verso la diversità? -
- di Giuseppe Savagnone *
Non
ha mancato di suscitare accese polemiche il Motu proprio «Traditioniscustodes», con cui papa Francesco ha modificato le regole per la celebrazione
della cosiddetta “messa in latino”, non abolendola – come erroneamente è stato
detto nel disinvolto linguaggio giornalistico –, ma certamente
ridimensionandola.
Le
voci che si sono levate per protestare non hanno risparmiato toni drammatici.
Si è parlato di «decisione spietata»; si è detto che lo «sciagurato Motu
proprio» in questione «rivela un disprezzo profondo verso i sacerdoti e i
fedeli che frequentano abitualmente o saltuariamente la Messa antica» e si è
visto in esso «la decisione del cattivo pastore, che sta facendo di tutto per
scacciare le pecore fuori dal gregge, incurante dei loro bisogni e della loro
sensibilità. In barba all’unità nella diversità» («Nuova Bussola Quotidiana»).
Addirittura il provvedimento pontificio è stato paragonato alla croce, su cui
il rito latino – implicitamente identificato con Cristo –, veniva crocifisso!
(ivi).
Ma
è veramente così alta la posta in gioco? E, in caso di risposta affermativa, in
che senso? Sia per i credenti che per i non credenti vale la pena di porsi
queste domande, cercando di dare una risposta meno superficiale di quanto non
sia stato fatto nella maggior parte dei casi. Si può guardare la questione
sotto due profili diversi. Uno è quello istituzionale, l’altro quello
propriamente liturgico. Cominciamo dal primo.
La
Chiesa non è una piramide
Un
punto su cui tutti gli osservatori – favorevoli e contrari – si sono trovati
d’accordo è che, con questo Motu proprio, papa Francesco ha
cambiato linea rispetto al suo predecessore Benedetto, che, nel 2007, aveva
“liberalizzato” la pratica della messa celebrata secondo il rito preconciliare,
con il messale del 1962, rendendola indipendente dal permesso del vescovo diocesano.
In
realtà anche Giovanni Paolo II aveva autorizzato questa pratica, ma
subordinandola al controllo dei vescovi delle singole diocesi. La svolta di
Benedetto era stata di eliminare questa condizione, sottolineando che il
messale del 1962 rientrava a pieno titolo, come “Rito Romano extra-ordinario”,
nella liturgia cattolica.
Con
quest’ultimo Motu proprio, il vescovo di ogni singola diocesi si
vede restituire la responsabilità di regolare la celebrazione secondo il rito
preconciliare, valutando volta per volta le ragioni che spingono un sacerdote e
un gruppo a farne richiesta. Da ora in poi «è sua esclusiva competenza
autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi,
seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica».
Già
questo è un passo la cui importanza è stata troppo poco sottolineata nei
commenti dei giornali. Il fatto è che, abituati come siamo a pensare la Chiesa
in termini burocratici, spesso la concepiamo come una piramide monolitica, con
un vertice, il papa, da cui i vescovi dipendono come i funzionari di un ufficio
dal direttore generale. Non è così. La Chiesa universale ha la sua realtà,
immensamente variegata, nelle Chiese particolari – ognuna guidata dal suo
vescovo, in quanto successore degli apostoli –, in cui si riflette la totalità
della Catholica. Come ha ricordato e sottolineato il Concilio Vaticano II, «i
singoli vescovi sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro
Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, ed in esse e
da esse è costituita la Chiesa cattolica una e unica» (Lumen Gentium n.23).
Il primato di Pietro non è quello di un capufficio, ma deriva dal suo essere il
vescovo di Roma (e così Francesco si è definito, la sera della sua elezione a
papa). Ed è insieme agli altri vescovi, pur avendo un primato rispetto ad essi,
che egli governa la Chiesa. È in questo senso che si parla di «collegialità
episcopale».
In
quest’ottica, bisogna riconoscere che la decisione di Benedetto di sottrarre ai
vescovi delle singole diocesi il controllo della liturgia, almeno per quanto
riguarda le messe in latino, era in netta rottura con la direzione indicata dal
Concilio. Papa Francesco si è limitato a rimettere in primo piano la
prospettiva della Lumen Gentium, la costituzione conciliare sulla
Chiesa. Poteva farlo con un suo personale atto d’autorità. Invece ha voluto
seguire una procedura che conferma lo stile della collegialità, consultando
prima gli altri vescovi di tutto il mondo e traendo le conclusioni dai loro
pareri.
