Cent’anni
con Italo Calvino
Quest’anno
ricorrono i 100 anni dalla nascita di Italo Calvino. Riprendiamo la nota
distinzione calviniana tra «sfida al labirinto» e «resa al labirinto» [1] per
percorrere alcuni sentieri possibili nella complessa, stratificata e multiforme
produzione dello scrittore ligure.
- di Diego Mattei
Vita
e formazione
Inquieto,
intellettualmente vivacissimo e dalla creatività multiforme, nella vita privata
schivo e di poche parole, Calvino costituisce un unicum nel panorama italiano [2].
Il
primo tratto precipuo è l’ambiente familiare e d’infanzia. Figlio di due
scienziati – il padre agronomo, con esperienze di lavoro internazionale, la
madre prima donna a ricoprire in Italia l’incarico di docente di botanica
generale –, Italo nasce a Santiago de Las Vegas, nei pressi de L’Avana di Cuba,
il 15 ottobre 1923[3]. Entrambi i genitori erano liberi pensatori, agnostici,
se non apertamente anticlericali: il padre fu mazziniano, anarchico e poi
socialista; la madre atea e socialista. Italo crebbe in un contesto intriso di
internazionalità. Sanremo, prima della Seconda guerra mondiale, era luogo di
villeggiatura di nobili e ricchi inglesi. Italo stesso fu iscritto a un asilo
inglese e poi a una scuola elementare valdese. Estraneo all’influsso culturale
fascista, in un clima familiare contraddistinto dalla razionalità scientifica e
volterriana, al termine del liceo (dove fu compagno di classe di Eugenio
Scalfari) si iscrisse alla facoltà di Agraria, che frequentò prima a Torino e
poi a Firenze. Dopo la caduta di Mussolini, Italo riparò a Sanremo,
nascondendosi, dopo l’8 settembre del 1943, nella piccola proprietà di famiglia
di San Giovanni, per evitare l’arruolamento obbligatorio nell’esercito della
Repubblica di Salò. Partecipò in modo attivo alla Resistenza con il soprannome
di «Santiago» insieme al fratello Floriano[4], di qualche anno più giovane,
combattendo anche alcune battaglie nella Brigata Garibaldi, legata al Partito
comunista italiano. Dopo la fine della guerra, si iscrisse alla Facoltà di Lettere
e si laureò con una tesi su Joseph Conrad.
Fin
dal 1946, e per quasi tutto il resto della sua vita, collaborò con la casa
editrice Einaudi, ricoprendo molteplici incarichi. Essa fu senz’altro il luogo
vero della formazione di Italo. Questo elemento costituisce la seconda
caratteristica peculiare della formazione e della figura dello scrittore.
Pochissimi altri autori ebbero la possibilità di conoscere il mondo del libro
da entrambi i versanti, come autori e come editori; nessuno al livello raggiunto
da Calvino. All’alter ego ironico del personaggio del dottor Cavedagna,
editore, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, fa dire: «Da tanti anni
lavoro in una casa editrice […]; mi passano tanti libri per le mani, […] ma
posso dire che leggo?» [5].
La
letteratura italiana è segnata dalla sua impronta, non solo come autore, ma
anche come editore. Insieme a Vittorini e Pavese creò un vero e proprio stile
di selezione e presentazione dei libri nelle cosiddette «quarte di copertina».
Fu proprio Pavese, conosciuto in Einaudi, a spingerlo a scrivere e pubblicare
Il sentiero dei nidi di ragno. Negli uffici della casa editrice divenne amico
di Natalia Ginzburg, Felice Balbo, Giulio Bollati, Paolo Boringhieri, Renato
Solmi e Luciano Foà. Innumerevoli sono state le collaborazioni con giornali e
riviste nell’arco della sua vita: dalla sezione torinese dell’Unità, dove
scrisse i primi brevi racconti giovanili, fino a la Repubblica, fondata e
diretta dall’antico compagno di classe Eugenio Scalfari. Impegnato in politica
fino al 1956, dopo i fatti di Ungheria e le scelte dei quadri dirigenti del
Pci[6] si dimise dal partito il 1° agosto del 1957.
Con
Einaudi Calvino pubblicò quasi tutti i suoi scritti, che spaziano in una grande
varietà di generi. Quando la ricerca intellettuale lo spingeva in direzioni
sconosciute ad altri scrittori, egli inventava per sé stesso ruoli inediti. Più
che eclettico, fu creativo e razionalmente sperimentatore, «capricciosamente
ingegnoso», come afferma Mario Barenghi[7], suo fine interprete.
