venerdì 15 marzo 2019

IL CONFINE, UN'IDENTITÀ' CHE ESCLUDE

Nasce come idea inclusiva e finisce come idea esclusiva. Dove il confine è frontiera, la frontiera è esclusione, e l’esclusione è di fatto annichilimento dell’alterità dell’altro
Una riflessione del filosofo Givone sulle rimonte attuali dei concetti di sovranismo e nazionalismo e sul rischio che possano trasformarsi in nuove forme totalitarie Ma davvero oggi l’unica scelta è fra globalizzazione commerciale e l’insorgere di barriere invalicabili che separano popoli e Stati?
Si dice “confine” e non semplicemente “fine” (nel senso di finis, terminus, limite invalicabile) evidentemente per qualche buona ragione: una delle quali, non la sola, è che si tratta di una linea divisoria in comune con altri o comunque condivisa. Non dunque un elemento di separazione, al di là del quale il mondo, abitato o meno che sia, cessa di essere mondo, e si fa luogo inospitale e ostile, o addirittura nonluogo, ma un principio di riconoscimento reciproco, sia pur minimo, quale ad esempio è espresso dalla formula: «Io sono chi tu non sei, tu sei chi io non sono». Tuttavia l’idea di confine reca con sé una contraddizione. A stabilire il confine, ad assicurarlo può essere soltanto una istituzione sopra le parti in grado di impedire a qualsiasi forza aggressiva di invadere territori altrui. Questa istituzione è stata storicamente l’“impero”. Ed è proprio la vocazione imperialistica di questa istituzione sopra le parti a snaturare l’idea di confine da essa presupposta fino a contraddirla.
Infatti c’è confine e confine. C’è il confine che separa ma prima ancora unisce i popoli che formano l’impero: li conferma nella loro separatezza, rispettandone consuetudini tradizioni credenze eccetera, ma li include in un più ampio orizzonte e quindi li unifica. E c’è il confine che separa per escludere e anzi per negare qualsiasi diritto, compreso il diritto alla vita, a chiunque si ponga al di fuori di esso. Nel momento in cui l’impero si costituisce come nazione delle nazioni, e dunque non già come potere sovranazionale, ma come potere ipernazionale, il confine è uno solo: fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, fra i titolari dei diritti e fra coloro che non lo sono, fra i popoli dell’impero e i barbari.
Inevitabilmente il concetto di confine si fa evanescente, contraddittorio, nato com’è in nome della pace e funzionale com’è diventato unicamente alla guerra contro quello che appare un irriducibile nemico. Così è stato nel caso dell’impero romano. Con l’affermarsi del potere imperiale di Roma e con la progressiva estensione della cittadinanza romana a tutti i popoli dell’impero, il concetto di confine viene meno e svapora. In quanto confine fra popoli dell’impero cessa di essere un limite e una barriera (limes) per configurarsi come una porta aperta piuttosto che chiusa, insomma, come una soglia (limen). E in quanto confine ultimo, confine delimitante l’impero, torna a essere stazione terminale, punto conclusivo oltre il quale non c’è praticamente nulla (finis).
Se all’interno dell’impero il confine dice l’omogeneità e la compattezza dei popoli che lo compongono, ma soprattutto dice la loro piena appartenenza al mondo civile (quanto meno l’appartenenza che è propria del civis romanus), all’esterno dell’impero il confine indica quel nulla incolto e disumano che è il deserto. Perfino etimologicamente ( finis da figere, conficcare nel terreno), il confine evoca il gesto imperiale, imperialistico e soprattutto imperioso del centurione che, giunto al limite del mondo civile, decreta: hic sunt leones. E qui vale la pena di ricordare che il trattamento riservato ai leoni (nel deserto) era più o meno lo stesso riservato a coloro che (dentro i confini dell’impero) non si lasciavano assimilare ma erano peggio che barbari perché erano estranei, “stranieri”.
