lo sguardo di Edith Bruck
per riscoprire le cose
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di Elisabetta Valcamonica
È
Il pane perduto di Edith Bruck il libro che finisco di leggere nei giorni di
inizio anno scolastico, mentre il rientro a scuola campeggia sulle prime pagine
di tutti i giornali, tra controlli del green pass, mascherine, distanziamento,
tracciamento dei contatti, nuove modalità di quarantena, supplenze e situazioni
dell’organico.
Penso
a Edith e alla sua vita, e il suo racconto mi conduce nel cuore di quella che
vorrei fosse per me l’esperienza della scuola, nell’anno che inizia e in ogni
mio giorno di lezione.
Mi
appresto a varcare ogni giorno le soglie dell’aula, a ritrovare i ragazzi e le
ragazze con cui ho lavorato, le loro famiglie, a rivedere gli abituali colleghi
e a conoscere quelli nuovi, e nel chiudere il libro mi sgorga in cuore la
gratitudine per questo incontro. È dalle parole di Edith Bruck che traggo
alcuni degli spunti che provo a trascrivere come augurio per questo nuovo anno.
Non
è un libro sulla scuola, il suo. Edith Bruck racconta la sua esperienza di
bambina che correva scalza nella polvere di un villaggio in Ungheria prima di
essere travolta da quella frana della storia che si chiama Shoah. Deportata nel
’44 nei campi di concentramento, sopravvive grazie alla terribile separazione
da sua madre da parte di un soldato tedesco che, urlando e strappandola con
violenza dalla carne della donna che l’ha partorita e cresciuta, la spinge
nella fila di chi non era destinato ai forni crematori: è il primo dei cinque
pilastri di luce che lei, nel buio che la circonda, vede, vive e riconosce come
fiori di speranza.
Non
è un libro sulla scuola, quello di Edith, ma la sua sostanza ha a che fare con
l’umano che riparte, con l’umano che ricomincia, che gioisce, che si addolora,
che cammina, cresce, si commuove; che affronta difficoltà e tempeste, che in
tutto questo comunica quella vita piena che è ciò che vorrei vibrasse al centro
di ogni ora di lezione.
È
l’incontro con persone così che rende “scuola” la scuola: luogo dove si possano
incontrare testimoni che danno respiro alla vita, dove l’umanità di ciascuno
possa mettersi in dialogo con qualcuno che apre orizzonti, spalanca
prospettive, accompagna alla scoperta di sé e del mondo. È per questo, che mi
sento oggi di parlare di lei e di ciò che l’incontro con lei ha suscitato in me
in questo momento in cui la scuola ricomincia. Quando qualunque insegnante del
mondo entra nella sua classe, è ciò che lo nutre nel profondo che comunica con
la sua presenza rinnovata agli studenti che incontra, qualunque disciplina
insegni e dentro le discipline che insegna. Nel libro di Edith Bruck ho trovato
per me una sorgente di acqua viva.
Potrebbero
essere niente, i cinque pilastri di luce di cui parla nel suo libro e nelle sue
interviste la Bruck: un fondo di marmellata in una gavetta sporca, un guanto
bucato, un cuoco che le chiede il suo nome, un pettinino per i suoi pochi
capelli. Sono gesti e segni invece che lei legge nel loro significato profondo,
ed è in questo suo sguardo bisognoso e delicato la differenza qualitativa tra
ciò che essi possono apparire e ciò che essi sono.
Desidero
sia questo la scuola: un luogo dove i nostri occhi possano essere accompagnati
a posarsi con attenzione sulle cose: sulla domanda di un alunno, su un oggetto
di studio, sulla reazione contenta o annoiata degli studenti, sull’osservazione
fatta da un collega, su un disagio più o meno manifesto, su un moto di adesione
o di rifiuto rispetto a ciò che si propone, su un colloquio con i genitori, su
una lezione andata più o meno bene… è in questo lavoro di accoglienza della
realtà che si instaura il dialogo educativo tra un adulto che conquista sé in
costante cammino e i ragazzi e le ragazze che si apprestano a diventare grandi
e che egli è chiamato ad accompagnare.
Grazie,
Edith, di quello che sei, e del cammino che apri per me in questo nuovo anno
scolastico.
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