Nel
1967 Calvino si trasferì a Parigi. Lì
conobbe Roland Barthes, Georges Perec, Raymond Queneau, di cui tradusse Les
fleurs bleues, ed entrò nell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle). È
l’incontro con la semiologia strutturalista e la tecnica combinatoria. L’una e
l’altra segneranno lo stile di Calvino, che lascia decisamente da parte
l’impegno politico[8], ancora presente ne Il barone rampante, per riflettere in
modo più insistito sul linguaggio e sul valore del linguaggio. Va qui notata la
contemporaneità dell’uscita del romanzo con le dimissioni dal Pci, e Cosimo
Piovasco di Rondò ne è certo l’alter ego trasfigurato.
Calvino
visse a Parigi per 13 anni, senza mai interrompere le relazioni con Einaudi e
con l’Italia, dove trascorreva lunghi periodi nel corso dell’anno e le intere
vacanze estive. Sposatosi nel 1964 a Cuba con Esther Judith Singer, traduttrice
argentina di religione ebraica, ebbe la figlia Giovanna nel 1965. Rientrato in
Italia nel 1980, morì nell’ospedale di Siena il 6 settembre 1985, in seguito a
un ictus che lo aveva colpito nella sua casa di Castiglione della Pescaia.
Il
grande numero di saggi, di conferenze, di note di lavoro e di riflessioni
teoriche, di varia ampiezza, costituisce un «fondo di lavoro» ricchissimo. Come
ha osservato Barenghi, Calvino è uno scrittore che si autopresenta, un autore
che come pochi altri ha riflettuto sulla propria produzione, e così accade che
chi voglia presentarlo lo realizzi facendo ricorso ai suoi scritti teorici e ai
suoi saggi. Lo faremo anche noi.
La
fase neorealistica e fiabesca di Calvino: lo scrivere per immagini
Accogliendo
l’immagine usata da Claudio Milanini[9], che descrive la produzione di Calvino
come un albero che estende la propria chioma in direzioni diverse (pensiamo che
l’immagine sarebbe piaciuta allo scrittore, per il passato di scienza botanica
così importante in famiglia) e non si sviluppa in modo lineare progressivo, da
A a B a C, individuiamo due grandi periodi della produzione calviniana: il
primo va dagli esordi nel 1947 fino al 1963[10]; il secondo dal 1965 alla
morte, nel 1985[11].
Il
primo periodo è quello segnato dal neorealismo [12] de Il sentiero dei nidi di
ragno e dei racconti di Ultimo viene il corvo [13], al quale l’autore intrecciò
poi la ricerca e la scrittura fiabesca[14]. Ancora nel 1955, nel saggio Il
midollo del leone egli scriveva: «Noi pure siamo tra quelli che credono in una
letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come
educazione, di grado e di qualità insostituibile. […] La letteratura deve
rivolgersi a quegli uomini, deve – mentre impara da loro – insegnar loro,
servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più
intelligenti, sensibili, moralmente forti» [15]. In Calvino l’intento etico
della scrittura è evidente [16].
Allo
stile e alla sensibilità fiabeschi appartengono le opere che gli diedero
maggiore notorietà. Ci riferiamo ai due racconti lunghi e al romanzo breve che
compongono la trilogia de I nostri antenati, così titolata nell’edizione
cofanetto del 1960. Si tratta dei notissimi Il visconte dimezzato del
1951, Il barone rampante del 1957 e Il cavaliere inesistente del 1959.
Una delle caratteristiche di Calvino è quella di averci regalato personaggi
icastici. Altri scrittori italiani del Novecento hanno composto storie più
appassionanti e travolgenti, ma solo Calvino nella semplicità di una scrittura
controllata, a volte fredda, ma sempre trasparente, è riuscito a inventare e
regalare figure simboliche oggi imprescindibili. Riguardo al suo stile,
possiamo considerare la nota di Barenghi come appropriata: «Nell’insieme, la
ricerca di Calvino segue il principio di contemperare innovazione e
leggibilità, tensione sperimentale e forza comunicativa: evitando da un lato di
adagiarsi in formule prevedibili e rassicuranti, dall’altro di esasperare la
sofisticazione formale al punto di restringere il novero dei destinatari a una
élite di specialisti. Di qui la fedeltà a una scrittura tersa e precisa,
elegante, ma priva di affettazioni letterarie, che sublima gli usi vivi della
lingua, serbando un occhio di riguardo alle attività pratiche (di necessità
aderenti ai dati di realtà): uno stile fluente e perspicuo anche nei momenti di
maggiore rarefazione, capace di avvicinarsi ai modi dimessi del parlato senza
nulla cedere in fatto di proprietà e compostezza» [17].
