sabato 28 maggio 2022

LE BABY GANG CI INTERROGANO


 I dati dell’Osservatorio sull’adolescenza: in Italia il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda e il 16% commette vandalismi.

Dopo i quindicenni che terrorizzavano Arezzo ispirandosi alle violenze di “Scarface”, altri 4 minori arrestati a Torino: «Il problema non è più la loro origine o la loro estrazione sociale Questa violenza va capita e intercettata»

Città ostaggio delle baby gang 

«Gli adulti? Servono in strada»

 

-      di FULVIO FULVI

 E' di nuovo allarme “baby gang”. I quattro minori arrestati che seminavano terrore a Torino – dopo quelli che ad Arezzo si ispiravano al personaggio cinematografico di Scarface – sono solo gli ultimi, in ordine di tempo, a finire nelle maglie della giustizia per aggressioni, rapine, minacce, abusi. Il fenomeno riguarda tutto il Paese, soprattutto le grandi città, da Milano a Roma, da Napoli a Palermo. E quasi sempre, ormai, non contano più l’ambiente, la provenienza o il rango sociale di chi si mette nel branco per sentirsi più forte e credendo di trovare così la propria identità. Si tratta di pestaggi tra bande rivali (e spesso ci scappa anche il morto), di atti vandalici rivolti contro la città oppure, come è accaduto nel capoluogo piemontese, di violenze e soprusi contro persone che il “branco” percepisce come più fragili, per ottenerne un tornaconto. Bullismo estremo o qualcos’altro?

 A Torino la banda agiva col cappuccio in testa e un atteggiamento sprezzante, soprattutto nel sottopasso della metropolitana della stazione Carducci, dove puntava tra i passanti una possibile preda, quasi sempre un ragazzo della loro età, che veniva infastidito con molestie verbali, minacciato con un coltello e infine derubato di denaro, del cellulare, della felpa o di un capo firmato. Sempre la stessa, come negli altri casi, la metodica usata. In quattro sono finiti in manette, tra i 15 e i 17 anni, tre italiani e uno di origine marocchina, con l’accusa di rapina aggravata in concorso, tentata e consumata, resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato, lesioni personali e detenzione di armi da taglio. Gli episodi di violenza che vengono attribuiti alla gang di adolescenti, molti dei quali registrati dalle telecamere di sorveglianza, si riferiscono al periodo tra il novembre dell’anno scorso e il febbraio 2022: una decina di “colpi” messi a segno anche nelle vie intorno alla Mole Antonelliana e nella periferia torinese di Nichelino. Gli ordini di custodia cautelare in carcere sono stati emessi dal gip del tribunale dei minori. Ma da gennaio ad oggi i carabinieri hanno arrestato, solo in città, 15 giovanissimi per reati contro il patrimonio, parte di loro appartenenti a bande organizzate, altri 22 sono stati invece denunciati e 13 sottoposti a daspo urbani, due dei quali – inutili – proprio nei confronti dei ragazzini fermati ieri.

 Secondo l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, in Italia il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso vandalismi, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa. Rabbia e disagio sarebbero la molla dei loro comporta-È menti da codice penale. «Il fenomeno delle “baby gang” va però analizzato con molta attenzione, perché, per esempio, se all’inizio riguardava quasi esclusivamente i figli di stranieri, oggi sono i ragazzi italiani a farne parte: il contesto culturale, ma anche quello territoriale, erano aspetti che potevano spiegare il problema, ora non più» spiega Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell’adolescenza all’Università cattolica di Milano. 

«È stata la pandemia da Covid- 19, sicuramente, uno dei fattori che hanno reso più evidenti i disagi e i malesseri psico-sociali dei giovani – precisa Confalonieri –, le misure di restrizione della libertà, come il  lockdown e il distanziamento fisico, hanno allentato fortemente la possibilità di relazioni e incontri, e questo ha esacerbato i comportamenti di molti adolescenti». Ma se la violenza ha preso piede tra i minori la colpa, secondo gli esperti, è soprattutto degli adulti. «I ragazzi hanno capito, infatti, sbagliando, che seguire i modelli dei grandi è l’unica possibilità di sopravvivere – sostiene la psicologa –, altrimenti costerebbe loro troppa fatica, non sentendosi sostenuti da famiglia, scuola e comunità, non trovando risposte ». Cosa serve, allora? «Manca una rete di protezione sul territorio – dice la professoressa Confalonieri –, non ci sono centri di aggregazione, spazi di incontro dove i giovani possono esprimersi con laboratori ed esperienze: però le iniziative non devono essere imposte dagli adulti ma proposte dai diretti interessati». Un lavoro educativo che rovesci le solite logiche. «Andrebbero formati e messi in azione – spiega la docente della Cattolica – educatori di strada che cercano di andare nei luoghi dove i giovani vivono, di parlare con loro e recepirne le istanze, farsi dire quali sono i loro desideri. Ma la politica – conclude – finora non ha dato segnali, esistono certo le associazioni di volontariato, gli oratori, ma non bastano: sono necessarie figure professionali in grado di ingaggiare e sostenere con i ragazzi un dialogo costruttivo: siamo noi che dobbiamo andare da loro e non viceversa». «Va detto, però, che non tutti i comportamenti di offesa, violenza finalizzati all’impossessamento di cose altrui, come nel caso della banda della metropolitana – precisa Franco Prina, docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Torino – sono razionali, perché dietro c’è quasi sempre la voglia di umiliare e prevaricare chi si ritiene essere “più fortunato di me”, portare via il telefonino o la felpa ha un valore simbolico, ha a che fare l’immagine che si vorrebbe avere ed esprime frustrazione e rabbia verso il mondo, è una sfida alle istituzioni». Un’ingenuità: quasi sempre i “bulli” vengono presi. «Anche perché il più delle volte si filmano essi stessi col cellulare e postano sui social le loro malefatte – spiega Prina –, vogliono che altri li vedano, mettano dei like riconoscendoli come soggetti coraggiosi che sfidano il mondo». 

Per fortuna l’Italia non è messa peggio di altri Paesi. «La marginalità dei nostri ragazzi – sostiene il sociologo Prina – è diversa, per esempio, da quella delle banlieu parigine, o da quella dei loro coetanei statunitensi: nelle nostre città non ci sono ghetti; il fatto che li accomuna tutti, però, è la fragilità dei genitori nell’esercitare il ruolo educativo, di avere un controllo sui figli e capire cosa è giusto fare e cosa no. Bisogna intercettare il disagio – conclude anche lui – andando nelle strade e nelle piazze, bisogna lavorare con genitori, insegnanti, ci vorrebbe un “progetto giovani” promosso dalle amministrazioni locali, serve investire su prevenzione e sostegno ai più fragili».

 www.avvenire.it

 

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