Il
passaggio del Rubicone
La
democrazia in Italia è a rischio? Lo scontro su questo tema è divampato dopo
che la segretaria del Pd, Elly Schlein, parlando al Congresso del Partito
socialista europeo, ad Amsterdam, ha collegato l’atto intimidatorio nei
confronti del conduttore di Report Sigfrido Ranucci al clima di odio creato dal
governo: «La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio, quando
l’estrema destra è al governo»
«Siamo
al puro delirio», ha replicato alla premier su internet. E poi, parlando
alla Camera: «Sono tentativi di gettare fango e ombre sull’Italia che l’Italia
rischia di pagare, mentre noi siamo tutti pagati per rappresentare al meglio
questa nazione».
Inutile
dire quale tempesta abbiano suscitato le parole della segretaria del Pd
sulle prime pagine dei quotidiani vicini al governo. Ma anche commentatori
di area moderata sono stati molto critici. Come Antonio Polito
che, in un editoriale sul «Corriere della sera», ha scritto: «Se ad Amsterdam
ci fosse un Rubicone, Elly Schlein l’avrebbe varcato.».
Sull’episodio
è intervenuto, in una intervista al «Corriere della sera», anche Sabino
Cassese: «Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute
le braccia», ha detto. Quanto alla minaccia alla democrazia, ha chiesto
ironicamente: «Qualcuno ha visto i carri armati davanti alla Rai o La7?».
L’autorevole
costituzionalista ha anche aggiunto una valutazione decisamente positiva
dell’evoluzione in senso democratico che Meloni ha saputo imprimere, col suo
pragmatismo, alla destra italiana, e l’ha definita «la migliore allieva di
Togliatti», che in passato ha fatto la stessa operazione con la sinistra.
Una
delegittimazione reciproca
Che
dire davanti a questo scontro frontale? Una prima osservazione è che
l’attribuzione, sia pure indiretta, al governo dell’attentato a Ranucci, in
assenza di qualunque indizio, è stata del tutto fuori luogo. E tuttavia
un’anima di verità si può trovare nella denunzia fatta da Schlein nel suo
discorso: «È chiaro cosa stanno facendo: propaganda ogni giorno. Alimentano un
clima di divisione, polarizzazione e odio».
È
un dato di fatto che ultimamente, soprattutto dopo l’assassinio avvenuto in
America di Charlie Kirk, rappresentanti del governo e stampa di destra
hanno cercato di stabilire un’analogia con quanto, nella loro ricostruzione,
era accaduto oltreoceano, denunciando una minaccia eversiva che in realtà
non c’è neanche negli Stati Uniti, ma meno che mai nel nostro paese. Il
ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, dopo aver evocato con
indignazione le critiche dell’opposizione al ministro Tajani e alla
premier, le ha collegate ad atteggiamenti a suo avviso giustificazionisti
dell’omicidio di Kirk da parte di «qualche intellettuale» della sinistra: «Sono
gli stessi ragionamenti che si sentivano ai tempi delle Brigate rosse»,
ha dichiarato. E ha concluso: «Questo è il clima che si sta creando in
questo Paese».
Sulla
stessa linea Giorgia Meloni che, nel suo intervento alla festa nazionale
dell’UDC, il 13 settembre, ha anche lei utilizzato l’omicidio di Kirk
per attribuire alla sinistra – che in realtà quell’omicidio lo aveva dal
primo momento chiaramente condannato senza mezzi termini – la responsabilità di
uno stile di violenza antidemocratica: «Credo che sia arrivato il momento
di chiedere conto alla sinistra italiana di questo continuo minimizzare o
addirittura di questo continuo giustificazionismo della violenza nei confronti
di chi non la pensa come loro – ha scandito la premier – . Perché il clima
anche qui in Italia sta diventando insostenibile ed è ora di denunciarlo».
Una
denuncia che assume spesso i tratti del vittimismo nel continuo riferimento
a non meglio precisati ricatti a cui la premier ripete di non voler
cedere e a minacce – anch’esse non specificate – da cui promette di non
lasciarsi intimidire. Come nella trasmissione del fidato Bruno Vespa, al quale
ha confidato: «Temo il clima che si sta imbarbarendo parecchio. Io non conto
più le minacce di morte».
