sabato 11 maggio 2024

I.A - RITORNARE ALL'UOMO

Contro l’IA la difesa 

è il ritorno all’uomo

 Distinguersi dalle macchine esercitando l’empatia che permette di ritrovare sé stessi negli altri. 

Da Crippa e Girgenti un vademecum moderno di sopravvivenza


-        -di MARCO ONNEMBO

 

Nella tormentata storia tra l’uomo e la macchina si insinua una notazione capace di cogliere un punto di forza dell’esperienza umana. Provare sentimenti, innamorarsi, concedere un pezzo di sé stessi agli altri. Si tratta di eventi “traumatici” che hanno il merito di valorizzare quanto di più importante possiede l’uomo: la propria unicità.

 Si può scegliere questo come punto di partenza per interpretare il ricco lavoro di Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti condensato nel saggio Umano, poco umano nel quale, senza mezzi termini, teorizzano come l’avvento dell’Intelligenza artificiale rischia di spazzare via quanto di umano c’è nell’uomo se questi non saprà reagire. Come? Dando vita ad un neoumanesimo che lo porti a riscoprire, attraverso dieci esercizi “spirituali” mutuati dal magistero dei filosofi dell’antichità, sé stesso. Si tratta, nelle intenzioni degli autori, di un “manuale di sopravvivenza” per resistere ad una tecnologia che mette a rischio l’intelligenza umana perché la rende uguale a quella artificiale. Il libro prende le mosse da Pierre Hadot e dal suo Esercizi spirituali e filosofia antica, oltre che da Foucault e Patocka - maestri della “cura del sé” - che di Socrate hanno fatto il loro padre nobile. Anzi, il pensiero del maestro ateniese – come quello di Agostino sul fronte “dell’interiorità” – è l’architrave su cui poggiano gli esercizi proposti da Crippa e Girgenti per “prendersi cura dell’anima”. Si tratta degli insegnamenti di Platone e Aristotele, Eraclito e Seneca, Ignazio di Loyola, ma anche di Nietzsche e Heidegger, che danno il titolo ad ogni capitolo e che hanno valore sia in senso laico sia in senso religioso. Succede tutte le volte in cui al centro vi è l’uomo, portatore di quell’autocoscienza che lo distingue dalla macchina.

 Proprio questo – seguendo il ragionamento degli autori – è il nemico che l’IA vuole abbattere, l’antropocentrismo su cui si fonda l’Occidente e l’umanesimo. L’IA è un “oggetto” senza conoscenza di sé stesso – per dirla con Eraclito -, senza emozioni, che funziona diversamente da come pensano i riduzionisti che assimilano il rapporto mente-comportamenti a quello hardware-software. Ciò che manca alla macchina è l’anima (vale ancora richiamare Agostino), quella “coscienza del sé” che in Socrate si traduce nella consapevolezza del non sapere, ma anche del sapere, e che alla macchina è ignoto: come il senso della parola “empatia”, che negli uomini si sostanzia nel ritrovare sé stessi negli altri.

Salvaguardare l'umano  

Questo è il punto chiave del libro, perché la salvaguardia di quanto di umano c’è in noi passa attraverso la conservazione degli elementi che rendono la nostra vita irripetibile, a cominciare dalle sensazioni che nascono dalle interazioni fisiche – «una cena vale più di mille chat » - e che si estremizza nell’amore. Queste e altre emozioni hanno nell’uomo la loro epifania più esplicita. Soprattutto in un mondo in cui «le immagini prevalgono sul testo» e in cui sembra che gli uomini tirino «su con amore un algoritmo e non i propri affetti». La sfida, dunque, non è navigare nel web, ma spingerci oltre le colonne d’Ercole presenti al nostro interno. Novelli Ulisse dobbiamo recuperare – come il re di Itaca con la sua Penelope - la “nostalgia dell’altro”, quella necessità del contatto in carne e ossa che è ancora appannaggio esclusivo dell’uomo. 

Non perdere la propria "unicità"

Se l’uomo non saprà reagire – è una delle tesi di Crippa e Girgenti – non solo perderà la propria “unicità” in senso spirituale e filosofico, ma anche la capacità di scegliere, perché la standardizzazione imposta dall’IA lo renderà un “nessuno digitale”, un “post uomo” che sguazza nel “mare della prevedibilità” (che è ciò che vuole il marketing per vendere meglio prodotti e servizi). L’uomo, però, non è una macchina, ha avuto una madre e un padre, si è cibato di emozioni che hanno alimentato il suo “Io” narrante che si manifesta attraverso l’atto della scrittura (a mano) e della lettura che, a ben vedere, rappresenta ancora l’esercizio “spirituale” più importante di tutti. Non si è cibato, insomma, di idee all’ingrosso partorite da un algoritmo. Ma c’è anche qualcosa di più “divino” che si può carpire incrociando le pagine (laiche) di questo saggio con la fede. Si tratta della capacità di dimenticare. Un’opzione che a una macchina è preclusa per definizione e che nell’uomo può assumere il duplice valore di scacciare un pensiero nefasto o di vivere la drammaticità di una malattia (basti pensare all’Alzheimer). 

Saper dimenticare

Ma in questo dimenticare proprio dell’uomo c’è anche una grazia: il dono, per esempio, di non aver incombenti sul nostro capo gli errori commessi e le cattiverie altrui. È il perdono. Quel dimenticare divino che è possibile solo a noi umani. Una qualità che nessuna Intelligenza artificiale potrà mai avere.

 

www.avvenire.it

 


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