Minacce di morte per l’autrice di Harry Potter
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di Giuseppe Savagnone*
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Può sorprendere che, nel nostro tempo, ci siano ancora dei dogmi di cui è
molto pericoloso mettere in discussione la verità e che esista una nuova
versione dell’Inquisizione, impegnata a perseguitare chi li contraddice.
Ancora più sorprendente può apparire il fatto che queste esplosioni di
fondamentalismo si stiano verificando non nell’Afghanistan dei talebani, di cui
sulla nostra stampa si è giustamente denunciata l’intolleranza, ma nel Paese
occidentale tradizionalmente all’avanguardia nella lotta per i diritti di
libertà, il Regno Unito. Proprio questa collocazione, peraltro, rende il fenomeno
un inquietante sintomo di tendenze che da tempo affiorano in varie parti
d’Europa e di cui abbiamo le avvisaglie anche in Italia.
Mi riferisco alla vicenda – per la verità non molto evidenziata sui nostri
quotidiani – che coinvolge la notissima scrittrice Joanne Rowling, meglio
conosciuta con lo pseudonimo di J. K. Rowling. Ormai da circa tre
anni la creatrice della saga di Harry Potter è oggetto di un vero e proprio
linciaggio morale per le sue posizioni sul tema del gender. Ora sembra si stia
passando a un livello più alto di aggressività, che comporta anche una minaccia
fisica.
Proprio in questi giorni tre attivisti per i diritti dei transgender hanno
pubblicato sui social la fotografia della villa dove la Rowling abita con il
marito e i figli, additandola evidentemente come bersaglio per azioni
“punitive”. La Rowling ha risposto ribadendo la sua risoluta volontà di
resistere anche a questo tipo di pressioni: «Dovrebbero riflettere», ha
dichiarato, «sul fatto che ho ricevuto così tante minacce di morte che potrei
tappezzare la casa, ma non ho smesso di parlare».
Da parte sua, il premier britannico Boris Johnson ha espresso, tramite un
suo portavoce, la propria solidarietà alla scrittrice: «Nessun individuo
dovrebbe essere preso di mira in quel modo. Tutti hanno il diritto di essere
trattati con dignità e rispetto e le persone devono essere in grado di
condividere le proprie opinioni allo stesso modo».
Si ha il diritto di dire che le donne
sono donne?
L’episodio in questione è solo l’ultimo capitolo di una vicenda che si
svolge ormai da quasi tre anni e che vede coinvolti non soltanto degli isolati
fanatici, ma l’opinione pubblica inglese.
Tutto è cominciato alla fine del 2019, quando Maya Forstater, una
ricercatrice del Center for Global Development, si era espressa su Twitter
contro alcune proposte di riforma (poi in realtà respinte) del “Gender
Recognition Act”, che prevedevano il cosiddetto self-id o
autocertificazione di genere: in parole povere la possibilità per chiunque di
decidere in totale libertà a quale genere appartenere, a prescindere dal
proprio sesso biologico e senza alcuna diagnosi, perizia o sentenza.
«Gli uomini non possono trasformarsi in donne», aveva scritto senza mezzi
termini, in quell’occasione, la Forstater. Quando, per questo suo intervento,
non le era stato rinnovato il contratto, la ricercatrice aveva fatto ricorso al
tribunale, che però aveva confermato il licenziamento giustificandolo con la
sua visione «assolutistica» e con le sue idee non «degne di rispetto in una
società democratica».
A proposito di questa vicenda la Rowling era intervenuta su Twitter:
«Vestitevi come volete», aveva scritto. «Chiamatevi come volete. Andate a letto
con ogni adulto consenziente che volete. Vivete la vostra vita al massimo, in
pace e sicurezza. Ma far perdere il lavoro a una donna per aver dichiarato che
il sesso è una cosa reale?». Le comunità Lgbt sono insorte contro questa
presa di posizione e l’avevano aspramente criticata.
Ma era solo l’inizio di un contrasto destinato ad acuirsi sempre di più.
Perché pochi mesi dopo, nel giugno 2020, la Rowling, sempre su Twitter, è di
nuovo intervenuta, ironizzando sul titolo di un articolo dove si auspicava un
mondo più equo «per le persone che hanno le mestruazioni»: «Sono sicura» –
scriveva – «che ci fosse una parola per definire quelle persone. Qualcuno
mi aiuti. Wumben? Wimpund? Woomud?»: ma sì, il termine censurato era “Women”,
“donne”.
Di nuovo pioggia di critiche per questa sottolineatura della dimensione
sessuale dell’identità femminile. Il giorno dopo, la scrittrice ha provato a
fare chiarezza twittando: «Conosco e amo le persone trans, ma cancellare il
concetto di sesso significa rimuovere la capacità di molti di discutere in modo
significativo delle loro vite. Dire la verità non vuol dire odiare». Ma il suo
sforzo di dialogo non ha avuto successo.
Neppure quando ha ribadito che il suo intento non era di mettere in
discussione «il diritto di ogni persona transgender di vivere nel modo che
ritenga più autentico e adeguato.». A questo proposito, anzi, precisava:
«Marcerei con voi se foste discriminati per il fatto di essere trans. Allo
stesso tempo, la mia vita è stata modellata sull’essere donna. Non credo che
questo sia deprecabile dirlo».
