Avere a cuore il dialogo fraterno non è dire che non esiste tra noi alcuna differenza, ma rendere questa diversità “con–vivente” con quella degli altri.
di Mauro Leonardi
Il mondo attende una direzione.
L’intero pianeta soffre una pandemia che mette tutti i Paesi in difficoltà e
per questo cerca nel pontefice chi lo aiuti a passare dalla fraternità del
dolore a quella dell’amore. Abbiamo bisogno di chi ci aiuti a trovare un senso,
in mezzo a tante leadership culturali e politiche che proprio in queste
occasioni si dimostrano quanto mai inadeguate a rispondere alla nostra domanda
più vera, quella di saper affrontare la tempesta essendo fino in fondo noi
stessi. Se ne esce soltanto assieme: ecco perché l’idea della fraternità è
quella necessaria.
Esistono però fratelli che si
trattano con cortesia, ma sono distanti, freddi, non hanno a cuore la loro
relazione. Per vivere la fratellanza e l’amicizia sociale dobbiamo dialogare
ma, se dobbiamo dialogare, il dialogo deve essere vero. I buoni sentimenti non
bastano. C’è bisogno che intervenga anche la ragione.
Non basta il negativo: “non
litighiamo”, “non usiamo violenza”. Cosa significa davvero convivere
pacificamente? Cos’è questa con–vivenza, questo “vivere insieme”? Il rischio
dell’indifferentismo, cioè del “tutti differenti tutti uguali”, è gravissimo
perché l’espressione “tutti differenti tutti uguali” dice che la diversità è
insignificante, indifferente, ovvero che la differenza non vale più, non ha
nessun significato. Ma, se così fosse, questo sarebbe un enorme problema,
perché ciascuno di noi ha bisogno di definire la propria diversità, dal momento
che la nostra identità viene definita in quanto differente da quella degli
altri: la relazione è possibile solo fra diversi.
Avere a cuore il dialogo fraterno,
quindi, non è dire che non esiste tra noi alcuna differenza – affermazione che,
tra l’altro, sarebbe una gravissima menzogna –, ma rendere questa diversità
“con–vivente” con quella degli altri. Significa porre in essere delle relazioni
in cui da una parte si mantiene la diversità e dall’altra, nello stesso tempo,
si alimenta, attraverso questa diversità, una relazione di piena convivenza
interculturale e interreligiosa.
È trovare ciò che accomuna nel “fra”,
nell’ “inter”. Può sembrare una novità e invece è ciò che è già accaduto
storicamente moltissime volte. È avvenuto tra cristiani e musulmani nei
numerosi secoli e nelle tante nazioni in cui cristiani e musulmani convivevano
pacificamente insieme, è accaduto tra cristiani di diverse confessioni dopo gli
anni in cui i loro rapporti erano stati di “guerra religiosa”: inter–
religiosità è lo sforzo per trovare degli spazi comuni in cui coltivare gli
stessi valori – quello della pace o della responsabilità per la “casa comune” –
anche se a partire da sensibilità diverse, da modi di vedere diversi.
Siamo fratelli: l’uno per l’altro e
tutti insieme verso un nuovo inizio. Fratelli, in volontaria rivolta dell’uomo
di fronte al male che insidia il mondo e che deriva dalle nostre fragilità.
Parafrasando Ungaretti possiamo ricordare come il riconoscersi fratelli sia da
sempre un modo per l’uomo di reagire al dolore, al pericolo, all’incertezza. Il
Papa lo sa bene e per questo ha pensato di centrare la sua nuova Enciclica
sulla fraternità, sul bisogno di trovare una radice comune per essere più forti
del destino che mai come oggi pare avverso. Come i pesci più piccoli si
radunano in branco per fingere di essere una creatura marina enorme che mette
in fuga i predatori, così l’uomo riconoscendo una comune fraternità trova un
senso nel dolore proprio quando è condiviso, portato insieme.
E, se siamo fratelli, siamo anche
figli. Maria, dal Presepe di cui san Francesco è stato profeta, ci insegna
l’importanza di sentirci figli e ci offre una maternità che non solo offre Dio,
ma custodisce libero il creato: pastori, gente venuta da lontano, mercanti, artigiani,
centurioni: persino oche, pecore e bovini, trovano riparo in Maria, nuova arca
dell’alleanza.
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