Albert Einstein
e Max Pezzali?"
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di Alessandro D’Avenia
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La
bella serie televisiva di Sidney Sibilia dedicata alla nascita degli 883,
colonna sonora delle adolescenze di inizio anni '90 come la mia, si apre
curiosamente in Germania, un secolo prima. Si vede un quindicenne, Albert,
punito dal padre per i risultati scolastici con un soggiorno a Pavia, la stessa
città («due discoteche e 106 farmacie») che unirà Massimo Pezzali e Mauro
Repetto negli 883.
Il
ragazzino tedesco è Albert Einstein.
Le
cose andarono in modo un po' diverso (Einstein non fu bocciato, di fatto
scappò...) ma la sostanza resta. Tutto comincia dal banco occupato dall'uomo
che ha rivoluzionato la fisica: l'ultimo. Proprio 130 anni fa, nell'ottobre
1894, un professore riprende duramente Albert per il suo comportamento. Al
ragazzo che dice di non aver fatto nulla di male, il professore risponde: «È
vero. Ma te ne stai seduto lì, all’ultimo banco, e sorridi, e ciò offende il
rispetto che esigo dalla classe». Come racconta Walter Isaacson
nell'appassionate biografia su Einstein l'azienda paterna era fallita e la
famiglia si era trasferita da Monaco a Pavia. Albert, rimasto in Germania da
parenti per terminare il liceo, trovava asfissiante quella scuola. Resistette
fino alle vacanze natalizie, durante le quali raggiunse la famiglia in Italia,
ma poi non tornò più in Germania. Che cosa faceva Einstein all'ultimo banco e
perché quel banco lo salvò (e non solo lui)?
Einstein
occupava l'ultimo banco per difendersi da un sistema di apprendimento
coercitivo, fatto di ordini insensati e freddo autoritarismo. Infatti, proprio
in quella scuola di Monaco aveva partecipato al suo primo sciopero, anti zwang,
parola tedesca per «obbligo». «Dell'obbligo» è definita anche la nostra scuola,
radice della sua crisi permanente, perché una motivazione a imparare esterna,
basata su titoli, premi e castighi, è insufficiente e sfiancante come ogni
azione guidata solo dai risultati e non dal valore intrinseco,
bello-giusto-vero, di ciò che si fa. Immaginate che un albero si sforzi di
crescere per paura d'essere tagliato o per vincere un concorso, e non perché è
un albero... La nostra scuola usa ancora un lessico militare e utilitaristico:
appello, classe, condotta, punizione, pagella, rapporto, file, promozione,
crediti, debiti, profitto, rendimento... e un luogo che dovrebbe aiutare a
individuarsi finisce con l'intruppare.
La
ribellione di Einstein allo zwang e la sua fuga natalizia sono la ribellione e
la fuga di molti ragazzi in cerca di un modo diverso di stare al mondo:
curioso, libero e gioioso. Dopo Natale il ragazzo rimase in Italia, dove passò
mesi gioiosi aiutando il padre nell'azienda, godendosi le montagne in lunghe
passeggiate solitarie o con amici e studiando i volumi di un noto manuale di
fisica. La scuola si dà ovunque (anche a scuola) solo dove impariamo a guardare
il mondo con stupore e cura. E infatti in quell'estate, il sedicenne Einstein
scrisse il primo saggio di fisica teorica e poi si presentò, con due anni di
anticipo, all'esame di ammissione al Politecnico di Zurigo. Superò matematica e
scienze, ma non letteratura, francese, zoologia, botanica e politica. Il
rettore, che ne aveva colto le attitudini, gli consigliò di completare la
preparazione frequentando per un anno la scuola della cittadina di Aarau,
vicino Zurigo. Einstein vi si trasferì e vi fiorì grazie alla didattica
ispirata ai principi del riformatore svizzero dell’istruzione, J. H.
Pestalozzi, il cui metodo prevede che gli studenti coltivino la dimensione
interiore, sviluppino la propria unicità, allenino l'immaginazione. Insomma,
l'albero che facendo l'albero raggiunge la sua altezza. Lo studente deve
infatti arrivare a scoprire attraverso un percorso autonomo dall'osservazione
attenta della realtà alle immagini visive delle soluzioni. Pestalozzi aveva
notato infatti, già più di un secolo fa, che l’esercizio mnemonico di nozioni
imparate meccanicamente serviva solo a ripeterle a breve termine (le
«interrogazioni»), ma non ad assimilarle per scoprire il nuovo, insomma
addestramento più che apprendimento, ripetizione più che intelligenza.
