A volte feriscono il
popolo dei credenti le frequenti polemiche intracristiane fra cosiddetti
progressisti e conservatori: a parere di chi scrive non è che non debbano o
possano esistere, dato che ci sono sempre state e sempre ci saranno, ma la
polarizzazione delle opinioni fa sì che spesso non si riesce a cogliere il
positivo in posizioni che si giudica contrarie al proprio punto di vista. E
questo è un fenomeno da cui deriva un impoverimento per tutto il pensiero
cristiano.
Affrontando la parola
ekklesia, che deriva dal verbo kaleo e sta a significare la convocazione dei
cristiani attorno alla parola di Dio e all’eucaristia, Gianfranco Ravasi nel
suo nuovo libro L’alfabeto di Dio ricorda come sia stata poco adoperata nei Vangeli
e molto negli Atti degli apostoli e nelle lettere, ove si racconta la comunione
di vita delle prime comunità cristiane. «Il ritratto delle varie Chiese che
emerge – commenta il cardinale – rivela la presenza di tensioni, di differenze
e persino di crisi: è questo il segno dell’incarnazione, che riflette i
condizionamenti umani, storici, etnici, culturali. È allora significativo
l’appello all’unità che spesso affiora perché la Chiesa sia “sale della terra e
luce del mondo”».
Nel libro edito da San
Paolo (pagine 320, euro 20,00), il cardinal Ravasi presenta i più significativi
vocaboli ebraici e greci dell’Antico e del Nuovo Testamento e non cessa di
stupire i lettori. Il biblista ha scelto 55 parole ebraiche e 52 greche. Per la
prima parte, «in un certo senso – si legge nell’introduzione – potremmo essere
in sintonia con la voce di Gesù che queste parole le aveva imparate, le
conosceva bene, le ascoltava e le ripeteva ogni sabato e nelle feste ebraiche
in sinagoga a Nazaret o a Cafarnao, oppure nel tempio di Gerusalemme». Nella
seconda parte, va sottolineato come nell’impero romano il greco venisse
utilizzato come facciamo oggi con l’inglese. Ma anche come nella comunità
cristiana, e nelle lettere di Paolo in particolare, numerose parole
acquistassero un significato originale: si pensi a pneuma (spirito), sarx
(carne) o charis (grazia).
Sempre nell’introduzione,
Ravasi si chiede quali lingue parlava Gesù e se sapeva leggere e scrivere. «È
probabile – annota - che Gesù usasse un po’ di greco quando aveva contatti con
non ebrei e forse durante il dialogo processuale con Pilato». Era infatti la
lingua franca che si usava ad esempio nei mercati e per comunicare fra ebrei e
gentili. Si rammenta poi il giudizio dello studioso americano John P. Meier,
per il quale «né la sua occupazione di falegname a Nazaret, né il suo
itinerario in Galilea circoscritto a città e villaggi decisamente giudaici,
avrebbero richiesto scioltezza e regolarità dell’uso del greco. Così non c’è
ragione per pensare che Gesù insegnasse regolarmente in greco alle folle che si
riunivano attorno a lui».
Addentrandoci in altre
voci del volume, risalta l’uso a volte simile a volte diverso delle parole in
ambito ebraico e greco. Ruah, ad esempio, che sta per spirito o respiro o
vento, è impiegato per designare la presenza di Dio che passeggia nel giardino
dell’Eden o il soffio vitale che dà respiro alle creature in molti altri casi.
Anche il greco pneuma ha alla base il respiro, il soffio, il vento – e non a
caso la nostra parola “anima” rimanda al greco anemos che significa “vento”. Ma
è con Paolo che il termine pneuma dà vera sostanza all’uomo, che è fatto di
corpo (sarx) e anima (psyché). Il cristianesimo va oltre la separazione fra carne
e anima propria della cultura greca.
Infine, la parola di
origine ebraica “Satana” che ricorre 36 volte nel Nuovo Testamento, quasi come
il termine diàbolos, presente 37 volte. Se nel libro di Giobbe l’Avversario è
«una specie di pubblico ministero assiso nella corte celeste con la funzione di
denunciare i peccati degli uomini», nei Vangeli ha un’accezione solo negativa,
è il tentatore che vuole far pendere verso il male la bilancia della storia.
Non a caso Ravasi cita Baudelaire («La più grande astuzia del diavolo è di
farci credere che non esiste») e Gide («Non credo nel diavolo, ma è proprio
quello che egli spera: che non si creda in lui»).
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