L’ombra lunga, lunghissima di Roma si estende in modo quanto mai inquietante e pauroso sul nostro tempo, caratterizzato com’è da forme di imperialismo non sempre evidenti né dichiarate, ma inconfutabili, che derivano da una doppia dissoluzione: la dissoluzione dell’impero romano, prima, e la dissoluzione del sacro romano impero, poi. Ma qui più che di dissoluzione si dovrebbe parlare di trasformazione: da impero a impero, l’uno non meno dell’altro a vocazione imperialistica, come dimostra il fatto che l’idea di confine è sempre quella. Nasce come idea inclusiva e finisce come idea esclusiva. Dove il confine è frontiera, la frontiera è esclusione, l’esclusione è di fatto annichilimento dell’alterità dell’altro. Consideriamo gli Stati Uniti d’America – sempre che sia lecito applicare una categoria come quella di imperialismo a una democrazia per molti versi esemplare – senza chiudere gli occhi di fronte agli aspetti oscuri e sconcertanti che hanno inquinato la storia di quel grande Paese e che si ripresentano sempre di nuovo in modo inquietante. Dà da pensare il fatto che il Paese massimamente inclusivo, il popolo fatto di popoli provenienti da Europa, Asia, Africa e America Latina, stia erigendo sul suo confine meridionale una frontiera invalicabile e percepisca come un’invasione potenzialmente distruttiva una pacifica processione di disperati che in realtà altro non sono che potenziale forza-lavoro (quella forza-lavoro già reclutata in tempi non lontani con i mezzi più brutali).
Si era materializzata una prima volta in America l’idea che il confine fosse una frontiera, una nuova frontiera, da raggiungere con qualsiasi mezzo per fissare là dove tramonta il sole (far west) il limite oltre il quale il mondo non è più mondo, ma deserto, oppure oceano. Il mondo è di chi se ne impossessa, lo fa suo, lo coltiva, scacciandone ed estirpandone chi lo abita neanche fosse gramigna. Fanno da corollario a questa condotta le pratiche omicide che mettono capo al linciaggio, da una parte, e all’eugenetica, dall’altra, l’una e l’altra legate da un filo rosso, ed è la soppressione della vita che si presume indegna o estranea alla comunità. È doloroso ammetterlo, ma sarebbe falso negarlo: il leerer Raum in cui avrebbero dovuto lanciarsi i carri armati tedeschi verso il confine orientale riproponeva a suo modo lo “spazio vuoto” dove si erano lanciati i carri dei coloni, così come le deportazioni altro non erano che forme di linciaggio e cioè di assassinio cui la popolazione assisteva e assentiva silenziosamente.
È dunque inevitabile che il confine sia destinato a cessare di essere confine per ridiventare ostacolo, muro, carcere (come sembra suggerire la parola confino)? Non resta cioè che denunciare la propria impotenza di fronte alla deriva non solo imperialistica ma totalitaria del potere, per cui non c’è differenza che non finisca con l’essere sacrificata sull’altare di una identità tanto idolatrica quanto ideologica? Davvero il diritto, il diritto delle genti, non esiste se non in forza di un imperium che tende a perpetuarsi e a confermare se stesso?
L’impero – ogni impero, sia quello che si chiama così sia quello che si nasconde nella tendenza all’imperialismo che è propria delle nazioni – è basato su una cessione di sovranità. Diventando a sua volta sovrano grazie a questa operazione, l’impero si fa nazione: più esattamente, nazione delle nazioni. E facendosi tale sfuma i confini al suo interno fino a farli sparire e ribadisce i confini con l’esterno fino a trasformarli in frontiere. Così i popoli diventano nazioni e le nazioni si sciolgono nell’impero.
Per i popoli non c’è più posto, proprio nel posto che li doveva accogliere tutti: non c’è più posto per i popoli nomadi, per i popoli sradicati, per i senza terra o la cui terra sia stata violata. A questo punto la domanda è: è possibile invertire questa tendenza apparentemente irreversibile verso un mondo sempre più globalizzato e prigioniero di un unico stile di vita, mondo senza popoli, mondo di consumatori? Oggi c’è chi pensa di reagire appellandosi alla sovranità perduta, contrapponendo all’imperialismo il populismo, ripristinando i confini. Senza rendersi conto che significa evocare quella logica sovranista, nazionalista e identitaria che, sviluppata, porta al totalitarismo.
Ma forse c’è un’altra strada. Espressa in forma di domanda, è la seguente: e se la cessione di sovranità avvenisse non tanto a favore di una nazione delle nazioni, con i suoi confini e tutto il resto, ma di una non-nazione, una terra di nessuno perché di tutti, una terra di libero scambio, dove i popoli potessero abitare appunto liberamente, facendo della libertà il principio regolatore e legittimante?





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