Libertà e responsabilità
Ad
Aarau Einstein fiorì, perché, come racconta la sorella «gli allievi erano
seguiti individualmente, si dava più importanza al pensiero indipendente che al
nozionismo, e i giovani vedevano nell’insegnante non un simbolo dell’autorità,
ma un uomo di personalità definita che stava accanto agli studenti». Anni dopo
il fisico diceva che quell'anno scolastico: «A confronto con i sei di scuola in
un autoritario ginnasio tedesco, mi fece comprendere con chiarezza quanto sia
superiore un metodo educativo basato sulla libertà d’azione e la responsabilità
personale rispetto a uno che poggi sull’autorità esteriore». Una libertà e una
responsabilità oggi ancora rare in una scuola senza opzioni e flessibilità (al
liceo avrei studiato volentieri anche musica, astronomia e cinema). E come
sempre la genetica conta solo per il 20%: Einstein era predisposto ma non
sarebbe diventato un genio senza quel metodo. Infatti proprio lì, grazie alla
visualizzazione, concepì l’esperimento mentale che avrebbe rivoluzionato la
fisica: che cosa accade se cavalco un raggio di luce? Così lo ricordava: «Ad
Aarau compii i miei primi e piuttosto infantili esperimenti mentali che avevano
un rapporto diretto con la teoria della relatività ristretta». Anche lui aveva
punti deboli: seguiva infatti lezioni private di chimica e francese. Eccelleva
invece in musica. Così alla fine di quell'anno riprovò e superò l'esame per
entrare al Politecnico, tranne per la parte di francese, anche se proprio in
quel compito aveva scritto: «Penso a me come a un futuro insegnante di
matematica e fisica, preferibilmente nei loro aspetti teorici. Quanto alle
ragioni metterei al primo posto una certa attitudine al pensiero astratto e
matematico. È naturale: si preferisce fare ciò per cui si ha capacità. Nella
professione scientifica vi è poi una certa indipendenza che mi attira non
poco».
La
felicità di una persona è nella sua vocazione, la somma di indole (per Einstein
il bisogno di indipendenza) e attitudini (la sua capacità di pensiero
astratto). A 17 anni Albert aveva trovato ciò che il tedesco unisce in una sola
parola, per noi scomposta in vocazione e lavoro: beruf. Se si cerca di
scorgere un albero crescere non si riesce, ma se lo si cura, a un certo punto,
è lì, alla sua altezza. Così è l'educazione: non serve esaminare (quantificare)
continuamente quanto un ragazzo cresce, serve aiutarlo a crescere, e accadrà.
Questo
a Monaco non sarebbe stato possibile, solo un metodo centrato sull'unicità
dello studente, su osservazioni e soluzioni autonome, sull'immaginazione come
motore dell'intelligenza, permise ad Einstein di diventare Einstein. Se fosse
rimasto in Germania sarebbe forse diventato quello che il padre voleva per lui,
che infatti scriveva a un amico: «Era previsto che diventassi un ingegnere, ma
il pensiero di spendere la mia energia creativa su cose che rendono ancor più
raffinata la vita pratica di ogni giorno, con la deprimente prospettiva di una
rendita da capitale come obiettivo, mi era insopportabile. Pensare per il
piacere di pensare, come per la musica!».
Pezzali
Proprio
quella musica in cui Max Pezzali, che ho la fortuna di conoscere, trovò il suo beruf:
anche lui a 17 anni, anche lui dall'ultimo banco. Fu bocciato e passò l'estate
in punizione a Pavia, a lavorare nel negozio di fiori dei genitori. Per
sopravvivere si dedicò alla sua passione, trasformando la cantina in studio
musicale, e cominciò a comporre. L'anno dopo ripetè l'ultimo anno di liceo e si
ritrovò al banco con Repetto. Il resto è musica che ascoltiamo e cantiamo con
gioia da più di trent'anni.
Ognuno
ha il suo posto nel mondo, anche se all'inizio è un ultimo banco, come Albert e
Max.
Alzogliocchiversoilcielo
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