- Un personaggio
che non apparteneva alla “casta”
La
morte di Biagio Conte, a soli 59 anni, ha avuto una risonanza che va ben oltre
la cerchia dei suoi collaboratori e sostenitori. La notizia è stata ripresa dai
giornali nazionali che hanno parlato di lui, dando ampio spazio alla
ricostruzione della sua storia. Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla ha
emanato un’ordinanza con cui ha indetto il lutto cittadino e le bandiere a
mezz’asta. E il presidente della
Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha ricordato come «punto di riferimento, non
soltanto a Palermo, per chi crede nei valori della solidarietà e della dignità
della persona, che ha testimoniato concretamente, in maniera coinvolgente ed
eroica».
Un’eco
così ampia non era scontata. In questa società dell’immagine, del prestigio
sociale e del potere economico e politico, Biagio Conte non vantava nessuno di
questi titoli. Non era un “influencer”, non aveva nessuna carica, neppure
ecclesiastica, non faceva parte della “casta”. Da quando ha fatto le sue scelte
di vita, ha voluto solo esser “fratel Biagio”, un poveraccio col saio e un
bastone, che ha girato a piedi per l’Italia e per l’Europa, spesso dormendo
all’addiaccio, mangiando quello che per carità gli offrivano, senza fare discorsi
memorabili, semplicemente vivendo la sua povertà come una testimonianza per un
mondo ricco, che non vuole rinunziare a nulla e non intende condividere con i
bisognosi quello che ha.
La
«Missione di Speranza e Carità»
I
giornali hanno parlato di lui come di un uomo che ha speso tutta la sua vita a
favore degli ultimi. Ed è vero. A Palermo aveva creato la «Missione di Speranza
e Carità», dove accoglieva incondizionatamente poveri, senzatetto, migranti, ex
tossici, emarginati. Il progetto, nel corso degli anni, si è allargato con la
costruzione, accanto alla «Missione di Speranza e Carità», di altre realtà:
«Città della gioia», «La Cittadella del povero e della speranza» e «La Casa di
Accoglienza femminile». Oggi le diverse sedi accolgono oltre mille persone a
cui sono offerti tre pasti al giorno, assistenza medica e, all’occorrenza,
vestiti puliti. Chiunque bussa alla porta riceve ascolto e aiuto da una rete di
volontari che si è creata intorno al fondatore.
Una
scelta di povertà
In
questo senso davvero la storia di “fratel Biagio” ha delle analogie con quella
di Francesco d’Assisi. Come Francesco, anche lui proveniva da una ricca
famiglia – non di mercanti, ma di costruttori edili – , che lo aveva spedito a
studiare in Svizzera, presso un collegio privato. Poi era tornato a Palermo,
per continuare gli studi sempre in una scuola privata, ma aveva lasciato gli
studi a 16 anni, iniziando precocemente a lavorare nell’impresa della sua
famiglia.
Era
ricco ma insoddisfatto. «Mi stordivo con auto di lusso, griffe, belle ragazze e
vestivo solo di grigio o di nero, la mia vita non aveva colori», racconterà.
Aveva cercato di sfogare la sua inquietudine puntando sull’arte. A 20 anni,
decise di andare a vivere a Firenze inseguendo il sogno di diventare pittore o
scultore.
Gli
ci vollero sette anni per capire che neanche questo poteva riempire il vuoto
che sentiva dentro. Fin quando non scoprì che a colmarlo poteva essere solo
Cristo. Da qui, la scelta radicale di spogliarsi di tutti i suoi averi,
lasciare i genitori e le due sorelle minori, per abbracciare la vita da eremita
nelle montagne dell’entroterra siciliano e successivamente facendo un viaggio
interamente a piedi verso la città di Assisi.
Nell’estate
del 1991 ritornò a Palermo con l’idea di partire in missione in Africa ma,
camminando per le vie della città, rimase colpito del profondo disagio sociale
e dello stato di povertà di migliaia di suoi concittadini. Così decise di
rimanere in Sicilia, per fare della sua scelta di povertà un dono a chi era
povero senza averlo scelto.
Ma
il senso ultimo non è mai stato, come nelle analoghe istituzioni di “servizio
sociale”, quello della pura e semplice integrazione dei bisognosi e degli
emarginati nella società del benessere, bensì innanzitutto la testimonianza
della condivisione e della fraternità. Non un rifiuto dello spirito della
povertà, ma la consapevolezza che solo quando essa non è un destino che ci
schiaccia essa può essere valorizzata nel suo autentico significato di libertà
interiore dalle cose.