In
questo contesto si colloca la gravissima accusa, rivolta alla sinistra durante
un comizio a Firenze, di essere «più fondamentalista di Hamas». Poi
in parlamento la premier ha ricordato, sempre con toni sprezzanti – «per chi
conosce la lingua italiana» – che il termine “fondamentalista” non è sinonimo
di “terrorista”. Ma di solito sono accoppiati ed è stata lei a fare il
paragone con Hamas, in cui il fondamentalismo e il terrorismo si fondono.
E
aver messo la sinistra, legittima opposizione democratica, sullo stesso piano
di violenti assassini, dopo averla continuamente accusata di
alimentare un clima di odio insostenibile e aver denunciato innumerevoli
«minacce di morte» nei propri confronti, non può non assumere un preciso
significato, almeno nella risonanza sull’opinione pubblica, che nessuna
spiegazione filologica può attenuare. Forse Polito avrebbe dovuto citare anche
questo come un passaggio del Rubicone.
Una
concezione di fondo diversa da quella democratico-liberale
Alla
radice di questa insofferenza alle critiche, che le identifica immediatamente
con l’odio e la violenza, vi è in realtà un’idea che Giorgia Meloni, pur
sinceramente allontanatasi ormai dalle sue originarie posizioni neo-fasciste,
ha conservato impressa nella sua mente e che ha espresso nella risposta alle
accuse di Schlein: attaccare il governo «vuol dire gettare fango e ombre
sull’Italia».
È
estranea alla nostra premier e alla maggioranza che la sostiene la
consapevolezza che, in uno Stato liberal-democratico, l’esecutivo sia solo un
organo, tra gli altri, chiamato a collaborare con essi per realizzare il
bene comune. Per loro lo Stato si identifica con chi è al potere. La grande,
fondamentale novità, rispetto alla visione totalitaria, è che il potere a sua
volta deriva dal popolo mediante libere elezioni. Ma quella che ne deriva è una
democrazia autoritaria.
Perché,
in una visione liberal-democratica, neppure aver vinto le elezioni autorizza
chi governa a fare ciò che vuole. La maggioranza ha il compito di prendere
le decisioni, ma deve alla minoranza le giustificazioni delle sue scelte, in un
libero confronto e non a colpi di decreti legge. A questo
confronto la nostra premier si sottrae sistematicamente, sia evitando
quanto più possibile di affrontare personalmente il dibattito in parlamento,
sia disertando le conferenze stampa (come quest’ultima sulla legge di bilancio,
abbandonata dopo poche battute). Il che rivela, tra l’altro, dietro la maschera
di “lady di ferro”, una intima fragilità.
In
una vignetta più espressiva di qualsiasi editoriale, dedicata alla seduta
parlamentare sul caso Almasri, Giannelli ha rappresentato i ministri Nordio e
Piantedosi mentre, in piedi, dietro il banco del governo, cercano di ripararsi
dalla pioggia di mele e uova marce proveniente dall’aula. Al centro, fra di
loro, la sedia vuota della premier, che però in realtà è rannicchiata, nascosta
dietro di essa, mentre risponde al telefono e dice, a chi le chiede una
dichiarazione: «Mi dispiace, ora non posso»
Da
qui anche la polemica costante nei confronti della magistratura, accusata di
sabotare l’opera del governo senza averne il diritto, perché non eletta dal
popolo. La formula ripetuta ad ogni occasione è che, se i giudici vogliono
intervenire sulle questioni pubbliche, devono prima candidarsi e farsi eleggere
in parlamento. Senza tenere conto che nella nostra Costituzione, a differenza
che nel modello rousseauiano, il consenso popolare non ha un ruolo
assoluto e ha dei limiti precisi in organi come la magistratura, che non
dipendono da esso.
Da
qui la concezione delle cariche istituzionali non come destinate a
rappresentare tutti, anche i dissenzienti – nella logica di un bene comune
che deve essere raggiunto anche col loro apporto – ma come armi da usare contro
i “nemici”. In questa logica, lo stile della premier e di tutto il governo
somiglia molto a quello di una continua campagna elettorale desinata a
sconfiggere gli oppositori.