A nulla è valso neanche il riferimento autobiografico, pubblicato sul suo
sito, in cui raccontava alcune traumatiche esperienze vissute da ragazza per
spiegare la sua convinzione che sia necessario mantenere spazi dedicati alle
donne. «Quando apri le porte di bagni e spogliatoi a ogni uomo che si crede
donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare. Questa è
la semplice verità».
Una vicenda italiana
È esattamente la stessa difficoltà sollevata in Italia da 17 associazioni
femministe, tra cui Arcilesbica, a proposito della definizione, contenuta
nell’art. 1 del ddl Zan, dell’«identità di genere»: «Per identità di genere si
intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere,
anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un
percorso di transizione».
Le associazioni femministe avevano obiettato che una simile visione non
rispetta la peculiarità dell’identità femminile e i suoi spazi propri. E
citavano un caso di attualità verificatosi negli Stati Uniti: «In California
261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in
carceri femminili». Con grande allarme delle donne in senso biologico detenute
in queste carceri.
Ma si potrebbe pensare anche al problema delle gare sportive e a tutti gli
altri casi in cui un maschio potrebbe rivendicare il diritto di essere
considerato “donna” perché “si sente” tale, senza alcuna ulteriore verifica di
ordine medico. Nel documento delle associazioni femministe si osserva: «Il
“genere” in sostituzione del “sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato
alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o
che dicono di percepirsi “donne”».
Tra isolamento e solidarietà
Sta di fatto che la polemica contro la Rowling è montata sempre di più.
Anche gli attori che avevano recitato nei film ispirati alla saga creata dalla
scrittrice l’hanno attaccata. «Le donne transgender sono donne», ha ribadito
Daniel Radcliffe, alias Harry Potter. E l’attrice Emma Watson, Hermione nelle
pellicole sul maghetto: «I trans meritano di vivere la loro vita senza che
siano altri a definirli».
A difendere la Rowling, tra questi interpreti, è rimasto solo Ralph
Fiennes, che nella saga cinematografica su Harry Potter ha rivestito il ruolo
del “cattivo”, Lord Voldemort: «Trovo questa epoca di accuse e il continuo
bisogno di condannare semplicemente irrazionali. Trovo inquietante il livello
di odio che le persone esprimono nei confronti di chi ha opinioni diverse dalle
loro, e la violenza del linguaggio verso gli altri».
In questo clima fortemente critico, la scrittrice è stata però anche
supportata nell’opposizione a politically correct e cancel culture da 150
intellettuali – tra cui Noam Chomsky, Salman Rushdie, Margaret Atwood (autrice
femminista, ma a sua volta accusata aspramente di non esserlo abbastanza) e la
stessa J.K. Rowling, – che, in una lettera aperta pubblicata su «Harper’s
Magazine» nel luglio 2020, hanno denunciato il pericolo di una nuova
intolleranza che finisce per reprimere la libertà di pensiero e parola.
Quello della Rowling non è un caso
isolato
Il problema, infatti, non riguarda solo Joanne Rowling. Si è già accennato
prima al fatto che lei stessa è entrata nel vortice degli attacchi per aver
difeso una ricercatrice, Maya Forstater, licenziata per aver contraddetto
pubblicamente le tesi del movimento Lgbt. Ma si possono fare altri nomi.
Il più noto, forse, è quello di Kathleen Stock, docente di filosofia
dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del
titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti
accademici.
La Stock qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e
l’insegnamento a causa delle minacce, e alle persecuzioni cui studenti e
colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate
come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di
genere. Le intimidazioni nei suoi confronti erano giunte a un punto tale da
indurre la polizia a farle ingaggiare una guardia del corpo, installare camere
di videosorveglianza davanti a casa, nonché darle un numero di emergenza
da chiamare in caso di pericolo. Da qui le forzate dimissioni.
È solo un esempio e non certo isolato, se nel febbraio 2021 il ministro
dell’Istruzione Gavin Williamson si è detto preoccupato perché «sempre più
spesso, negli atenei britannici, i docenti vengono zittiti o censurati». Si
noti, peraltro, che questa intolleranza, pur minacciando tutti (se non altro
come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne
impegnate in una professione intellettuale, specie se femministe.
Non si accetta che proprio loro, pur nel pieno rispetto di tutte le
possibili variabili, ribadiscano il sussistere delle identità sessuali e della
differenza tra quella maschile e quella femminile. Il caso del Regno Unito è
emblematico di un pericolo con cui oggi anche in Italia siamo chiamati a
confrontarci.
È giusto riprendere i problemi reali a cui il ddl Zan voleva far fronte,
problemi che non possono essere considerati certo superati per il suo
affossamento. Ma nel farlo bisognerà tenere presente il contesto culturale
in cui ci muoviamo, per evitare che il giusto rispetto per alcune categorie di
persone si traduca in una minaccia alla libertà di pensiero e di espressione di
tutti gli altri.
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