Un
rivoluzionario nei confronti della società e della Chiesa
È
questa visione, drasticamente alternativa, che rende Biagio Conte un autentico
rivoluzionario. Una rivoluzione spirituale, da cui però non è assente una
dimensione politica. Che ha avuto le sue manifestazioni già nelle battaglie
sostenute dal fondatore della «Missione di Speranza e Carità» per vincere la
sordità e l’indifferenza delle istituzioni, anche a costo di prolungati
scioperi della fame e proteste eclatanti. Ma soprattutto nell’additare un
modello alternativo di società, dove i volti delle persone contino più del
Prodotto Interno Lordo e dove la logica della solidarietà prevalga su quella
della concorrenza. La rivoluzione di Bigio Conte comincia dall’anima e dai rapporti
tra le persone.
È
una testimonianza su cui anche la Chiesa farebbe bene a interrogarsi. In un
tempo in cui le chiese restano mezze vuote e si percepisce sempre di più
l’irrilevanza della pastorale ordinaria nella formazione delle coscienze, Biagio
Conte ha cercato di restituire attualità al messaggio cristiano con un forte
richiamo al Vangelo, uscendo dai logori quadri di un ritualismo sempre più
abitudinario e mostrando che cosa può significare realmente, per un credente,
la scelta di Dio di venire a condividere la vicenda degli uomini.
Di
fronte a una struttura ecclesiastica che scricchiola sempre più vistosamente, i
cristiani sono chiamati a reinterpretare in modo creativo le modalità della
loro presenza nella società. L’esperienza di Biagio Conte può essere per questo
una risorsa significativa. Lo ha sottolineato l’arcivescovo di Palermo, mons.
Corrado Lorefice, quando è andato al capezzale dell’infermo pochi giorni prima
della sua morte: «Siamo qui perché Biagio è colui che diventa la nostra stella,
perché ci conduce all’essenziale e l’essenziale è questa via “altra” che
dobbiamo imboccare».
Non
si tratta di imitare lo spogliamento di tutti i beni in cui si è concretizzata
la scelta di “fratel Biagio”, come non si è mai trattato di imitare le forme
esteriori della vita di s. Francesco. Ma ci sono dei cambiamenti di stile che
sono diventati sempre più urgenti. Innanzi tutto, per la Chiesa istituzionale:
l’immagine del Vaticano, con le sue strutture burocratiche, i suoi intrighi, i
suoi non sempre limpidi interessi economici, diventa sempre di più un ostacolo
per la scelta di fede di molti, che ne restano scandalizzati.
È
chiaro che una grande comunità com’è quella ecclesiale non può fare a meno di
un’organizzazione. Anche al tempo di Francesco d’Assisi la Chiesa ha sempre
avuto il compito di conciliare la sua anima carismatica e profetica con quella
istituzionale. Ma è sicuramente uno dei “segni dei tempi” di cui parlava il
Concilio l’esigenza di ripensare questo equilibrio dando più ascolto alle voci,
come quella di Biagio Conte, che la richiamano all’originaria esperienza
evangelica.
Una
testimonianza che ci interroga.
Sarebbe
però un troppo facile alibi, per i credenti, scaricare tutto il problema sulle
strutture ecclesiastiche. Urge una forte ripresa spirituale che restituisca ai
cristiani – a cominciare dai laici e dalle laiche – il senso alternativo della
loro vocazione e li renda consapevoli della loro missione
“rivoluzionaria”. L’irrilevanza del
Vangelo nella nostra società non dipende certo soltanto dai vescovi e dai
preti, ma dalla schizofrenia di tanti che si dicono cristiani ma pensano e
operano ispirandosi a modelli culturali incompatibili con questo nome. La
coerenza dei testimoni, nella sua radicalità, è un richiamo fortissimo a
prenderne coscienza.
Nell’ora
della sua morte, Biagio Conte acquista più che mai il valore di un simbolo di
tutto questo. Senza altra pretesa che quella di essere un “povero fratello” di
tutti i poveri, egli ci indica una strada, difficile perché diversa da quelle a
cui siamo abituati, ma che forse può aiutare anche noi – come aiutò lui – a
colmare un vuoto a cui siamo troppo abituati.
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