giovedì 1 settembre 2022

SCUOLA. IL PANE PERDUTO

Studenti e prof, 

lo sguardo di Edith Bruck 

per riscoprire le cose

 “Il pane perduto” di Edith Bruck (1931) offre a studenti e docenti una prospettiva nuova con cui ricominciare l’anno scolastico

- di  Elisabetta Valcamonica

 

È Il pane perduto di Edith Bruck il libro che finisco di leggere nei giorni di inizio anno scolastico, mentre il rientro a scuola campeggia sulle prime pagine di tutti i giornali, tra controlli del green pass, mascherine, distanziamento, tracciamento dei contatti, nuove modalità di quarantena, supplenze e situazioni dell’organico.

Penso a Edith e alla sua vita, e il suo racconto mi conduce nel cuore di quella che vorrei fosse per me l’esperienza della scuola, nell’anno che inizia e in ogni mio giorno di lezione.

Mi appresto a varcare ogni giorno le soglie dell’aula, a ritrovare i ragazzi e le ragazze con cui ho lavorato, le loro famiglie, a rivedere gli abituali colleghi e a conoscere quelli nuovi, e nel chiudere il libro mi sgorga in cuore la gratitudine per questo incontro. È dalle parole di Edith Bruck che traggo alcuni degli spunti che provo a trascrivere come augurio per questo nuovo anno.

Non è un libro sulla scuola, il suo. Edith Bruck racconta la sua esperienza di bambina che correva scalza nella polvere di un villaggio in Ungheria prima di essere travolta da quella frana della storia che si chiama Shoah. Deportata nel ’44 nei campi di concentramento, sopravvive grazie alla terribile separazione da sua madre da parte di un soldato tedesco che, urlando e strappandola con violenza dalla carne della donna che l’ha partorita e cresciuta, la spinge nella fila di chi non era destinato ai forni crematori: è il primo dei cinque pilastri di luce che lei, nel buio che la circonda, vede, vive e riconosce come fiori di speranza.

Non è un libro sulla scuola, quello di Edith, ma la sua sostanza ha a che fare con l’umano che riparte, con l’umano che ricomincia, che gioisce, che si addolora, che cammina, cresce, si commuove; che affronta difficoltà e tempeste, che in tutto questo comunica quella vita piena che è ciò che vorrei vibrasse al centro di ogni ora di lezione.

È l’incontro con persone così che rende “scuola” la scuola: luogo dove si possano incontrare testimoni che danno respiro alla vita, dove l’umanità di ciascuno possa mettersi in dialogo con qualcuno che apre orizzonti, spalanca prospettive, accompagna alla scoperta di sé e del mondo. È per questo, che mi sento oggi di parlare di lei e di ciò che l’incontro con lei ha suscitato in me in questo momento in cui la scuola ricomincia. Quando qualunque insegnante del mondo entra nella sua classe, è ciò che lo nutre nel profondo che comunica con la sua presenza rinnovata agli studenti che incontra, qualunque disciplina insegni e dentro le discipline che insegna. Nel libro di Edith Bruck ho trovato per me una sorgente di acqua viva.

 C’è un punto della storia della Bruck che potrebbe risultare incomprensibile nel dramma che ha vissuto, ma la fertilità che quel momento porta con sé noi, che ricominciamo la scuola da adulti, siamo chiamati a farla nostra e disseminarla tra le pareti delle nostre classi. Dopo la liberazione, Edith sta cercando di tornare a casa con la sorella Judit; un gruppo di soldati ungheresi, in abiti civili, chiede di poter fare il viaggio con loro. All’inizio le due sorelle sono diffidenti: quegli uomini non avevano documenti, portavano nomi falsi, erano probabilmente clandestini, benché avessero giurato di non essere fascisti. Che fare? Si domandano le due ragazze. “E che dire? ricominciare con l’odio, con la vendetta, credergli o no? A dire di sì, c’era la speranza che non sarebbero stati più fascisti” (E. Bruck, Il pane perduto, p. 63).

Potrebbero essere niente, i cinque pilastri di luce di cui parla nel suo libro e nelle sue interviste la Bruck: un fondo di marmellata in una gavetta sporca, un guanto bucato, un cuoco che le chiede il suo nome, un pettinino per i suoi pochi capelli. Sono gesti e segni invece che lei legge nel loro significato profondo, ed è in questo suo sguardo bisognoso e delicato la differenza qualitativa tra ciò che essi possono apparire e ciò che essi sono.

Desidero sia questo la scuola: un luogo dove i nostri occhi possano essere accompagnati a posarsi con attenzione sulle cose: sulla domanda di un alunno, su un oggetto di studio, sulla reazione contenta o annoiata degli studenti, sull’osservazione fatta da un collega, su un disagio più o meno manifesto, su un moto di adesione o di rifiuto rispetto a ciò che si propone, su un colloquio con i genitori, su una lezione andata più o meno bene… è in questo lavoro di accoglienza della realtà che si instaura il dialogo educativo tra un adulto che conquista sé in costante cammino e i ragazzi e le ragazze che si apprestano a diventare grandi e che egli è chiamato ad accompagnare.

Grazie, Edith, di quello che sei, e del cammino che apri per me in questo nuovo anno scolastico.

 Il Sussidiario

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