Per
ben cinque domeniche lasciamo l’Evangelo di Marco per entrare nell’immenso
capitolo sesto di Giovanni: il segno dei pani ed il discorso che, a partire da
quel segno, è detto il discorso sul pane di vita in cui c’è una delle sette
autorivelazioni che Gesù fa nel Quarto Evangelo. In queste domeniche leggeremo
questo lungo discorso e non sarà facile, soprattutto perché è un discorso ampio
ed unitario e lo spezzettamento non giova alla comprensione. Questa domenica
siamo posti dinanzi al “segno”: la moltiplicazione dei pani. È il “miracolo”
più attestato dagli Evangeli, raccontato ben sei volte (Marco e Matteo hanno
ciascuno due moltiplicazioni dei pani!) e che Giovanni, come sempre, rilegge in
una prospettiva narrativa e teologica “altra”.
I
richiami di questo racconto giovanneo sono molteplici: quell’abbondanza di erba
verde ci ricorda irresistibilmente il Salmo 23; «a pascoli erbosi mi fa
riposare… prepari per me una mensa»; Gesù è il Pastore che guida e nutre il suo
gregge, in Giovanni è Lui che si accorge del problema della folla, è Lui che lo
pone ai discepoli (nei Sinottici è il contrario!); l’evangelista si compiace di
affermare che così li metteva alla prova. Ed eccoci qui ad un altro richiamo:
che può voler dire “mettere alla prova”? Certo c’è un chiaro riferimento alla
prova di Israele nel deserto, a quel tempo di prova in cui il popolo si lamentò
nel deserto ed il Signore concedette loro la manna…non a caso, nel discorso che
seguirà, Gesù farà un riferimento alla manna.
Però
la prova cui sottopone Filippo e gli altri discepoli è nello stesso stile
dell’Esodo ma anche più ampia: la prova sarà una prova pasquale. Giovanni è
preciso nella sua cronologia e ci dice che questo segno è dato da Gesù quando
«era vicina la Pasqua dei Giudei» (è ancora l’antica Pasqua ma che già si sta
dischiudendo a quella definitiva!) ed i discepoli ora devono attraversare
questo deserto; essi hanno lasciato tutto ed hanno seguito Gesù con entusiasmo,
hanno provato con Lui la gioia della Parola che corre, hanno visto le folle che
accorrevano, ma ora inizia un tempo diverso; infatti, proprio in questo
capitolo Giovanni ci mostrerà la crisi, gli abbandoni, le incomprensioni… il
Figlio di Dio si sta gettando in un deserto di solitudine e di dolore per
cercare noi uomini abbandonati e dolenti, si sta avventurando in un deserto
senza sicurezze umane, anzi in cui la sua umanità verrà annientata e
calpestata… lì, però, per Giovanni, è deposta la gloria di Dio; lì si dovrà
saper vedere «l’amore fino all’estremo» (cfr. Gv 13,1); in questo paradosso!
I
suoi discepoli dovranno attraversare questo deserto di prova; dovranno fidarsi
di Dio e di Colui che Egli ha inviato… e dovranno farlo al di là di ogni umana
certezza. La scena allora diventa paradigmatica: in questa povertà di tutto, in
questo “estremo” in cui la debolezza e l’assenza di ogni certezza è l’unica
certezza (!) c’è solo una cosa da fare: dare tutto quello che si è e si ha… o
c’è questo abbandono o non si è fecondi! Ecco il nucleo durissimo ma profondo
di questo racconto giovanneo! Quel ragazzino con i cinque pani e i due pesci è
“segno” di questa piccolezza che dà tutto (sette è numero di totalità!)
credendo all’incredibile! Come sfamare una folla grandissima con cinque pani e
due pesci? Dice “saggiamente” Andrea: «cosa è questo per tanta gente?» e sono
le stesse parole che l’uomo del racconto della prima lettura del Secondo libro
dei Re dice ad Eliseo!
