sabato 25 ottobre 2025

DEMOCRAZIA A RISCHIO ?

 





di  Giuseppe Savagnone 

 

Il passaggio del Rubicone

La democrazia in Italia è a rischio? Lo scontro su questo tema è divampato dopo che la segretaria del Pd, Elly Schlein, parlando al Congresso del Partito socialista europeo, ad Amsterdam, ha collegato l’atto intimidatorio nei confronti del conduttore di Report Sigfrido Ranucci al clima di odio creato dal governo: «La democrazia è a rischio, la libertà di parola è a rischio, quando l’estrema destra è al governo»

«Siamo al puro delirio», ha replicato alla premier su internet. E poi, parlando alla Camera: «Sono tentativi di gettare fango e ombre sull’Italia che l’Italia rischia di pagare, mentre noi siamo tutti pagati per rappresentare al meglio questa nazione».

Inutile dire quale tempesta abbiano suscitato le parole della segretaria del Pd sulle prime pagine dei quotidiani vicini al governo. Ma anche commentatori di area moderata sono stati molto critici. Come Antonio Polito che, in un editoriale sul «Corriere della sera», ha scritto: «Se ad Amsterdam ci fosse un Rubicone, Elly Schlein l’avrebbe varcato.».

Sull’episodio è intervenuto, in una intervista al «Corriere della sera», anche Sabino Cassese: «Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia», ha detto. Quanto alla minaccia alla democrazia, ha chiesto ironicamente: «Qualcuno ha visto i carri armati davanti alla Rai o La7?».

L’autorevole costituzionalista ha anche aggiunto una valutazione decisamente positiva dell’evoluzione in senso democratico che Meloni ha saputo imprimere, col suo pragmatismo, alla destra italiana, e l’ha definita «la migliore allieva di Togliatti», che in passato ha fatto la stessa operazione con la sinistra.

Una delegittimazione reciproca

Che dire davanti a questo scontro frontale? Una prima osservazione è che l’attribuzione, sia pure indiretta, al governo dell’attentato a Ranucci, in assenza di qualunque indizio, è stata del tutto fuori luogo. E tuttavia un’anima di verità si può trovare nella denunzia fatta da Schlein nel suo discorso: «È chiaro cosa stanno facendo: propaganda ogni giorno. Alimentano un clima di divisione, polarizzazione e odio».

È un dato di fatto che ultimamente, soprattutto dopo l’assassinio avvenuto in America di Charlie Kirk, rappresentanti del governo e stampa di destra hanno cercato di stabilire un’analogia con quanto, nella loro ricostruzione, era accaduto oltreoceano, denunciando una minaccia eversiva che in realtà non c’è neanche negli Stati Uniti, ma meno che mai nel nostro paese. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, dopo aver evocato con indignazione le critiche dell’opposizione al ministro Tajani e alla premier, le ha collegate ad atteggiamenti a suo avviso giustificazionisti dell’omicidio di Kirk da parte di «qualche intellettuale» della sinistra: «Sono gli stessi ragionamenti che si sentivano ai tempi delle Brigate rosse», ha dichiarato. E ha concluso: «Questo è il clima che si sta creando in questo Paese».

Sulla stessa linea Giorgia Meloni che, nel suo intervento alla festa nazionale dell’UDC, il 13 settembre, ha anche lei utilizzato l’omicidio di Kirk per attribuire alla sinistra – che in realtà quell’omicidio lo aveva dal primo momento chiaramente condannato senza mezzi termini – la responsabilità di uno stile di violenza antidemocratica: «Credo che sia arrivato il momento di chiedere conto alla sinistra italiana di questo continuo minimizzare o addirittura di questo continuo giustificazionismo della violenza nei confronti di chi non la pensa come loro – ha scandito la premier – . Perché il clima anche qui in Italia sta diventando insostenibile ed è ora di denunciarlo».

Una denuncia che assume spesso i tratti del vittimismo nel continuo riferimento a  non meglio precisati ricatti a cui la premier ripete di non voler cedere e a minacce – anch’esse non specificate – da cui promette di non lasciarsi intimidire. Come nella trasmissione del fidato Bruno Vespa, al quale ha confidato: «Temo il clima che si sta imbarbarendo parecchio. Io non conto più le minacce di morte».