L’incipit
de Il barone rampante è tra i più noti della letteratura italiana: «Fu il 15 di
giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per
l’ultima volta in mezzo a noi» [18]. Nella fondamentale Postfazione ai Nostri
antenati, nell’edizione del 1960 che li raccoglie insieme, Calvino racconta
come sia arrivato a questo genere, alieno al neorealismo delle prime prove di
letteratura: «Così provai a scrivere altri romanzi neorealistici, su temi della
vita popolare di quegli anni, ma non riuscivano bene, e li lasciavo manoscritti
nel cassetto. […] Se avessi usato un tono più riflessivo e preoccupato, tutto sarebbe
sfumato nel grigio, nel triste, perdevo quel timbro che era mio, cioè l’unica
giustificazione del fatto che a scrivere fossi io e non un altro» [19].
Il
primo libro della saga, Il visconte dimezzato, nasce in effetti come
«passatempo privato», alieno da qualsiasi intento di dichiarazione di poetica,
allegoria moralistica o politica. All’inizio c’è un’immagine a cui la scrittura
dà spessore e fornisce occasioni di azione. Molti anni dopo, Calvino riprenderà
il valore dell’immagine e dello scrivere per immagini nel capitolo dedicato
alla «Visibilità» delle fondamentali Lezioni americane [20]. È interessante
come in quel saggio egli già avverta e denunci il rischio che l’uomo moderno
possa perdere la facoltà di immaginare in autonomia, per la proliferazione di
figure ed effigi «artificiali» che ne assediano la fantasia[21].
Inaspettatamente lo scrittore sanremese dedica un esame attento e puntuale
all’importanza che l’immaginazione riveste negli Esercizi spirituali (ES) di
sant’Ignazio di Loyola, citando in modo esatto la «composizione di luogo» e
distinguendo ciò che viene richiesto nel contesto della Prima settimana degli
ES e l’esercizio della «Contemplazione del mondo da parte della Trinità» nella
Seconda settimana. Colpisce questa conoscenza e il riferimento a un testo
spirituale in una produzione letteraria e saggistica che è altrimenti
poverissima di riferimenti ecclesiali, e ancor più religiosi e di fede [22]. La
conoscenza della Compagnia di Gesù e dei gesuiti doveva però essere antica se
nel suo romanzo più compiuto (Il barone rampante) Calvino inserisce in vari
passaggi come personaggi avversari i gesuiti [23] e, uno per tutti, il padre
spirituale massone Sulpicio de Guadalete.
In
tema di fiabe, non possiamo non citare la Raccolta delle fiabe italiane, che
uscì nel 1956 e che rese lo scrittore il quasi-corrispettivo di altri autori in
Europa: Hans Christian Andersen in Danimarca; i fratelli Jacob Ludwig Karl e
Wilhelm Karl Grimm in Germania; Charles Perrault e Jean de La Fontaine in
Francia. Con questa opera Calvino copre un vuoto della nostra letteratura.
Fondamentale è l’introduzione della raccolta, scritta dall’autore stesso, in
cui descrive la genesi dell’opera e presenta il materiale sul quale ha
lavorato. È interessante leggere le pagine di Lavagetto [24], nelle quali viene
valorizzato e messo in luce il ruolo compositivo di riscrittura svolto da
Calvino, dalla minima elaborazione alla più ampia riscrittura e composizione
autonoma. Il frutto di questo lavoro certosino sarà fecondo. L’ascolto
minuzioso delle storie semplici delle fiabe permetterà all’autore di conoscere
e impossessarsi dei meccanismi delle storie, dei mattoni fondamentali che le
compongono e danno loro vita.
Scrive
Calvino: «I romanzi che ci piacerebbe di scrivere o di leggere sono romanzi
d’azione, ma non per un residuo di culto vitalistico o energetico: ciò che ci
interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che l’uomo attraversa e il modo
in cui egli le supera. Lo stampo delle favole più remote: il bambino
abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con belve e
incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane, resta il
disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità morale si realizza
muovendosi in una natura o in una società spietate» [25].