Forse
più che alla scuola di Togliatti la nostra premier ha studiato a quella di
Orbán – modello di stabilità, con i suoi dodici anni di premierato – e,
ultimamente, a quella di Donald Trump, la cui continua battaglia con i “nemici
interni” lo porta a dispiegare l’esercito per controllare le città governate
dai democratici.
In
questa logica, a dispetto della retorica nazionalista che proclama il primato
degli italiani, i partiti di governo, nel parlamento europeo, hanno votato per
revocare l’immunità di Ilaria Salis e riconsegnarla alla “giustizia” ungherese.
Salis era stata tenuta in carcere – ancora prima del giudizio! – per ben
undici mesi, in condizioni gravemente lesive della sua più elementare dignità,
come ha potuto constatare il mondo intero, vedendola condotta in aula in catene
e con un collare al collo. La minaccia che incombeva era di una condanna a
24 anni di carcere per avere (cosa che lei nega) causato a due (uomini)
neonazisti lesioni guaribili rispettivamente in 5 e 8 giorni. Davanti a questo
quadro, molti parlamentari non italiani di destra hanno rifiutato di
avallare questa evidente persecuzione. I nostri no. Perché la Salis era di
sinistra e dunque, una nemica dell’Italia.
Una
nuova forma di partecipazione
Alla
luce di questa prospettiva culturale, prima ancora che politica, si capisce il
comportamento della presidente del Consiglio di fronte alle imponenti
manifestazioni popolari, in cui centinaia di migliaia di persone, di tutte le
età, di tutte le origini economiche e culturali, chiedevano al governo di
cambiare linea nei confronti del governo israeliano, accusato da
autorevoli fonti di genocidio. La reazione è stata di ignorarle, commentando
con indignazione solo le immagini dei tafferugli scatenati da poche centinaia
di estremisti davanti alla stazione di Milano.
E,
quel ch’è forse peggio, una parte consistente della stampa e delle televisioni
ha abbracciato questa lettura. Come il nostro più diffuso e autorevole
quotidiano, il «Corriere della sera», che ha riassunto questa grande prova di
partecipazione democratica, svoltasi in più di 80 città italiane, nel grande
tutolo: «Guerriglia a Milano per Gaza».
Non
sono i carri armati evocati ironicamente da Cassese. Ma, tra giornali di
estrema destra (in Italia sono sette), quotidiani moderati molto accomodanti
nei confronti del governo (come nel caso appena citato), televisioni di Stato
controllate sempre dal governo, televisioni private di destra, l’opinione
pubblica nella sua stragrande maggioranza è ormai orientata univocamente in una
precisa direzione. E si vede dai sondaggi, che danno Meloni stabilmente al 44%
dei consensi, avallando l’immagine in gran parte falsata che essa offre
del paese, dopo tre anni di governo.
A
dispetto di tutto questo, una forma di critica – ben più significativa ed
efficace di quella spesso poco incisiva e poco propositiva delle
opposizioni – ha trovato modo esprimersi a partire dal basso, nelle
manifestazioni di cui prima si parlava, le più massicce viste da decine di
anni. Ma è ancora una partecipazione che non trova riscontro a livello
istituzionale. Le ultime elezioni regionali hanno confermato la crescita
esponenziale dell’astensionismo, già registrata in quelle politiche e in quelle
europee con il risultato che, alla fine la famosa «fiducia» del popolo, vantata
dai governanti, si riduce alla metà della metà dei cittadini.
L’Italia
va verso la fine della democrazia? Non certo con un ritorno a forme
dittatoriali. Su questo Cassese ha ragione. Ma il rischio è di vedere
gradualmente svuotata la democrazia liberal-democratica, prevista dalla nostra
Costituzione, basata sul primato del parlamento e sul dialogo, a favore del
modello rappresentato da Orbán e da Trump – nei cui confronti Meloni esprime
continuamente la sua ammirazione e a cui guarda come ai suoi modelli – , che è
quello che chiamavamo “democrazia autoritaria”.
La
sola alternativa è risvegliare la sensibilità e la coscienza delle centinaia di
migliaia di persone che sono scese in piazza, riportandole a scoprire
l’importanza decisiva della forma politico-istituzionale della partecipazione.
Qualcuno dirà che è un’utopia. Ma le utopie sono i sogni di cui abbiamo
assoluto bisogno per immaginare il futuro e trasformare il presente.
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