In questo contesto si colloca la gravissima accusa, rivolta alla sinistra durante un comizio a Firenze, di essere «più fondamentalista di Hamas». Poi in parlamento la premier ha ricordato, sempre con toni sprezzanti – «per chi conosce la lingua italiana» – che il termine “fondamentalista” non è sinonimo di “terrorista”. Ma di solito sono accoppiati ed è stata lei a fare il paragone con Hamas, in cui il fondamentalismo e il terrorismo si fondono.

E aver messo la sinistra, legittima opposizione democratica, sullo stesso piano di  violenti assassini, dopo averla continuamente accusata di alimentare un clima di odio insostenibile e aver denunciato innumerevoli «minacce di morte» nei propri confronti, non può non assumere un preciso significato, almeno nella risonanza sull’opinione pubblica, che nessuna spiegazione filologica può attenuare. Forse Polito avrebbe dovuto citare anche questo come un passaggio del Rubicone.

Una concezione di fondo diversa da quella democratico-liberale

Alla radice di questa insofferenza alle critiche, che le identifica immediatamente con l’odio e la violenza, vi è in realtà un’idea che Giorgia Meloni, pur sinceramente allontanatasi ormai dalle sue originarie posizioni neo-fasciste, ha conservato impressa nella sua mente e che ha espresso nella risposta alle accuse di Schlein: attaccare il governo «vuol dire gettare fango e ombre sull’Italia».

È estranea alla nostra premier e alla maggioranza che la sostiene la consapevolezza che, in uno Stato liberal-democratico, l’esecutivo sia solo un organo, tra gli altri, chiamato a collaborare con essi per realizzare il bene comune. Per loro lo Stato si identifica con chi è al potere. La grande, fondamentale novità, rispetto alla visione totalitaria, è che il potere a sua volta deriva dal popolo mediante libere elezioni. Ma quella che ne deriva è una democrazia autoritaria.

Perché, in una visione liberal-democratica, neppure aver vinto le elezioni autorizza chi governa a fare ciò che vuole. La maggioranza ha il compito di prendere le decisioni, ma deve alla minoranza le giustificazioni delle sue scelte, in un libero confronto e non a colpi di decreti legge. A questo confronto la nostra premier si sottrae sistematicamente, sia evitando quanto più possibile di affrontare personalmente il dibattito in parlamento, sia disertando le conferenze stampa (come quest’ultima sulla legge di bilancio, abbandonata dopo poche battute). Il che rivela, tra l’altro, dietro la maschera di “lady di ferro”, una intima fragilità.

In una vignetta più espressiva di qualsiasi editoriale, dedicata alla seduta parlamentare sul caso Almasri, Giannelli ha rappresentato i ministri Nordio e Piantedosi mentre, in piedi, dietro il banco del governo, cercano di ripararsi dalla pioggia di mele e uova marce proveniente dall’aula. Al centro, fra di loro, la sedia vuota della premier, che però in realtà è rannicchiata, nascosta dietro di essa, mentre risponde al telefono e dice, a chi le chiede una dichiarazione: «Mi dispiace, ora non posso»

Da qui anche la polemica costante nei confronti della magistratura, accusata di sabotare l’opera del governo senza averne il diritto, perché non eletta dal popolo. La formula ripetuta ad ogni occasione è che, se i giudici vogliono intervenire sulle questioni pubbliche, devono prima candidarsi e farsi eleggere in parlamento. Senza tenere conto che nella nostra Costituzione, a differenza che nel modello rousseauiano, il consenso popolare non ha un ruolo assoluto e ha dei limiti precisi in organi come la magistratura, che non dipendono da esso.

Da qui la concezione delle cariche istituzionali non come destinate a rappresentare tutti, anche i dissenzienti – nella logica di un bene comune che deve essere raggiunto anche col loro apporto – ma come armi da usare contro i “nemici”. In questa logica, lo stile della premier e di tutto il governo somiglia molto a quello di una continua campagna elettorale desinata a sconfiggere gli oppositori.