Ecco
però che la piccolezza e la debolezza davvero offerte diventano fecondità! Notiamo
subito una cosa: nei Sinottici Gesù rifiuta, nelle tentazioni nel deserto, di
far diventare le pietre pane (cfr. per esempio Mt 4, 3-4) perché
significherebbe saltare l’umano! Non si fa pane dalle pietre! No! Il pane è
fatto di aratura, semina, cura, mietitura, macina, impasto, cottura, distribuzione…
fare pane dalle pietre è saltare la fatica e questo Gesù non lo fa per sé e non
lo vuole per i suoi discepoli! Gesù qui moltiplica il pane fatto di fatica e di
lavoro… come dire? Rende fecondi fatica e lavoro! Quella piccolezza che è la
nostra vita personale (che cosa è mai la mia vita, il mio “sì” dinanzi ai
bisogni del mondo, dinanzi ai suoi drammi?), se data davvero senza riserve, in
totalità (totalità richiamata dal numero sette) può diventare salvezza,
nutrimento… al di là dei calcoli numerici e delle proporzioni; allora si smette
di dire «che cosa è questo per tanta gente?»! Ci si accorge che per tanta
gente, per il mondo, servono uomini capaci di dare tutto… basta! Lì poi il
Signore compirà il segno! In quel “tutto” dato!
La
prova è dunque credere che nei deserti dell’uomo, nelle perversioni della
mondanità, nella sproporzione tra il mondo e la piccolezza dell’Evangelo la
sola cosa che conta è dare tutto se stesso! Come fece Gesù! Salì sulla croce da
solo, in un’impressionante asimmetria tra la sua piccolezza di reietto,
condannato a morte e la moltitudine degli uomini che attendono salvezza,
consapevoli o inconsapevoli! Cosa è la croce di Cristo rispetto al dolore del
mondo, rispetto all’immensità dei problemi del mondo e dei suoi “torrenti” di lacrime
e sangue? Agli occhi di tanti fu nulla, men che nulla, ma proprio lì dimorò la
parola definitiva di speranza per tutta l’umanità! La prova che i discepoli ora
devono attraversare li deve portare ad affrontare la Pasqua di Gesù e poi anche
le loro Pasque, i loro Esodi, quelli che nella sequela di Cristo li porteranno
a dover sperimentare l’“estremo”, il rifiuto del mondo, l’ostilità del mondo ma
anche la potenza dell’Evangelo!
La
liturgia di oggi ci impone una riflessione sul dono di quello che siamo… di
tutto quello che siamo! Troppi limiti poniamo al dono di noi stessi! A volte
quello che siamo ci pare proprio poco: solo «cinque pani e due pesci»; sembra
nulla rispetto alle esigenze del Regno, rispetto ai bisogni del mondo! Quanti
cristiani non danno la vita perché schiacciati dalla loro piccolezza e
inadeguatezza! Quante chiamate per il Regno restano senza risposta per questi
motivi, per questo inganno! Sì, un inganno perché proprio quei cinque pani e
due pesci sono ciò di cui il Signore ha bisogno per dare il pane del Regno al
mondo affamato e disorientato. Fin quando non ragioniamo così siamo ancora
schiavi dei calcoli mondani e delle proporzioni del mondo. Per il mondo le
grandi imprese si compiono con grandi mezzi, per l’Evangelo la più grande impresa
della storia, restituire l’umanità a Dio, è avvenuta per mezzo della vergogna
della croce, attraverso il sì di quel “frammento” che fu Gesù di Nazareth ed
attraverso il suo amore… e l’Evangelo cominciò a “correre” per il mondo
attraverso i piedi stanchi di un piccolo gruppetto di uomini fragili e pieni di
limiti.
Gli
apostoli però poterono farlo perché certo ricordarono quella gran folla sfamata
da soli cinque pani e due pesci! Gli uomini delle nostre origini credettero che
la debolezza, offerta a Dio, diviene luogo della sua potenza! Ecco la prova:
crediamo nella debolezza e “stoltezza” dell’Evangelo? Il problema è che ancora
oggi tanti nella Chiesa pensano come il mondo e vogliono affrontare le grandi
imprese dell’Evangelo con grandi mezzi… Speriamo che dopo le “riduzioni”, a cui
la storia e anche gli ultimi eventi pandemici ci hanno condotti, usciamo finalmente da
questo inganno del fidarsi dei “grandi mezzi” per il servizio al Regno!
L’impresa del Regno si compie solo in un modo: offrire tutto
noi stessi. Noi abbiamo una sola vita ed è preziosa per la sua unicità
ed irrepetibilità: a chi o a che cosa la diamo?
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