Emergenza
climatica, Covid e conflitti condannano alla fame altri 20 milioni
- di FEDERICA ULIVIERI
La conferma della
battuta d’arresto nella lotta alla malnutrizione, denunciata da Avvenire già
da mesi, arriva dall’Indice della fame nel mondo (Ghi), uno dei principali
rapporti internazionali sulla situazione Paese per Paese, presentato dalla
Fondazione Cesvi, che da 35 anni si occupa dell’infanzia e delle categorie
sociali più vulnerabili. Fino a qualche anno fa l’indice Ghi
aveva segnalato un calo costante. Con il 2020, però la
percentuale di popolazione denutrita è tornata a salire,
allontanando così l’obiettivo “Fame Zero” fissato dalle
Nazioni Unite per il 2030. L’indice della fame si basa su 3
indicatori: l’insufficiente assunzione calorica, riferita sia ai
bambini sia agli adulti; la sottonutrizione infantile, che registra il
deperimento e l’arresto della crescita; la mortalità infantile. In
base a questi criteri sono stati individuati 155 milioni di
persone in stato di insicurezza alimentare acuta, 20 milioni in
più rispetto al 2019. Un incremento causato da tre fattori: i
conflitti armati, il cambiamento climatico e la pandemia di
Covid-19. Secondo l’indice Ghi, l’Asia meridionale è una regione
a rischio, visto che registra livelli «alti» di fame (così
vengono definiti dal report); ma l’Africa rimane il continente
più problematico. È considerata «estremamente allarmante» la
situazione in cui si trova la Somalia, il Paese più
critico. «Allarmante» è la situazione
di nove Paesi
del continente: Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo,
Yemen, Burundi, Comore, Siria, Sud Sudan e Madagascar. «È evidente come la
lotta alla fame stia andando pericolosamente fuori strada – ha denunciato
Gloria Zavatta, presidente della Fondazione Cesvi – i conflitti sono “la”
causa della fame nel mondo». La maggior parte dei Paesi con alti
livelli di denutrizione, infatti, è quella in cui sono presenti i
conflitti e i dati dell’indice della fame lo confermano. Otto dei 9 Paesi in
cui ci sono livelli «allarmanti» sono afflitti dalle guerre. «È urgente
spezzare il circolo vizioso con cui fame e conflitto si alimentano l’un
l’altro, perché senza pace difficilmente potremo eliminare la fame nel mondo e
senza sicurezza alimentare non potrà esserci pace duratura», continua Gloria
Zavatta. Questa pericolosa connessione mette a rischio anche il futuro: si
prevede un aumento delle persone denutrite da qui al 2030. Saranno 47 i Paesi
che non riusciranno a raggiungere un livello basso di fame entro il 2030; 28 di
questi si trovano in Africa subsahariana.
«Una recente proiezione della Fao ha evidenziato come, per effetto della pandemia, nel 2030 ci saranno 657 milioni di persone denutrite – ha affermato Maurizio Martina, vicedirettore generale dell’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura –. Si tratta dell’8% della popolazione mondiale, 30 milioni di persone in più rispetto a un mondo senza coronavirus». Maurizio Martina rimarca come l’obiettivo “Fame Zero” per il 2030 si stia allontanato ma raggiungerlo non è impossibile: «Sono necessari dai 40 ai 50 miliardi di dollari all’anno di investimenti mirati, su progetti che vadano a lavorare, punto su punto, sulle aree problematiche. Serve una mobilitazione straordinaria di risorse. Otto anni sono veramente pochi ma dobbiamo provarci».
Per spezzare la
catena di connessione tra guerra e fame è indispensabile pianificare conoscendo
bene il territorio, dice ancora il vicedirettore generale della Fao. L’agenzia
delle Nazioni Unite, ad esempio, sta lavorando su 20 cisterne nel Sahel, per
fornire un aiuto infrastrutturale che duri nel tempo, per la salvaguardia del
territorio e agendo così sul dramma della desertificazione, alla base dei
grandi flussi migratori degli ultimi anni.
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