La
nota del 1960 contiene inoltre un’affermazione centrale per orientarsi nella
produzione letteraria successiva. «Il racconto [Il visconte dimezzato] per sua
interna spontanea propulsione a quello che è sempre stato e resta il mio vero
tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la
segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe sé
stesso né per sé né per gli altri» [26]. Questa affermazione di poetica ci
sembra faccia il paio con un’altra. Parlando del valore della «Leggerezza»,
nelle Lezioni americane Calvino afferma: «Dopo quarant’anni che scrivo fiction,
dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora
che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa:
la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho
cercato di togliere peso alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alla
città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e
del linguaggio»[27]. Questa dichiarazione è particolarmente pregnante, perché
esaustiva dei grandi blocchi della produzione calviniana: oltre al riferimento
al ciclo dei Nostri Antenati, vi è quello alle Cosmicomiche nelle diverse e
successive edizioni (1965, 1968, 1984), ai racconti di Ti con Zero, alle Città
invisibili, al Castello dei destini incrociati e a Se una notte d’inverno un
viaggiatore.
Calvino
fu autore di fiction, per lo più di short stories, che gli permisero di
raggiungere quell’intensità che costituisce uno dei tratti caratteristici della
sua scrittura [28]. Questo è evidente nei racconti (sia quelli giovanili di
Ultimo viene il corvo, sia quelli della maturità, Cosmicomiche e Ti con zero),
nelle prose brevi delle Città invisibili e in quelle di Palomar. «Sono convinto
che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in
entrambi i casi è ricerca di un’espressione necessaria, unica, densa, concisa,
memorabile. […] In questa predilezione per le forme brevi non faccio che
seguire la vera vocazione della letteratura italiana, povera di romanzieri ma
sempre ricca di poeti, i quali anche quando scrivono in prosa danno il meglio
di sé in testi il cui massimo di invenzione e di pensiero è contenuto in poche
pagine, come quel libro senza uguali in altre letterature che è le Operette
morali di Leopardi» [29].
La
sfida della trasformazione dell’autorialità oggi
«Stabiliti
questi procedimenti, affidato a un computer il compito di fare queste
operazioni, avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore?
Così come abbiamo già macchine che leggono, macchine che eseguono un’analisi
linguistica dei testi letterali, macchine che traducono, macchine che riassumono,
così avremo macchine capaci di ideare e comporre poesie e romanzi?» [30].
Questo si chiedeva Calvino in una conferenza del novembre del 1967, poi
riportata nel testo Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come
processo combinatorio), che troviamo all’interno della raccolta di saggi Una
pietra sopra, del 1980.
Le
affermazioni dello scrittore ligure colpiscono per la loro carica profetica.
Egli aggiunge: «E in questo momento non penso a una macchina capace solo di una
produzione letteraria diciamo così di serie, già meccanica di per se stessa;
penso a una macchina scrivente che metta in gioco sulla pagina tutti quegli
elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità
psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti
d’umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori» [31].
È
di questi mesi la discussione sulla tecnologia conosciuta come ChatGPT, capace
di produrre testi autonomi. Si tratta di «un linguaggio addestrato su un vasto
corpus di testi per generare altro testo in modo autonomo e rispondere alle
domande degli utenti, utilizzando una tecnologia di apprendimento automatico,
chiamata Transformer, che gli consente di capire il contesto del testo e
generare risposte appropriate» [32]. Che cosa avrebbe detto lo scrittore a
proposito di ChatGPT?
A
fronte della possibilità che l’autorialità, con il connesso incarico pedagogico
[33], venga dismessa a favore dell’intelligenza artificiale, quale direzione
può prendere la letteratura? Centrale è il ruolo del lettore e l’operazione
della lettura [34]. «Smontato e rimontato il processo della composizione
letteraria, il momento decisivo della vita letteraria sarà la lettura» [35].
Afferma il generale Arkadian Porphyritch in Se una notte d’inverno un viaggiatore:
«Ho capito i miei limiti […]. Nella lettura avviene qualcosa su cui non ho potere»
[36].
La
letteratura così attuata viene impoverita? Secondo Calvino, no, essa
«continuerà a essere un luogo privilegiato della coscienza umana» [37]. Andiamo
verso la morte della figura dell’autore, «questo personaggio a cui si
continuano ad attribuire funzioni che non gli competono, l’autore come
espositore della propria anima alla mostra permanente delle anime; l’autore
come utente d’organi sensori e interpretativi più ricettivi della media;
l’autore, questo personaggio anacronistico, portatore di messaggi, direttore di
coscienze, dicitore di conferenze alle società culturali» [38]. Ne Le città
invisibili, il Gran Khan a un certo punto accusa Marco Polo così: «Piombandogli
addosso, piantandogli un ginocchio sul petto, afferrandolo per la barba: –
Questo volevo sapere da te: confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di
grazia, elegie!»[39]. Poter dire «scrive» come si dice «piove!», un verbo
impersonale per non contaminare con la propria limitata individualità [40].