La
ricerca dell’unità
E
proprio all’unità della Chiesa e delle singole Chiese egli ha fatto
riferimento, per giustificare la sua decisione di ristabilire l’autorità dei
vescovi, «visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese
particolari», come dice il Concilio. «Purtroppo», scrive Francesco nella
lettera che accompagna il Motu proprio, «l’intento pastorale dei
miei Predecessori, i quali avevano inteso “fare tutti gli sforzi, affinché a
tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di
restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente», è stato spesso gravemente
disatteso. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità
ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale
nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche, è stata usata per aumentare le
distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la
Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni».
Soprattutto
papa Ratzinger aveva sperato, con la sua apertura alla “messa in latino”, di
far riassorbire lo scisma dei lefebvriani. In realtà, non solo la speranza si
era rivelata vana, ma il ricorso incontrollato alla liturgia preconciliare
aveva creato due piste parallele e contrapposte, che incrinavano l’unità delle
singole diocesi e della Chiesa nel suo insieme, legittimando una visione
teologica sbagliata. Scrive ancora papa Bergoglio: «Mi rattrista un uso
strumentale del Missale Romanum del 1962, sempre di più
caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del
Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia
tradito la Tradizione e la “vera Chiesa”».
La
liturgia come simbolo
Questo
però significa che il problema propriamente liturgico – il secondo che ci siamo
posti – non può essere affrontato se non alla luce dei sottintesi simbolici che
si attribuivano all’antica celebrazione. Dietro l’uso del latino (oggi
incomprensibile alla stragrande maggioranza), dietro il mantenimento della
posizione del sacerdote, che dà le spalle all’assemblea, dietro la recita
dell’atto penitenziale prima dal solo celebrante e poi da tutti i fedeli – a
sottolineare il ruolo “separato” e preminente del primo rispetto ai secondi,
non c’è nessuna eresia, ma solo il rischio che tutto ciò diventi, agli occhi di
chi privilegia questo modo di celebrare la messa, un tacito rifiuto del
cambiamento della Chiesa e del modo di essere cristiani e la riaffermazione di
un rapporto tra presbiteri e laicato che giustamente oggi l’ecclesiologia ha
superato. Il problema è simbolico.
Non
a caso il Motu proprio non proibisce il Missale
Romanum, ma chiede al vescovo di accertare che i gruppi che già celebrano
con esso «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica,
dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici».
Insomma,
in base all’antico principio secondo cui «lex orandi lex credendi», “la regola
della preghiera è anche quella della fede”, bisogna che la varietà sempre
possibile delle forme liturgiche (tutt’ora ampiamente ammessa nella Chiesa
cattolica, per esempio nel rito ambrosiano e ancor più nelle Chiese di rito
greco) non nasconda un sottile rifiuto dell’unità a tutte sottostante, perché
questo non rompe solo l’unità liturgica, ma quella di fede.
Essere
fedeli alla storia
È
in gioco, peraltro, non solo l’unità della Chiesa, ma la visione che si ha del
suo rapporto con la storia. È nella logica dell’incarnazione che l’immutabile
contenuto del Vangelo si cali di epoca in epoca in formule, elaborazioni
teologiche e modalità liturgiche sempre differenti. Dio è entrato nella storia
degli uomini e questo rende la religione cristiana diversissima da quelle che
cercano la divinità in una immutabile eternità fuori del tempo o quelle altre
che si ispirano agli altrettanto immutabili cicli della natura. Facendosi uomo,
il Verbo divino ha accettato di condividere la storicità degli esseri umani,
che restano sé stessi solo nel continuo cambiamento. Voler fermare questo
dinamismo, immobilizzandolo in una sua fase, ritenuta intoccabile, è la
negazione di questa assunzione della storia da parte di Dio.
Non
si nega, ovviamente, che vi debba essere una continuità, pur nel mutamento. Non
è il Vangelo che cambia, ma la comprensione che i cristiani nel corso del tempo
ne acquisiscono, sotto la spinta delle nuove situazioni storiche e delle
domande sempre nuove che esse pongono ai credenti. Per questo c’è un
progressivo sviluppo perfino dei dogmi e, a maggior ragione, dell’etica
personale e pubblica. Di questi sviluppi sono un riflesso anche il mutamento
della liturgia, che i nostalgici scambiano per un tradimento, ma che sono
invece l’unico modo di essere veramente fedeli al carattere storico, e perciò
dinamico, della Rivelazione.
La
fedeltà alla tradizione non è il mantenimento di un passato imbalsamato,
rifiutando il nuovo, ma la capacità di leggere, alla luce del passato, il
dinamismo del presente verso il futuro. Questo, con fatica, sta facendo la
Chiesa di oggi.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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