-di Domenico Airoma
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Più che un’introduzione, è importante fare una premessa, anzi alcune
premesse, come avrebbe voluto Giovanni Cantoni, il fondatore di Alleanza
Cattolica.
La prima riguarda la nozione di Occidente.
L’Occidente, al pari dell’Europa, non è riducibile ad un luogo geografico,
ma identifica un habitat culturale che, in qualche luogo, ha prodotto anche una
civiltà.
L’Occidente è, in particolare, l’habitat che è venuto formandosi mettendo
insieme tre luoghi geografici ma soprattutto ideali: Atene, Roma e Gerusalemme,
che hanno concorso ad elaborare una visione dell’uomo, un’antropologia, con
tutto quel che ne consegue.
L’Occidente è, dunque, la nostra patria culturale.
La seconda premessa concerne la nozione di suicidio applicata
all’Occidente.
La patria non può morire, anche se si tratta di una patria culturale.
Cos’è, allora, che sta morendo? Un falso Occidente.
Sta morendo quell’identità artificiale imposta da una concezione dell’uomo
nata nel seno dell’Occidente stesso, con l’obiettivo di estromettere il sacro
dall’orizzonte terreno e costruire un mondo nuovo a cielo chiuso.
E si tratta di una morte per implosione più che per aggressione di nemici
esterni, pur se questi ultimi non mancano e non smettono di denunciare il
comune odio contro l’Occidente, vero collante della “guerra mondiale a pezzi”.
La terza premessa riguarda le cause dell’implosione.
Due sono le letture che sul punto si contendono il campo; due chiavi di
lettura che conducono a due antitetiche prospettive operative.
Da un lato vi è l’occidente relativista e secolarizzato, egemone
nell’accademia e nelle istituzioni sovranazionali, oltre che nei principali
circuiti mediatici ed intellettuali, che, rifiutandosi di fare un salutare
esame di coscienza circa le cause dell’implosione, individua nella patria che
non muore la vera responsabile del fallimento, così cercando di cancellarla
definitivamente, colpendo, in particolare, coloro che ne trasmettono la cultura
e la memoria, squalificandoli moralmente prima ancora che socialmente.
Rifiutandosi di andare alle radici di quello che Aleksandr Solzenicyn
chiamò profeticamente l’errore dell’Occidente, gli epigoni di tale
contraffazione antropologica sono prigionieri della necessità di vagheggiare
sempre nuove frontiere salvifiche, in un gioco al rilancio dove la posta è
l’umanità ed il suo destino, non solo terreno.
Dall’altro lato, ma pur sempre in questo Occidente, vi è chi, sfidando la
cortina ideologica, il costume imperante e i tanti, insospettabili, vopos di
una società sempre più totalitaria, incomincia ad aprire gli occhi dinanzi al
reale e a realizzare i tanti fallimenti di un uomo che ha preteso di farsi Dio
e che oggi mira a superare l’umano come ultimo limite.
Una cosa deve essere allora chiara: non siamo qui per fare una mesta
orazione funebre.
Non siamo qui neppure per un’operazione di mera retrospettiva dei danni
causati da un’antropologia secolarizzata e relativista, disperata e disperante
pur sotto la doratura superficiale di una tecnica che promette di trasformare i
desideri in diritti.
Siamo qui non per piegarci su un mondo morente che non è la nostra patria,
ma per liberare la nostra vera patria da chi ne ha usurpato nome e
rappresentanza.
Siamo consapevoli che la crisi è plurisecolare ed è profonda e che non ha
risparmiato nessuno, neppure la Chiesa, nella misura in cui il Corpo mistico di
Cristo tocca terra e ha a che fare con questo mondo.
Così come siamo consapevoli che in questo cambio d’epoca l’alternativa,
come ebbe ad ammonire Giovanni Cantoni, o è totale e diametrale, o finisce con
l’essere un’ennesima sfumatura del cedimento.
Siamo, infine, consapevoli che quella visione dell’uomo che è all’origine
dell’Occidente e che ha prodotto grandi civiltà, compatibilmente con la
strutturale imperfezione umana, non può morire, perché affonda le sue radici
nella verità sull’uomo.
Ed allora siamo qui per piegarci sull’uomo piagato dalle ferite
provocategli da questo falso occidente che muore, per far risvegliare in lui la
nostalgia di un futuro che dipende solo da noi. Perché, se è vero che occorre
ben capire con chi parliamo, in quali condizioni si trova, è altrettanto vero
che non bisogna mai perdere di vista che cosa gli diciamo e perché, cioè per
quale fine.
È il tempo della ricostruzione; un tempo che richiede l’esercizio di una
virtù particolare, quella della pazienza storica. Quella di chi è capace di
intravedere e di far intravedere -innanzitutto con il proprio esempio- il
vivido chiarore dell’alba nella melanconia dell’imbrunire.
È un atto di giustizia, che dobbiamo ai nostri padri, ma soprattutto ai
nostri figli.
Persuasi che, come ebbe a ricordare Rosario Livatino concludendo la sua
conferenza su “Fede e diritto”, “il sommo atto di giustizia è necessariamente
sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”.
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