«Come scriverei bene se non ci fossi!»[41], afferma Silas Flannery in Se una
notte d’inverno un viaggiatore, se l’autore fosse solo una mano, una mano mozza
che impugna la penna.
Non
vi può essere affermazione più netta di contrasto rispetto alla tendenza
contemporanea di esaltazione del personaggio-scrittore-autore, che spesso conta
più dell’opera [42].
Calvino
si rivolge a un lettore consapevole. Il punto più maturo di questa ricerca
viene raggiunto in Se una notte d’inverno un viaggiatore, iper-romanzo, prova
estrema di meta-letteratura, di impianto strutturalista e combinatorio, che
mostra in modo lampante che la «letteratura è tutta implicita nel linguaggio, è
solo permutazione d’un insieme finito di elementi e funzioni» [43]. Si può
sfuggire all’indistinto del mondo continuo, al mare dell’oggettività [44], per
riscoprire la possibilità di un mondo «discreto»[45].
Il
lettore diventa allora il protagonista Lettore (e corrispettiva Lettrice) in Se
una notte d’inverno un viaggiatore. Non conta lo scrittore, che diventa
ghostwriter di sé stesso e creatore di copie e finte opere. Silas Flannery
osserva la Lettrice con un binocolo, da lontano, per cogliere sul suo viso le
reazioni al romanzo che ha scritto, che vorrebbe scrivere, che scriverà.
La
letteratura è allora chiamata a una piatta espressione di combinazioni di
parole e funzioni, di attanti e strutture? La letteratura è la scacchiera del
gioco degli scacchi tra Kublai e Marco ne Le città invisibili?[46]. La
letteratura è quell’operazione di combinazione di tarocchi, immagini semplici e
potenti, immagini che si trasformano in parole, che le sostituiscono
addirittura, visto che i viaggiatori hanno perso l’uso della parola. Nel
silenzio, si intrecciano storie, che compongono un tappeto, una trama o un
intreccio che può essere letto da sinistra a destra o viceversa, dall’alto
verso il basso o viceversa. E nella Taverna dei destini incrociati le storie
individuali compongono le grandi storie: il racconto di Amleto, di Edipo, di
Parsifal e del Graal, di Faust, di re Lear. Le nostre storie in quelle dei
miti, o quelle dei miti nelle nostre quotidiane e inapparenti?
Vi
è un tono meditabondo e quasi vulnerabile nel capitolo «Anch’io cerco di dire
la mia» della Taverna dei destini incrociati [47]. Per poche pagine il velo
dell’autorialità si apre, e sentiamo viva la voce di Calvino che scrive: «La
scrittura insomma ha un sottosuolo che appartiene alla specie, o almeno alla
civiltà, o almeno a una categoria di reddito. E io? E quel tanto o quel poco di
squisitamente mio personale che credevo di metterci?»[48]. Il ritratto che
Calvino in quel punto dà di sé è persino struggente, con tutte le sfumature
della revisione di vita di un uomo che per intero l’ha dedicata alle lettere:
«Scarta un tarocco, scarta l’altro, mi ritrovo con poche carte in mano. Il
Cavaliere di spade, L’Eremita, Il Bagatto sono sempre io come di volta in volta
mi sono immaginato d’essere mentre continuo a star seduto menando la penna su e
giù per il foglio. Per sentieri d’inchiostro s’allontana al galoppo lo slancio
guerriero della giovinezza, l’ansia esistenziale, l’energia dell’avventura
spesi in una carneficina di cancellature e fogli appallottolati. E nella carta
che segue mi ritrovo nei panni d’un vecchio monaco, segregato da anni nella sua
cella, topo di biblioteca che perlustra a lume di lanterna una sapienza
dimenticata tra le note a piè di pagina e i rimandi degli indici analitici.
Forse è arrivato il momento d’ammettere che il tarocco numero uno è il solo che
rappresenta onestamente quello che sono riuscito a essere: un giocoliere o
illusionista che dispone sul suo banco da fiera un certo numero di figure e
spostandole, connettendole e scambiandole ottiene un certo numero di
effetti»[49].
