecipare; cercare, con determinazione e pazienza, quel che unisce.
Perché
la forza della Repubblica è la sua unità. Unità
non come risultato di un potere che si impone.
L’unità
della Repubblica è un modo di essere. Di intendere la comunità nazionale. Uno
stato d’animo; un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori
fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia,
pace.
I
valori che la Costituzione pone a base della nostra convivenza. E che
appartengono all’identità stessa dell’Italia.
Questi
valori – nel corso dell’anno che si conclude - li ho visti testimoniati da
tanti nostri concittadini.
Li
ho incontrati nella composta pietà della gente di Cutro. Li
ho riconosciuti nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui
luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano ‘Romagna mia’.
Li
ho letti negli occhi e nei sorrisi dei ragazzi con autismo che lavorano con
entusiasmo a Pizza aut. Promossa da un gruppo di sognatori. Che cambiano la
realtà.
O
di quelli che lo fanno a Casal di Principe. Laddove i beni confiscati alla
camorra sono diventati strumenti di riscatto civile, di impresa sociale, di
diffusione della cultura. Tenendo viva la lezione di legalità di don Diana.
L'ho
visto nel radunarsi spontaneo di tante ragazze, dopo i terribili episodi di
brutalità sulle donne. Con l’intento di dire basta alla violenza. E di
ribellarsi a una mentalità di sopraffazione.
Li
vedo nell’impegno e nella determinazione di donne e uomini in divisa. Che
operano per la nostra sicurezza. In Italia, e all’estero.
Nella
passione civile di persone che, lontano dai riflettori della notorietà,
lavorano per dare speranza e dignità a chi è in carcere.
O
di chi ha lasciato il proprio lavoro – come è avvenuto - per dedicarsi a
bambini, ragazzi e mamme in gravi difficoltà.
A
tutti loro esprimo la riconoscenza della Repubblica. Perché
le loro storie raccontano già il nostro futuro. Ci
dicono che uniti siamo forti.
Buon
anno a tutti!
Quirinale
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