e imparare a pensare
«con» l’altra chiesa,
non senza o contro
o
davanti o sopra o prima di essa.
- di Luciano Manicardi
Papa Francesco ha ricordato che durante il Giubileo sarebbe caduta la ricorrenza dei «1.700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio
ecumenico, quello di Nicea», e ha sottolineato che «Nicea rappresenta un
invito a tutte le chiese e comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso
l’unità visibile» (Spes non confundit 17). In particolare, ha sottolineato
l’importanza del riunirsi, della sinodalità, che fin dal Nuovo Testamento è la pratica ecclesiale della
comunione: «L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare
concretezza alla forma sinodale». E il documento finale del Sinodo dei vescovi ribadisce che «il dialogo ecumenico è fondamentale per sviluppare la
comprensione della sinodalità e dell’unità della Chiesa» (Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione
138). Una prima lezione «ecumenica» che ci viene da Nicea riguarda dunque
la sinodalità, sia nel senso generalmente accolto di «cammino fatto
insieme», in derivazione da synodía, «gruppo di persone che fanno strada
insieme», sia nel senso di «varcare la stessa soglia», e quindi «riunirsi», in
derivazione da syn-ὀdos, con ὀdos con lo spirito dolce, che nel greco classico
indica la soglia della casa.
Nelle chiese e tra le
chiese sono presenti differenze sul piano dottrinale e disciplinare, liturgico
e spirituale, si verificano tensioni, conflitti, a volte strappi e
lacerazioni. Il riunirsi per discutere le differenti posizioni, per
conoscersi, per appianare le divergenze, per ricucire gli strappi, è la via
ecclesiale per perseguire, costruire, sanare la comunione. E anzitutto per
creare relazioni e passare dal sospetto alla fiducia. A Nicea (certo, per
convocazione dell’imperatore) si verificò il convergere in un’unica assemblea
di capi di chiese provenienti da tutto l’impero, anche se i vescovi occidentali
furono pochi rispetto agli orientali. E lì si incontrarono e scontrarono
tradizioni diverse che prima raramente avevano avuto occasione di interagire.
I concili ecumenici
Più che per i risultati
raggiunti (significativi ma non risolutivi), Nicea è importante per la modalità
dell’evento stesso «che apre la strada all’esperienza dei concili detti
ecumenici» (Fabio Ruggiero). Il conflitto su una questione dottrinale che,
nella chiesa di Alessandria, divideva il vescovo Alessandro dal presbitero Ario, fu portato a Nicea per
giungere a una soluzione. Ovvero, è meglio scontrarsi parlandosi che lasciare
che le cose precipitino: le differenze che dividono i cristiani vanno
affrontate riunendosi, ascoltandosi, esponendo le proprie posizioni, discutendo
per giungere a una decisione. Comune ascolto, comune discussione, comune
consultazione, comune deliberazione: ecco il metodo sinodale. Tommaso d’Aquino dirà che lo Spirito agisce «nelle
assemblee»: il dialogo è la via spirituale per cercare un consenso tra i
cristiani.
Ma sinodalità è anche
camminare e non stancarsi di riprendere il cammino. La fine del Concilio di
Nicea non significò la fine dei problemi: la condanna della posizione di Ario
non chiuse la crisi ariana e l’arianesimo si diffuse ancora per tutto il V
secolo; il simbolo di Nicea fu ripreso e completato nel Concilio di Costantinopoli del 381; la data della Pasqua
decisa a Nicea non chiuse la querelle che è ancora oggi una questione ecumenica
aperta. Ovvero, la fine di un Concilio è l’inizio della fase della sua
ricezione. Il cammino sinodale non termina con la chiusura dei lavori
assembleari e con la stesura di un documento. Anche decisioni prese sono
rimesse in discussione dagli eventi e, nel frattempo, i cambiamenti storici
possono richiedere adattamenti e correzioni delle stesse.
Inoltre, il
riunirsi-camminare insieme esige la costruzione del soggetto plurale «noi». La
formulazione del simbolo di Nicea si apre con la confessione di fede al
plurale: Crediamo. All’interno di ciascuna chiesa e tra le chiese occorre sempre passare dall’io
al noi, e imparare a pensare con l’altro e con l’altra chiesa, non senza o
contro o davanti o sopra o prima. In quanto simbolo universale
sottoscritto da tutti (o quasi) i vescovi, il simbolo di fede niceno è una
novità. Anche un simbolo di fede è opera umana, è debitore di un periodo
storico, di una cultura e di una lingua particolari, è forzatamente datato. E
l’espressione linguistica del mistero non è mai il mistero stesso: Dio non è la
sua definizione linguistica. Se a Nicea si risolse la questione posta da Ario
circa la natura del Figlio ricorrendo al termine non scritturistico homoousios («della stessa sostanza»), cioè con
un’opera di inculturazione, questo compito interpella ancora oggi le chiese
tutte chiamate a discernere i segni dei tempi e ad annunciare Gesù Cristo agli uomini e alle donne del XXI secolo.
Perché il criterio autentico della Tradizione non è nel passato, ma nel futuro,
è escatologico, è il Regno di Dio verso cui tutte le chiese sono in
cammino.
Nessun commento:
Posta un commento