Forse più che alla scuola di Togliatti la nostra premier ha studiato a quella di Orbán – modello di stabilità, con i suoi dodici anni di premierato – e, ultimamente, a quella di Donald Trump, la cui continua battaglia con i “nemici interni” lo porta a dispiegare l’esercito per controllare le città governate dai democratici.

In questa logica, a dispetto della retorica nazionalista che proclama il primato degli italiani, i partiti di governo, nel parlamento europeo, hanno votato per revocare l’immunità di Ilaria Salis e riconsegnarla alla “giustizia” ungherese. Salis era stata tenuta in carcere – ancora prima del giudizio! –  per ben undici mesi, in condizioni gravemente lesive della sua più elementare dignità, come ha potuto constatare il mondo intero, vedendola condotta in aula in catene e con un collare al collo. La minaccia che incombeva era di una condanna a 24 anni di carcere per avere (cosa che lei nega) causato a due (uomini) neonazisti lesioni guaribili rispettivamente in 5 e 8 giorni. Davanti a questo quadro, molti parlamentari non italiani di destra hanno rifiutato di avallare questa evidente persecuzione. I nostri no. Perché la Salis era di sinistra e dunque, una nemica dell’Italia.

Una nuova forma di partecipazione

Alla luce di questa prospettiva culturale, prima ancora che politica, si capisce il comportamento della presidente del Consiglio di fronte alle imponenti manifestazioni popolari, in cui centinaia di migliaia di persone, di tutte le età, di tutte le origini economiche e culturali, chiedevano al governo di cambiare linea nei confronti del governo israeliano, accusato da autorevoli fonti di genocidio. La reazione è stata di ignorarle, commentando con indignazione solo le immagini dei tafferugli scatenati da poche centinaia di estremisti davanti alla stazione di Milano.

E, quel ch’è forse peggio, una parte consistente della stampa e delle televisioni ha abbracciato questa lettura. Come il nostro più diffuso e autorevole quotidiano, il «Corriere della sera», che ha riassunto questa grande prova di partecipazione democratica, svoltasi in più di 80 città italiane, nel grande tutolo: «Guerriglia a Milano per Gaza».

Non sono i carri armati evocati ironicamente da Cassese. Ma, tra giornali di estrema destra (in Italia sono sette), quotidiani moderati molto accomodanti nei confronti del governo (come nel caso appena citato), televisioni di Stato controllate sempre dal governo, televisioni private di destra, l’opinione pubblica nella sua stragrande maggioranza è ormai orientata univocamente in una precisa direzione. E si vede dai sondaggi, che danno Meloni stabilmente al 44% dei consensi, avallando l’immagine in gran parte falsata che essa offre del paese, dopo tre anni di governo.

A dispetto di tutto questo, una forma di critica  – ben più significativa ed efficace di quella spesso poco incisiva e poco propositiva delle opposizioni – ha trovato modo esprimersi a partire dal basso, nelle manifestazioni di cui prima si parlava, le più massicce viste da decine di anni. Ma è ancora una partecipazione che non trova riscontro a livello istituzionale. Le ultime elezioni regionali hanno confermato la crescita esponenziale dell’astensionismo, già registrata in quelle politiche e in quelle europee con il risultato che, alla fine la famosa «fiducia» del popolo, vantata dai governanti, si riduce alla metà della metà dei cittadini.

L’Italia va verso la fine della democrazia? Non certo con un ritorno a forme dittatoriali. Su questo Cassese ha ragione. Ma il rischio è di vedere gradualmente svuotata la democrazia liberal-democratica, prevista dalla nostra Costituzione, basata sul primato del parlamento e sul dialogo, a favore del modello rappresentato da Orbán e da Trump – nei cui confronti Meloni esprime continuamente la sua ammirazione e a cui guarda come ai suoi modelli – , che è quello che chiamavamo “democrazia autoritaria”.

La sola alternativa è risvegliare la sensibilità e la coscienza delle centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza, riportandole a scoprire l’importanza decisiva della forma politico-istituzionale della partecipazione. Qualcuno dirà che è un’utopia. Ma le utopie sono i sogni di cui abbiamo assoluto bisogno per immaginare il futuro e trasformare il presente.

 www.tuttavia.eu

 

 

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