DEL TEMPO ORDINARIO (C)
26 Ottobre 2025
Sir 35,12-15b-17.20.22a;
Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Commento di M. Augé B.
Il Signore ascolta il
grido dei poveri, degli umili, di coloro che hanno il cuore ferito, e li salva
da tutte le loro angosce. La speranza dei poveri si compie in Cristo; san Luca
fa cominciare la missione di Gesù con la citazione di Is 61,1: “mi ha mandato a
portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).
C’è una certa
continuità tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il
tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un
particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio
rivolge alla preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che
Dio è giusto; non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può
essere né comprato, né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli
esaudisce chi con umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del
fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea:
il pubblicano, che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato;
il fariseo, che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene
invece giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al
termine della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al
Signore, giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui
viviamo esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno
raggiunto denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a
diventare i modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è
il povero, l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di
valutazione appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli
guarda il cuore dell’uomo.
Il vangelo di
questa domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non
presumere, a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri
meriti. Siamo tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione,
cioè la salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre
risorse di creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che
viene dalla misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è
figlio di Dio per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato
rigenerato dall’alto mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è
dono, tutto è grazia. San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che
è (1Cor 15,10). D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere
il dono di Dio, dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama
in causa l’uomo che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di
Dio. Infatti, la giustificazione non è un atto magico che avviene
ineluttabilmente ma una azione che inserisce la nostra libertà in una
situazione nuova originata dal dono di Dio.
L’eucaristia è la
mensa alla quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al
convito del regno di Dio (cf. Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla
comunione proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno
di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato”
(cf. Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del
Risorto e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.
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