mercoledì 11 maggio 2022

LUNANA: A YAK IN CLASSROOM

 


Qualunque sia la condizione che viviamo nella scuola, il suo centro è un io che, in un modo o nell’altro, è messo di fronte a se stesso

UN FILM CHE FA RIFLETTERE

 - di Elisabetta Valcamonica

Il giorno in cui Ugyen avrebbe dovuto tenere la sua prima lezione nel villaggio a cui era stato assegnato, viene svegliato dalla capoclasse che gli dice con estrema gentilezza che i suoi alunni lo stavano aspettando. Un po’ sorpreso, Ugyen si prepara, ma i pensieri che attraversano il giovane maestro nel tragitto che compie dalla sua casa alla scuola non devono essere stati molto diversi da quelli che aveva avuto nei lunghi otto giorni di cammino che aveva compiuto per raggiungere Lunana; quella mattina i suoi pensieri erano anzi aggravati dall’impressione della sera prima quando, guardando le pareti spoglie della sua nuova aula e immaginando le condizioni di vita che lo avrebbero aspettato nei mesi successivi, aveva deciso che lui, lì, non sarebbe riuscito a stare; che non ci voleva stare.

Aveva quindi chiesto al capo del villaggio e all’uomo che lo aveva accompagnato per le montagne di riportarlo indietro. Era questione di giorni, gli asini avrebbero riposato e poi, lasciando certamente gli abitanti un po’ delusi soprattutto per la grande aspettativa con cui avevano atteso il suo arrivo, si sarebbe liberato di un peso e avrebbe potuto continuare a dedicarsi al suo più grande sogno: smettere di fare l’insegnante e costruirsi in Australia una brillante carriera musicale. Era questo, il motivo per cui lo avevano assegnato a Lunana: a causa degli scarsi rendimenti professionali del suo ultimo periodo, occupato per lo più a procurarsi il visto per uscire dal paese, i superiori lo avevano assegnato alla scuola più remota dello Stato e forse dell’intero pianeta.

Sono questi i primi connotati della storia raccontata dal film del buthanese Pawo Choyning Dorji, che esordisce con questa pellicola come regista. Lunana: a yak in the classroom, candidato all’Oscar come miglior film internazionale e distribuito nelle sale italiane con il titolo Lunana. Il villaggio alla fine del mondo racconta la rivoluzione che avviene nell’animo del suo protagonista, richiamando a chi insegna oggi nelle scuole di tutto il mondo (non necessariamente così sperdute) il cuore del compito a cui è chiamato.

Il villaggio in cui viene mandato Ugyen è un villaggio di 56 abitanti a 5mila metri di altitudine, sulle montagne dell’Himalaya al confine tra Buthan e Tibet. Durante l’inverno la neve rende Lunana irraggiungibile. I suoi abitanti sono pastori di Yak, non usufruiscono dell’elettricità e anche i bambini, per giocare, si accontentano di poco. Quando nel suo primo giorno di lezione Ugyen chiede loro cosa vorrebbero fare da grandi si aspetta poco di diverso dall’unica prospettiva che offre loro la valle, la pastorizia. Sorpreso dalle risposte che gli danno, reagisce in prima battuta con manifesto cinismo, buttando lì la prospettiva che per realizzare ciò che desiderano devono lasciare il loro povero villaggio. Ma c’è uno dei loro sogni che inizia a scavargli nell’animo: uno tra i più grandi dei suoi alunni aveva confessato che avrebbe voluto fare il maestro, “perché i maestri toccano il futuro”. Pian piano, nell’animo di Ugyen, attraverso gli incontri che fa con gli abitanti del villaggio, queste parole si fanno strada. Decide di non ripartire, di rimanere a Lunana fino al termine del suo mandato, scoprendo in quel periodo della sua esistenza che è possibile essere felici anche nel qui e nell’ora, di una felicità che è fatta anche della riscoperta della passione per il suo lavoro e che si manifesta in una creatività anche pratica per rendere più bella la scuola del paese e fornire ai suoi alunni la strada verso il futuro.

Quello che ci insegna Ugyen è che qualunque sia la condizione che viviamo nella scuola, il suo centro è un io che si ritrova e per questo non si dà per vinto, arrivando a fare del dono di sé l’albero maestro della sfida educativa. Inizia a scrivere sulle pareti dell’aula, Ugyen; poi si fa costruire una lavagna di legno, fa arrivare dalla città libri e quaderni e, quando finiscono i fogli, si priva silenziosamente della carta tradizionale che nella sua abitazione era stata messa alle finestre per ripararsi dal freddo. Fa lezione con la sua chitarra, si lascia toccare dalle vite dei bambini e delle bambine che gli è dato incontrare in quella remota parte del mondo, e quando lascia Lunana è più ricco, certamente, di prima.

Alla fine del film Ugyen partirà, riuscirà ad andare in Australia. Dal suo ritorno da Lunana al palcoscenico del bar di Sidney dove lo si vede nell’ultima scena il regista lascia un vuoto narrativo. Non sappiamo quello che accade in mezzo. Sappiamo solo che durante un attimo di desolazione per gli avventori distratti del locale per cui la sua presenza è solo un sottofondo musicale del loro momento di svago, Ugyen interrompe la sua canzone e intona un canto tradizionale di Lunana.

Quello che è vero, nella vita come nella scuola, rimane. Ed è per questo che, nel momento storico in cui ci troviamo, la visione di questo film può aprire tracce di riflessione, sostegno e speranza in chi nella scuola lavora nella ricerca di ciò che gli è essenziale.

 Il Sussidiario

 

 

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