Autore
come Bagatto, giocoliere, mago, artigiano. Anche come cavaliere o eremita. Così
Calvino prende a icona di vita intellettuale i tanti San Giorgio che
schiacciano la testa del drago, uomini di azione; i San Girolamo, icone di vita
ritirata, intenti nella traduzione della Bibbia sulla soglia di una grotta. Ora
Bagatto, ora San Giorgio o San Girolamo, Calvino aspira per sé a essere
guerriero e savio «in ogni cosa che fa e pensa» e a tenere a bada ora il drago,
ora il leone, immagini differenti che indicano nell’una e nell’altra condizione
di vita l’esigenza della lotta che comunque va assunta. Si tratta di
un’intuizione sedimentata, perché già ne Il cavaliere inesistente lo scrittore
aveva usato come alter ego una guerriera che si dedica alla preghiera e
combatte l’ardua battaglia della scrittura: Calvino prima Bradamante e poi Suor
Teodora.
Per
quale scopo combattere? «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo
all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[50]. Così
terminano Le città invisibili. Nel «labirinto» del mondo calviniano, che
abbiamo interrogato nella brevità di questo articolo, ci piace concludere con
questa immagine, di cura e responsabilità. Perché il distacco calviniano non è
indifferenza, non è «separare la propria dall’altrui sorte».
Conclusioni
Calvino
è figura centrale nella letteratura italiana del Novecento. Lo è stato come
editore e come autore. Ha attraversato le inquietudini della società italiana,
lo slancio della ricostruzione dopo il disastro della Seconda guerra mondiale,
la delusione del crollo degli ideali e l’amarezza di fronte al vuoto della
società dei costumi. Lo ha fatto con la sua cifra, unica, di «poeta» e
favolista, prima neorealista e poi innovatore e sperimentatore, senza mai
rinunciare all’equilibrio di una scrittura cristallina. Ha regalato alla
letteratura italiana figure ora imprescindibili: il visconte, il barone, il
cavaliere, Marcovaldo. La meditazione più bella sulla democrazia è la sua
Giornata d’uno scrutatore. Così come la letteratura del nostro Paese sarebbe
più povera senza le vertiginose e psichedeliche prose delle Cosmicomiche, senza
la grazia sospesa delle Città invisibili. Il suo Se una notte d’inverno un
viaggiatore costituisce un punto di riferimento per ogni riflessione
meta-letteraria, un manuale di narratologia. Oggi ogni testo in questo ambito
parte dal suo iper-romanzo.
Anche
come saggista Calvino è un punto di riferimento fondamentale, in particolare
con il saggio Lezioni americane, nel quale ha «ignazianamente» riletto la sua
esperienza letteraria per porre i criteri della letteratura del domani.
Di
fronte alle tensioni e alle sfide di un mondo che sempre più scopre aree di
applicazione dell’intelligenza artificiale, possiamo dire che la ricerca
calviniana del secondo periodo della sua produzione offre fecondi spunti di
riflessione. Se le sperimentazioni strutturaliste e combinatorie in senso
stretto possono dirsi superate, alcuni frutti di quelle teorizzazioni sono
attuali. In modo particolare ci sembra importante l’affermazione del valore
della lettura, dell’operazione del leggere, del ruolo del lettore. Dopo decenni
di ipertrofia della figura dell’autore, a fronte del rischio che esso venga
sminuito e «declassato» dall’intelligenza artificiale, la valorizzazione del
lettore apre spazi di libertà e responsabilità, cura e formazione. In una
cornice teorica altra e storicamente connotata, già Calvino aspirava alla
cancellazione dell’individualità dell’autore, non per condurre a posizioni
nichiliste, ma per aprirsi a un mistero che chiama le parole per essere detto.
In questo senso, se l’autore può venir meno, non può mancare l’intelligenza
critica del lettore.
Lo
scrittore ligure usa il riferimento al testo sacro per dirlo: «Il libro unico,
che contiene il tutto, non potrebb’esser altro che il testo sacro, la parola
totale rivelata. Ma io non credo che la totalità sia contenibile nel
linguaggio; il mio problema è ciò che resta fuori, il non-scritto, il non-scrivibile»
[51]. Ci spiace che non abbia avuto l’onestà di scrivere la parola «Bibbia» in
quel luogo, ma abbia preferito usare solo il riferimento al Corano.
Calvino
costituisce un’eccezione anche dal punto di vista dello sguardo di fede sulla
realtà. Possiamo dire che, rispetto al contesto italiano del suo tempo, egli
ricevette una formazione «anomala», così razionale, agnostica, anche
anticlericale. Rispetto ad altri intellettuali con un background analogo,
tuttavia, nei suoi scritti non si percepisce il livore della feroce condanna né
lo sdegno o la disistima per chi si dichiara credente. Non è scrittore spirituale,
anche se sua è forse una delle affermazioni più belle sull’amore, ne La
giornata d’uno scrutatore: «L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini
se non quelli che gli diamo»[52]. È sotto il suo sguardo che il luogo della
sofferenza diviene la Città, per noi cristiani la Civitas Dei di Agostino:
«Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo
scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città»[53]. Di
Calvino, agnostico[54], possiamo apprezzare l’impegno etico, la coerenza di
vita e l’interesse per il bene pubblico.
La
Civiltà Cattolica
***
I.
Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, Milano, Mondadori, 2001, 123. ↑
Per
la biografia di Calvino, punto di riferimento è la «Cronologia», a cura di
Mario Barenghi e Bruno Falcetto, in I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. I,
Milano, Mondadori, 2003, LXIII-LXXXVI. ↑
Per
una presentazione dei luoghi calviniani, cfr M. Barenghi, Italo Calvino, le
linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, 15-21. ↑
Floriano
Calvino diventerà poi un geologo di fama internazionale e insegnerà per molti
anni all’Università di Genova. ↑
I.
Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, cit., 704. ↑
L’immobilismo
di Togliatti e di altri dirigenti di partito fu oggetto di ironia nel racconto
La gran bonaccia delle Antille. ↑
Cfr
M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., 35. ↑
La
meditazione sul potere più pregnante è ancora frutto della penna di Calvino,
nel racconto Il re in ascolto, uscito postumo nella raccolta Sotto il sole
giaguaro del 1986. ↑
Tra
le opere critiche che ci hanno aiutato nella lettura di Calvino, oltre a C.
Milanini, L’utopia discontinua. Saggi su Italo Calvino, Roma, Carocci, 2022,
ricordiamo: C. Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Milano, Vita
e Pensiero, 2016; F. Centofanti, Italo Calvino. Una trascendenza mancata,
Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1993. ↑
A
questo periodo appartengono il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947;
la raccolta dei racconti di Ultimo viene il corvo, del 1949; L’entrata in
guerra, del 1954, Il visconte dimezzato, del 1951, La formica argentina, del
1953-1954; Le fiabe italiane, del 1956; Il barone rampante, del 1957; La
speculazione edilizia, del 1956-1957; La nuvola di smog, del 1958; Il cavaliere
inesistente, del 1959; Marcovaldo ovvero le stagioni in città, del 1963; La
giornata d’uno scrutatore, del 1963. ↑
A
questo periodo appartengono Le cosmicomiche, del 1965, con le aggiunte
successive in nuove edizioni; La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche,
del 1968; Cosmicomiche vecchie e nuove, del 1984; Ti con zero, del 1967; Le
città invisibili, del 1972; Il castello dei destini incrociati, del 1973; Se
una notte d’inverno un viaggiatore, del 1979; Palomar, del 1983. ↑
Sul
giudizio dato da Calvino sul neorealismo il testo di riferimento è la
Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno nella riedizione del 1964. Si tratta
di un breve saggio che permette all’autore di dire quel che il neorealismo è
stato, quel che ha comportato in termini di sacrificio di memoria, e lo stato
della situazione rispetto alla letteratura della Resistenza, nella cui cornice
Calvino riconosce il valore assoluto della prosa di Beppe Fenoglio, del quale
era uscito l’anno prima il libro Una storia privata. L’omaggio all’amico
scrittore delle Langhe piemontesi è commosso. Cfr D. Mattei, «Il sapore
dell’assoluto in Beppe Fenoglio», in Civ. Catt. 2023 II 549-561. ↑
Pavese
intuì subito il tono «fiabesco» della scrittura di Calvino. In effetti, tra i
racconti della Resistenza molti sono quelli che assumono evidenti cadenze
fiabesche o tonalità simboliche che li distaccano da testi di altri scrittori
contemporanei. ↑
Alla
compresenza di realismo e di tono fiabesco è legata una delle più note
descrizioni della prosa dello scrittore ligure. Vittorini affermò che Calvino
alterna «un realismo a carica fiabesca» a «fiabe a carica realistica». ↑
I.
Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 21. ↑
Sulla
valenza della categoria di azione e progetto in Calvino, cfr M. Barenghi, Italo
Calvino, le linee e i margini, cit., 45-47. ↑
Ivi,
30. ↑
I.
Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, cit., 549. ↑
Ivi,
1209. ↑
Calvino
distingue due processi immaginativi: quello che va dalla parola all’immagine; e
quello opposto, che va dall’immagine alla parola. Cfr I. Calvino, Saggi
1945-1985, t. I, cit., 699. ↑
Cfr
ivi, 707. ↑
Cfr
ivi, 699-702. Tra i personaggi religiosi, possiamo citare l’abate Fauchelafleur
de Il barone rampante, le suore e i sacerdoti del Cottolengo, e soprattutto la
Madre ne La giornata d’uno scrutatore. ↑
Cfr
Id., Romanzi e racconti, vol. I, cit., 605; 653; 680; 687; 743 et alia. ↑
Cfr
M. Lavagetto, «Introduzione», in I. Calvino, Sulla fiaba, Milano, Mondadori,
2023, 3-20. ↑
I.
Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 23. Sul valore iniziatico come spinta
propulsiva della scrittura di Calvino, cfr M. Barenghi, Italo Calvino, le linee
e i margini, cit., 73 s. Sulla presenza di figure di fanciulli e ragazzi nella
letteratura a partire dall’Ottocento in Nievo, Stendhal, Twain, Stevenson e
Kipling, cfr I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 41-43. ↑
Id.,
Romanzi e racconti, vol. I, cit., 1213. ↑
Id.,
Saggi 1945-1985, t. I, cit., 631. ↑
Barenghi
parla di «un variegato repertorio di soluzioni narrative che uniscono rigore
razionale e gusto dell’avventura, umorismo e moralità, indugio riflessivo e
tratto fantastico, osservazione empirica ed elaborazione cognitiva, dando luogo
nella fase più matura a un’intera costellazione di sottogeneri
(postavanguardistici, piuttosto che post moderni): dal racconto-saggio
all’iper-romanzo, dall’avventura percettiva o sensoriale alla narrativizzazione
di immagini, senza dimenticare le ingegnose forme di incorniciamento e
costruzione modulare» (M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit.,
30). ↑
I.
Calvino, Saggi 1945-1985, t. I., cit., 671. ↑
Ivi,
212 s. ↑
Ivi,
213. ↑
Questa
è la risposta data da ChatGPT a chi chiedeva cosa fosse ChatGPT: in sostanza,
una definizione di autoconsapevolezza dell’AI. Cfr D. Semeraro, «ChatGPT, ecco
come funziona l’intelligenza artificiale più evoluta», in
https://tinyurl.com/mt2aza8e ↑
«Le
cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili:
il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti
personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o grandi, di
considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni
della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il
posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può
insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante
altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare
altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo
continuamente andare a impararlo» (I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 21
s). ↑
Calvino
individua sette tipi di lettori nel capitolo XI di Se una notte d’inverno un
viaggiatore. Cfr Id., Romanzi e racconti, vol. II, Milano, Mondadori, 2004,
865-866. ↑
Id.,
Saggi 1945-1985, t. I, cit., 215. ↑
Id.,
Romanzi e racconti, vol. II, cit., 850. ↑
Id.,
Saggi 1945-1985, t. I, cit., 215. ↑
Ivi,
216. ↑
Id.,
Romanzi e racconti, vol. II, cit., 442. ↑
Cfr
ivi, 784. ↑
Ivi,
779. ↑
Cfr
G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia
contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018, 26-30. ↑
Cfr
I. Calvino, Saggi 1945-1985, t. I, cit., 217. ↑
Cfr
ivi, 52-60. ↑
Cfr
ivi, 209; 211. ↑
Cfr
Id., Romanzi e racconti, vol. II, cit., 462; 469. ↑
Cfr
ivi, 591-602. ↑
Ivi,
595. ↑
Ivi,
596. ↑
Ivi,
498. ↑
Ivi,
790. ↑
Ivi,
69. ↑
Ivi,
78. ↑
Nel
saggio Natura e storia nel romanzo, frutto di una conferenza del 1958, Calvino
afferma: «Perciò, per quanto il grande afflato biblico di un Dostoevskij e di
un Tolstoj non cessi d’ispirarci emozione e ammirazione, la nostra lezione di
forza preferiamo trarla dall’agnosticismo del piccolo Cechov, come una limpida
lente che non nasconde nulla della negatività del mondo ma non ci persuade a
sentircene vinti» (Id., Saggi 1945-1985, t. I, cit., 38 s). ↑
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